Poesie scritte col lapis, pubblicata
dall'editore Ricciardi di Napoli nel 1910, è la raccolta di versi più famosa di
Marino Moretti (Cesenatico 1885 - ivi 1979). Il poeta romagnolo, in virtù di quest'opera, ottenne una buona notorietà, grazie anche ad un famoso articolo di Giuseppe Antonio
Borgese, uscito lo stesso anno sul quotidiano La Stampa, in cui il Moretti, accomunato ad altri due poeti: Fausto
Maria Martini e Carlo Chiaves, fu definito per la prima volta "poeta
crepuscolare". Anch'io penso che questa raccolta sia la migliore di Marino
Moretti, soprattutto perché fa da spartiacque rispetto al suo modo di comporre
versi; le prime due opere poetiche - che precedono Poesie scritte col lapis - rappresentarono per l'autore una sorta
di apprendistato; le due successive, rappresentarono invece una
"ripetizione con varianti" della citata e giustamente celebrata
raccolta del 1910. Successivamente Moretti abbandonò la poesia per dedicarsi in
modo assiduo alla prosa narrativa; soltanto negli anni della vecchiaia tornò a
pubblicare altre raccolte di versi, che certamente non posseggono le attrattive
delle precedenti.
Poesie scritte col lapis comprende in
tutto 68 componimenti poetici, suddivisi nelle seguenti sezioni: Il mondo; Le domeniche; Signorine di
provincia; Nostalgia; Hortulus animulae; Alcune poesie scritte con la penna. Nella prima di queste, il
titolo spiega solo parzialmente il contenuto; nei versi qui presenti, infatti,
viene descritto un mondo del tutto soggettivo, immerso nel grigiore di una
quotidianità senza alcuna attrattiva, dove la noia, la sensazione della propria
inutilità e di una evidentemente percepita inadeguatezza al vivere, dominano su
tutto il resto. Il discorso non cambia nella seconda sezione, dedicata alle
domeniche: tema così caro a certi poeti simbolisti e decadenti come Georges
Rodenbach e Jules Lafourge; qui si trovano alcune tra le poesie più
antologizzate di Moretti, come La
domenica della signora Lalla, in cui il poeta ricorda con struggente
malinconia la sua maestra di scuola. Nella terza sezione divengono protagoniste
le "signorine di provincia": giovani donne che il poeta ha conosciuto
e a cui, in qualche modo, ancora si sente parecchio legato. In Nostalgia, si trovano i versi più
malinconici, pregni di ricordi lontani (per lo più dell'infanzia) e felici;
Moretti aguzza la memoria e sciorina una serie di personaggi, oggetti e luoghi
che gli sono rimasti impressi; è un mondo favoloso, in cui il poeta riesce
ancora ad immedesimarsi, rivivendo la sua fanciullezza tramite la scrittura.
Nella sezione intitolata Hortulus
animulae, sono presenti poesie di vario genere: alcune, come Suor Benedetta, decisamente tragiche, ed
altre, come Il mondo e mia sorella o Riderella, scherzose e allegre; qui si
trova anche il poema Il giorno dei morti,
che ricorda molto l'omonimo componimento del Pascoli: poeta fondamentale per
Moretti, sia in questa raccolta che nelle precedenti e successive. Chiude il
libro la sezione Alcune poesie scritte
con la penna, dove si nota la presenza di sonetti e quartine che mostrano
una maggiore seriosità rispetto al resto della raccolta.
