La Voce è il titolo di una rivista che nacque a Firenze nel 1908, e che fu di fondamentale importanza, non soltanto nell’ambito della letteratura italiana, poiché, nelle sue pagine, si possono leggere articoli firmati da notissimi personaggi del primo Novecento, che vanno dalla politica alla filosofia, dall’economia all’arte. Tra i collaboratori della Voce, infatti, si citano i nomi di Benedetto Croce, Giuseppe Lombardo Radice, Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini, Ildebrando Pizzetti, Luigi Einaudi, Renato Serra ecc. Tenendo però in considerazione soltanto la letteratura, e in particolare la poesia, si può affermare che questa rivista, per gran parte del secondo decennio del Novecento, fece tendenza, e fu grazie alla Voce che si affermò il cosiddetto “frammentismo poetico”; questo possedeva, quale requisito di spicco, un espressionismo di valore e tutto italiano, ed era rappresentato da scrittori come Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Clemente Rebora, Piero Jahier, Camillo Sbarbaro, Scipio Slataper, Giovanni Boine, Dino Campana, Arturo Onofri, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Aldo Palazzeschi e Corrado Govoni (gli ultimi due già notevoli esponenti di precedenti avanguardie poetiche: crepuscolarismo e futurismo). Il primo numero della Voce, uscì il 20 dicembre del 1908; l’ultimo, fu pubblicato il 31 dicembre del 1916. La rivista fiorentina, durante la sua esistenza, attraversò diverse fasi; la prima, in cui fu diretta da Giuseppe Prezzolini, e che durò dall’anno della nascita all’ottobre del 1914, ebbe un orientamento nettamente politico; una seconda fase, brevissima e assai meno felice, perché vide l’allontanamento di due eminenti personalità come Papini e Soffici, può essere identificata nel periodo che va dal novembre 1914 al dicembre dello stesso anno. La terza ed ultima fase invece, ebbe la durata di due anni (dicembre 1914 – dicembre 1916) e fu caratterizzata dalla direzione di Giuseppe De Robertis, il quale le diede un indirizzo prettamente letterario; durante codesta fase, la rivista venne definita “Voce bianca”, in riferimento al colore della sua copertina. Parlando soltanto di poesia italiana, si può affermare che La Voce rivesta un’importanza particolare, non paragonabile ad altre riviste dell’epoca, poiché, ospitando i versi di giovani poeti dotati di un talento eccezionale, pose le basi per quella che sarebbe stata definita la “poesia pura”, e che, a sua volta, avrebbe ispirato i poeti delle successive generazioni (Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, Luzi, Bigongiari ecc.) che furono chiamati “ermetici”. Chiudo riportando tre testi poetici famosi, i cui autori sono rispettivamente: Umberto Saba, Corrado Govoni e Vincenzo Cardarelli; la poesia iniziale appartiene alla prima fase della rivista fiorentina, mentre le altre due fanno parte della terza.
TRE VIE
di Umberto Saba
C’è a Trieste una
via dove mi specchio
nei lunghi giorni
di chiusa tristezza:
si chiama Via del
Lazzaretto Vecchio.
Tra case come
ospizi antiche uguali,
à una nota, una
sola, d’allegrezza:
il mare in fondo
alle sue laterali.
Odorata di droghe
e di catrame
dai magazzini
desolati a fronte,
fa commercio di
reti, di cordame
per le navi: un
negozio à per insegna
una bandiera;
nell’interno, volte
contro il
passante, che raro le degna
d’uno sguardo,
coi volti esangui e proni
sui colori di
tutte le nazioni,
le lavoranti
scontano la pena
della vita,
innocenti prigioniere,
cuciono tetre le
allegre bandiere.
A Trieste ove son
tristezze molte,
e bellezze di
cielo e di contrada,
c’è un’erta che
si chiama Via del monte.
Incomincia con
una sinagoga,
e termina ad un
chiostro; a mezza strada
ha una cappella;
indi la nera foga
della vita
ammirare puoi da un prato,
e il mare con le navi
e il promontorio,
e la folla e le
tende del mercato.
Pure a fianco
dell’erta è un camposanto
abbandonato, ove
nessun mortorio
entra; non si
sotterra più, per quanto
io mi ricordi; il
vecchio cimitero
degli Ebrei, così
caro al mio pensiero,
se vi penso ai
miei vecchi, dopo tanto
penare e
mercatare, là sepolti;
simili tutti
d’animo e di volti.
Via del monte è
la via dei santi affetti,
ma la via della
gioia e dell’amore
è sempre Via
Domenico Rossetti.
Questa verde
contrada suburbana,
che perde dì per
dì del suo colore,
che è sempre più
città, meno campagna,
serba il fascino
ancora dei suoi belli
anni, delle sue
prime ville, sperse,
dei suoi radi
filari d’alberelli.
Chi la passeggia
in queste ultime sere
d’estate, quando
tutte sono aperte
le finestre, e ciascuna
è un belvedere,
dove agucchiando
o leggendo si aspetta;
pensa che forse
qui la sua diletta
rifiorirebbe
all’antico piacere
di vivere, di
amare lui, lui solo;
e a più rosea
salute il suo figliolo.
(da «La Voce», 7
novembre 1912)
LA PRIMAVERA DEL
MARE
di Corrado Govoni
Anche il mare ha
la sua primavera:
rondini all’alba,
lucciole alla sera.
Ha i suoi
meravigliosi prati
di rosa e di
viola
che qualcuno
invisibile là falcia
e ammucchia il
fieno
in cumuli di
fresche nuvole.
Si perdon le
correnti
come le pallide
strade
tra le siepi dei
venti
da cui sembra
venire nella pioggia
come un amaro
odore
di biancospino in
fiore.
E certo nella
valle più lontana
un pastore
instancabil tonde
il suo gregge
infinito d'onde
tanta è la lana
che viene a
spumeggiare sulla riva.
Verdognolo e
lillastro come l’arcobaleno
gemmeo elastico
refrigerante,
d’accordo con il
cielo
profondo arioso
concavo specchiante
come il cristallo
con il fiore,
tutto abbandoni e
improvvise malinconie
come il primo
amore.
Così fresco ed
azzurro
come se
trasparissero
dalla sua
limpidità
le sue tacite
foreste
sottomarine
avvinghiate di
alghe serpentine
quest’edera senza
foglie,
scorse dai freddi
scivolii
di pesci di
maiolica e d’argento
alati come
uccelli muti,
tra i coralli
irrigiditi
questi peschi
sempre fioriti.
Son le rondini
fisse le conchiglie.
E le lucciole
enormi son le seppie morte,
lanterne sorde
di palombari
annegati
fari di naufraghi
pericolati.
Una barca con
un’immensa vela
sembra qualche
straccione
fermo in un
crocevia sotto l’ombrello,
in attesa che
passi l’acquazzone.
(da «La Voce», 15
marzo 1915)
RITRATTO
di Vincenzo
Cardarelli
Esiste una bocca
scolpita,
un volto
d’angiolo chiaro e ambiguo,
una opulenta
creatura esangue
dai denti di
perla,
dal passo
spedito,
esiste il suo
sorriso,
aereo, dubbio,
lampante,
come un
indicibile evento di luce.
(da «La Voce», 30
giugno 1916)
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