Difficilissimo
trovare una persona che non ami almeno un genere musicale, e chiunque ami la
musica ha uno o più strumenti preferiti (io, ad esempio, amo il violino e gli
strumenti ad arco in generale). C'è poi chi la musica preferisce ascoltarla
solamente, e chi, invece, decide di suonarla o addirittura di comporla; questi
ultimi, in genere, scelgono uno strumento musicale che più li aggrada, e lo
utilizzano - sia per passatempo che per studio o professione - fino a diventare
dei suonatori più o meno specializzati. In queste dieci poesie si parla,
appunto, di strumenti musicali; ce ne sono di vario genere, compresi quelli che
ormai non si usano più da secoli, come il liuto ed il clavicembalo, perché
sostituiti da altri più moderni; ve ne sono a corda, ad archi ed a fiato; tra
questi ultimi, in una poesia si parla dello "zufolo": strumento
rustico che in tempi ormai lontani veniva suonato dai pastori e dai contadini.
In pressoché tutti i componimenti, si respira un'aria di passato remoto,
poiché, già da un po' di anni a questa parte, la musica - come altre discipline
artistiche - ha perso d'importanza, e di conseguenza anche gli strumenti
musicali, fondamentali insieme alla voce umana per la creazione di musica,
risultano sempre più trascurati dalla poesia contemporanea, e questo, inutile
forse dirlo, è un vero peccato.
GLI STRUMENTI
MUSICALI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI
IL PIANOFORTE
di Cosimo
Giorgieri Contri (1870-1943)
Tutto qui parla
del passato: ed io
son come una
tornante ombra che vede
rifiorir sotto il
suo tacito piede
fiori già vizzi
in poggio solatio.
Dolce prodigio! E
il cuor ne trema. Oh cose
non periture,
ch'io ritrovo uguali!
Tu sol sapesti, o
sogno, i funerali
e la tua tomba è
qui, sotto le rose.
Valico lento
l'atrio, composto
in quale antico
suo ricordo ancora?
Ecco le stanze
dove riodora
per me l'odore di
quel morto Agosto.
Quella finestra
oh non è chiusa? E viene
da quell'angolo
un suon di pianoforte?
Ah! Le tue mani
in altre opere assorte
qua l'obliato
cembalo ritiene?
Furon quei
giorni; e Giovinezza, come
eco di suono,
dileguò con loro:
per l'aperta
finestra il pallido oro
del sole invan
ricerca le tue chiome:
come quel dì che
sul leggìo chinasti
la bella fronte,
interrompendo il canto...
Levo il
coperchio. Un lor tacito pianto
piangon l'avorio
e l'ebano dei tasti.
(dalla rivista
«Nuova Antologia», marzo 1906)
IL LIUTO
di Arturo Graf
(1848-1913)
Il suo nome perì;
ma dura in terra
La gracil opra
dell’audace ingegno,
L’opra che in
poche corde e in picciol legno
Tante accese e
frementi anime serra.
Spesi egli avea
molt’anni già, tentando
E ritentando
d’infrenar nei cavi
Lombi gli agili
ritmi e le soavi
Note che in mente
gli fiorian cantando.
Molti e molt’anni
invan: sempre l’ignava,
Insensata materia
al pazïente
Di sue mani artificio,
al voto ardente
Dell’indomito cor
si ribellava.
Stanco alla fine
e disperato e fisso
In un pensier
meraviglioso e scuro,
Una notte, con
orrido scongiuro,
Satana svelse dal
profondo abisso.
Fuor dalle zolle
lacerate ed arse,
Fulminando
schizzò nell’aer cieco
L’angiol
d’inferno, e tracotante e bieco
Gridò: Che vuoi?
sien le parole scarse.
Quegli prese a
parlar: Di pompe e d’oro
E di piacer nulla
vaghezza io sento;
Ma sol di questo
picciolo strumento,
Solo di questo, o
Satana, m’accoro.
Dell’anima che
spera, ama, desia,
Piange e si
cruccia, in queste lignee foci
Io sognai di
raccor tutte le voci;
Ma non resse al
voler l’industria mia.
Che deggio far?
pace non ho dappoi
Che m’ingombra
quel sogno; e mi consumo
Tutte veggendo
dileguarsi in fumo
Le mie speranze.
Ajutami, se puoi.
Com’ebbe udito,
una ed un’altra volta
Il maledetto con
pupille accese
Guatò ghignando
il dilicato arnese,
Poi: Buon
consiglio saprò darti: ascolta.
Una vergine
uccidi, a cui, pur ora
Nato, nel core il
primo amor s’annidi;
Un cavaliere
innamorato uccidi,
A morir pronto
per colei che adora.
Uccidi un
trovator dalla cui bocca
Sgorghi soave e
lusinghiero il canto;
E una pentita,
che in preghiere e in pianto
L’anima versi
dalla grazia tocca.