A titolo di riassunto,
si possono identificare alcuni temi portanti delle Poesie scritte col lapis: la
noia, le domeniche, la provincia, la famiglia. In un mondo provinciale chiuso,
grigio e noioso, dove anche i giorni di festa trascorrono senza impeto e gioia,
il poeta trova scampo al suo malessere cronico grazie a specifiche evasioni
intellettuali, che si indirizzano verso i ricordi dell'infanzia e
dell'adolescenza; ma ha la sua importanza anche l'ambiente famigliare, poiché
soltanto qui egli ritrova gli affetti veri e insostituibili, che gli
garantiscono quel minimo di serenità e gli consentono di proseguire il
tormentato percorso esistenziale senza cadere nella disperazione. Grazie a
questo volume, Moretti diverrà il poeta crepuscolare per eccellenza, avendo
rielaborato in modo sintetico e ineccepibile, i temi dei poeti - sodali o amici
- che lo avevano preceduto: Govoni, Corazzini e Gozzano.
Dopo l'edizione
del 1910, a quanto ne so, è stata pubblicata solamente un'altra che si può
definire perfettamente fedele all'originale; da essa, ho estratto due tra le
poesie più ricordate e più antologizzate del poeta romagnolo.
CHE VALE?
Chinar la testa
che vale,
che vale fissare
il sole
e unir parole a
parole
se la vita è
sempre uguale?
Si discorre
d'avvenire?
Si rammemora il
passato?
Chi è vivo deve
morire,
chi è morto è
bell'e spacciato!
Poeti, dolci
fratelli,
perché far tanto
susurro
se un lembo di
cielo è azzurro,
se son biondi dei
capelli?
Un po' d'azzurro
(che vale?)
ed un po' d'oro,
un riflesso
d'oro... Ma il
mondo è lo stesso,
ma la vita è
sempre uguale!
Non c'è né duolo,
né gioia,
non c'è né odio,
né amore:
nulla! Non c'è
che un colore:
il grigio, e un
tarlo: la noia.
Chinar la testa
che vale?
Che vale fissare
il sole?
Ciò che vorresti
non vuole
quei ch'è più
forte, o mortale!
Non c'è né duolo,
né gioia,
non ci son luci,
né ombre:
il grigio, il
grigio che incombe
sui cuori, e il
tarlo: la noia!
Questa è la
strada del bene,
questa è la
strada del male:
star troppo a
sceglier che vale?
Peuh! Quella che
viene, viene!
(da "Poesie
scritte col lapis", Palomar, Bari 1992, pp. 20-21)
LA DOMENICA
Chinar la testa
che vale?
E che vai nova
fermezza?
Io sento in me la
stanchezza
del giorno
domenicale;
del giorno in cui
non si fa nulla
fuorché il triste
cuore sperso,
e in cima alla
mente un verso
troppo noto che
ci culla;
del giorno in
cui, spento ogni
rumore, la casa è
vuota,
in cui la pupilla
immota
non intravede più
sogni.
Chinar la testa
che vale?
Vive meglio col
suo niente
il buon uomo che
si sente
di non poter fare
il male,
e non sente
l'infinita
ampiezza
dell'irreale,
e vive senza
ideale
come un servo
della vita!
La suora che nel
convento
perdoni e
salvezze implora
pensa alla vita
d'allora
con improvviso
sgomento;
la madre che à
lungi il figlio
e che non sa dove
sia,
pensa ch'ei sia
su la via
del male, senza
giaciglio;
l'amante, pieno
di ardore,
che attese presso
una chiesa
si logorò
nell'attesa
tutto il suo
giovane cuore,
ma il malato, a
cui concesso
fu di stare nel
cortile,
sente che
l'autunno è aprile,
si consola da sé
stesso;
il malato a cui è
tanto
caro l'umile fil
d'erba
ed a cui
l'autunno serba
un primaverile
incanto,
una dolcezza
novella
fatta di gialle
corolle,
una soavità
molle,
un'indistinta
favella!...
Chinar la testa
che vale?
e che vai nova
fermezza?
Io sento in me la
tristezza
del giorno domenicale,
che declina in un
vapore
grigio nella
lontananza
senza che alcuna
speranza
doni al mio
povero cuore.
(da "Poesie
scritte col lapis", Palomar, Bari 1992, pp. 47-49)
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