«Quanta vita» si leva una voce alta di bambino
dove uccelli e
uccelli strappati al pigolio di ramo in ramo
filano tra la
perdita di foglie del bosco nel freddo controluce
e tracciano una
scia di piume e strida, lasciano quelle rotte frasi
d'un discorso
arrivato al dunque, festa
e fuga, mentre
uomini appostati
ne preparano lo
sterminio; «quanta
vita» ripetono
quegli ultimi più luminosi sbattimenti d’ali
per tutta la
boscaglia tra mare ed acquitrinio.
E qui, in luoghi
ben lontani, ma in un tempo
che come quello
non perdona, mentre
incrocio per
questa via di banche
senza un cenno
d’intesa
compagni d’altri
tempi
trascinati da un
vento oscuro tra le porte vigilate
e li vedo
ansiosi, simili ad uccelli ritardatari, vinti
e arsi dentro da
un fuoco indefinibile,
consunto, non
ancora spento, presunzione
di forza dove non
è forza, orgoglio
d’una fede che
non è fede, «quanta
vita» ripete
quella voce di nove anni
alla coscienza
troppo adulta, troppo
chiara, di nuovo
«quanta vita»
che non si percepisce
mai la vita
così forte come
nella sua perdita.
Questa poesia è
di Mario Luzi (Castello 1914 - Firenze 2005), e fa parte della raccolta Dal fondo delle campagne, pubblicata
dall'editore Einaudi di Torino nel 1965; più esattamente la si trova a pagina
57, e proprio da lì l'ho trascritta. Ritengo questi versi del poeta fiorentino,
tra i migliori della poesia italiana del Novecento e non solo. Il titolo, che
apparentemente sembrerebbe descrivere una esplosione di vitalità, rappresenta
soltanto un'astrazione, ovvero un pensiero che appartiene ad animali e ad
esseri umani che appaiono nei versi sopra riportati. L'espressione "Quanta
vita", che apre la poesia, è una frase pronunciata da un bambino di nove
anni che, meravigliato, osserva un nutrito stormo d'uccelli mentre fuggono dai
rami degli alberi di un bosco dove si erano appollaiati, e, inconsapevoli si
dirigono in direzione dei cacciatori appostati con i loro fucili e pronti a
sterminarli; mentre le foglie degli alberi, ormai secche, cadono giù, e mentre
gli uccelli si avvicinano alla loro fine, misteriosamente si sente ripetere
quell'espressione iniziale, fortemente contraddittoria in quanto si prefigurano
soltanto eventi che indicano la fine della vita (sia delle foglie che dei
volatili); e tale espressione sembra provenire dal rumore che fanno le ali
degli uccelli in fuga, quasi fossero gli animali stessi a pronunciarla, nel
momento in cui stanno per morire.
La seconda parte
della poesia si riferisce ad un'altra ambientazione, lontana dalla precedente,
ma altrettanto crudele; il poeta sta camminando per le strade di una città
(probabilmente la sua), che però ritrova cambiata, per la presenza di diverse
banche che prima non esistevano; e passando incrocia vecchi amici che
riconosce, ma la sua speranza di ricevere un saluto o per lo meno un cenno di
riconoscimento da loro, risulta vana: essi,
trascinati da un vento oscuro tra
le porte vigilate delle banche, sembrano più che mai ostili e forse
preoccupati, ansiosi. Ma qual è il motivo della loro ansia? probabilmente il
fatto di possedere, proprio all'interno di quelle banche, una cospicua quantità
di ricchezze; queste ricchezze possedute fanno sì che salga la loro presunzione
di forza; e la loro fede per il "dio denaro" sale allo stesso modo,
facendoli sentire quasi onnipotenti; ma allo stesso tempo sale dentro di essi
anche la paura di perdere tutto ciò che hanno accumulato, e che, per loro, rappresenta
la sola forza di cui sono in possesso. Ma ecco che ricompare la voce del
bambino che ripete di nuovo l'espressione iniziale, ponendo in risalto la forza
della vita, e nello stesso tempo la sua labilità. È proprio quando la vita
viene meno che ci si accorge di quanto sia importante, e davanti alla sua
dolorosa scomparsa comprendiamo finalmente che è l'unica cosa che possediamo, e
che siamo costretti, alla fine, a perderla, insieme a tutti i beni materiali
che avevamo accumulato negli anni.
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