Uccidi un
pellegrin che in duro esiglio
Chiami la patria
straziata e cara;
E una madre, che
steso entro la bara
Vegga il corpo
dell’unico suo figlio.
Uccidi; e in nome
mio, la croce infranta,
Oltraggiato colui
cui più non servi,
Nel cavo legno e
nei distesi nervi
Le fremebonde,
ignude anime incanta.
Disse, sparì.
L’artefice ossequente
Giusta il
precetto uccise, e nelle sorde
Fibre del legno e
nelle tese corde
L’anime
imprigionò perfidamente.
Ed ecco ha vita e
sentimento e umana
Voce il lïuto, e
di sì dolci note
Susurreggiando
l’anime percote
Che dalla terra
le rapisce e strana.
Egli dannato fu,
senza perdono;
Ma dal lïuto
donne e trovatori,
E su nel cielo
gli angeli canori,
Traggono accenti
d’ineffabil suono.
(da "Dopo il
tramonto", Treves, Milano 1893)
IL FLAUTO
di Giuseppe Lipparini
(1877-1951)
Con la corteccia
di un ramo di pioppo ho foggiato il mio flauto,
siccome un antico
pastore.
Fremono i
mandorli in fiore al soffio dei tepidi venti:
la terra si
scioglie e si dà.
Lancio la melodia
per i sette fori del flauto,
e l'aria n'è
piena e stupisce.
Sale così la mia
pena col canto di là da le vette,
compagna raminga
a le nuvole
che su la fresca
vallata si affacciano come le donne
nei chiari
mattini ai balconi.
(da
"L'ansia", Puccini, Ancona 1913)
FORSE...
di Tito Marrone
(18812-1967)
Il clavicordo
geme
ne l'ora
taciturna.
Sì come chiude
un'urna
tesori, l'onda
freme
melodia fra le
corde.
Malinconia.
E ne li arazzi
sale
l'ignota melodia.
(da "Le
Gemme e gli Spettri", Boheme, Palermo 1901)
VIOLONCELLI
di Eugenio
Montale (1896-1981)
Ascolta il nostro
canto che ti va nelle vene
e da queste nel
cuore ti si accoglie,
che pare,
angusto, frangersi: siamo l'Amore, ascoltaci!
Ascolta il rosso
invito del mattino
che rapido
trascorre come ombra d'ala in terra;
assurgi dal
vivaio dei mortali
d'opaca terra, ignari
d'ogni fiamma,
e seguici nel
gurge dell'Iddio
che da sé ci
disserra,
echi della sua
voce, timbri della sua gamma!
Come l'esagitato
animo allora
esprimerà
scintille che giammai
avresti
conosciute! La tua forma
più vera non
capisce ormai nei limiti
della carne: t'è
forza di confonderti
con altre vite e
riplasmarti tutta
in un ritmo di
gioia; la tua scorza
di un dì, non
t'appartiene più. Sarai
rifatta
dall'oblio, distrutta dal ricordo,
creatura d'un
attimo. E saprai
i paradisi
ambigui dove manca
ogni esistenza:
seguici nel centro
delle parvenze:
(ti rivuole il Niente!).
(dalla rivista
«Primo Tempo», giugno 1922)
LA CORNAMUSA
di Angiolo
Orvieto (1869-1967)
I
Suono di
cornamusa lento lento
nell'aria
solitaria e grigia io sento:
eco lontana,
fievole lamento,
suono di
cornamusa lento lento.
II
O lento suon di
cornamusa, alfine
dopo tanto
silenzio riudito,
sei forse l'ombra
delle mie divine
malinconie? sei
forse un mesto invito?
Donde? Dai giorni
dell'adolescenza
tenera? o pur dai
giorni dell'amore?
O rechi il gemmeo
sogno delle aurore
montane nella tua
molle cadenza?
Prati su l'alba,
o suon di cornamusa,
e, presso, le
montagne alte di neve;
e tu t'effondi
pel silenzio greve,
lento lamento
della cornamusa.
III
Deh non cessare,
cornamusa lenta;
versami tutta in
cor la tua parola
che ammonisce
nell'ombra e che rammenta.
Ch'io mi profondi
in lei, ch'io mi risenta
qual ero allora,
simile ad aiuola
in cui germogli
tenera sementa.
(da
"Primavere della cornamusa", Bemporad, Firenze 1925)
SCHERZO PER
VIOLINO
di Antonio Rubino
(1880-1964)
Del lirico violin
gratta i budelli
già il musicante,
che dentro mi frulla,
e, stecche
mugolii trilli strimpelli
arrabattando, le
dita si sgrulla,
e fa un così
arruffato tafferuglio,
che n'ho la testa
balorda e citrulla.
Corpo d'un
cancro! Già che va in subuglio
il pentolin, che
tengo nella nuca,
ingarbugliamo
qualche guazzabuglio,
o frizzo, o
ghiribizzo, o fanfaluca.
Un frizzo o
ghiribizzo, che ingrovigli
un rachitico
intrico di reticoli
fiorito di
stentorei sbadigli,
poi pallidette
cabalette articoli,
donde sprizzino
triti brii di trii
e piccoli
amminicoli ridicoli,
fincè il trillo
s'immilli in cinguettii
minimi, e con
singulti gutturali
muoia di noia in
lunghi omèi giulii,
cuculiando
cobbole nasali.
(da "Versi e
disegni", Selga, Milano 1911)
CHITARRA SPAGNOLA
di Domenico
Tumiati (1874-1943)
Nel crepuscolo
tace
La chitarra
spagnola:
Da gran tempo
ogni corda
S'addormì;
Un sogno la
consola:
Oh mani delicate
Risvegliano
l'accordo
Che morì.
Entro la stanza
buia,
Di primavera il
vento
Con le labbra
rosate
Viene e va.
Fremono le celate
Corde di seta e
argento,
E un sommesso
lamento
Vi ristà.
Nel suo fragile
seno,
La muta
pellegrina
Rimpiange i
minareti
Che lasciò.
Quando venne per
l'arco
D'oro de la
marina,
E i fulgidi
aranceti
Che sfiorò.
Come dolce
sarebbe
Udire la tua
voce,
O lira armoniosa
Di Madrid,
Se mormorassi
appena
Una danza veloce,
Una vecchia romanza
Del gran Cid!
Piedini
irrequieti
E follie di
gitane,
Di Cordoba e
Granada
I visir;
De l'Alhambra i
roseti,
Sieste
castillane,
E andaluse sul
Guadalquivir...
Ne la polka
coqueta,
Ne la blanda
habanera,
Vengono questa
sera
Verso me?
«Jasmin y
violeta?...
Ne l'attimo
ripresa.
La jota aragonesa
Forse è?
Il tuo sandalo
lieve,
Come arpa
risuona:
Ecco vibra
l'accordo
Di mi-mi...
Si discioglie la
neve
Su i tetti a
Barcellona?
O una rosa sul
Tago
Rifiorì?
Si sveglia ne
l'hamaca
Una piccola dea
Che ha due gigli
per mani
E per piè?
O il tinnulo
monile
D'errante
bajadera,
Su i monti
lusitani
Risplendè?
Da due labbra di
fuoco
Sovra gota
vermiglia,
Un bacio violento
Si stampò?
O sorrisero al
sole
Le torri di
Siviglia,
O un'arma di
Toledo
Balenò?
(da
"Liriche", Treves, Milano 1937)
IL PICCOLO
PASTORE
di Diego Valeri
(1887-1976)
Lento dolce
canta, lento dolce piangi,
o mio piccolo
sufolo!
Sei tu che
spandi,
lassù pel cielo
di tenero colchico,
quella tremula
danza
di farfalle e di
petali d'oro?
Le foglie del
pioppo sospirano
sommesse,
quaggiù;
le piccole povere
foglie vorrebbero anch'esse
volare
salire
svanire
lassù...
E lui pure, lui
pure, il mio piccolo cuore
trema e stormisce
in un'ansia di voli infiniti
per infiniti
silenzi di cielo.
Lui pure, il mio
piccolo cuor prigioniero
vorrebbe salire -
leggero -
svanire,
svanir tra la
tremula danza
delle farfalle e dei
petali d'oro,
lassù...
Lento dolce
canta, lento dolce piangi,
o mio piccolo
sufolo!
Lento dolce
canta, lento dolce piangi,
o mio piccolo
cuore!
(da
"Crisalide", Taddei, Ferrara 1919)
L'ARPA DEL
MENDICANTE
di Mario Venditti
(1889-1964)
No: non dite che
suona l'arpa
quel cencioso
dalla bizzarra
papalina nera e
scarlatta
più sdrucita
della zimarra
e che a un piede
porta una scarpa
ed ha l' altro in
una ciabatta.
Perché s'abbia
un'arpa, non basta
un qualunque
simile ordegno
a tre lati dalla
fatale
ossatura di vecchio
legno
rabescato più o
meno guasta
e un più o meno
vano pedale.
V'è bisogno: di
mani snelle
che trasvolino su
le corde
come tortore
imprigionate;
della danza in
ritmo concorde
d'una qualche
ciocca ribelle
a fragranti
trecce annodate;
di due labbra
color vitalba
che, fra un
diesis e un si bemolle,
sembrino altre
corde più brevi,
mentre — come
bianche corolle
al presentimento
dell' alba —
si dischiudan
pàlpebre lievi.
E che, in fine,
fra i sol e i la,
una lampada stile
impero
a uno specchio
già centenario
volga gli occhi
di taffetà
rosa o azzurro
anche è necessario,
perché s' abbia
un'arpa da vero.
(da "Il
cuore al trapezio", Taddei, Ferrara 1921)
Joseph DeCamp, "The Guitar Player"
(da questa pagina web)
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