Fin dalle primissime poesie, che lessi in una vecchia antologia, mi rimase impresso nella mente il nome di Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938). Certamente furono i suoi versi a piacermi particolarmente, ma non posso negare che mi sorprese anche la sua vicenda umana, conclusasi col suicidio a soli ventisei anni. Dopo aver letto, e amato, le sole cinque poesie che trovai in quel vecchio libro, non esitai a cercare negli scaffali di molte librerie romane il suo nome; per lungo tempo non trovai nulla, a parte delle antologie con, all'interno, altri suoi versi che ancora non conoscevo. Soltanto nel 1998, la Garzanti fece uscire una seconda edizione dell'intera opera poetica di Antonia Pozzi (la prima, data alle stampe nel 1989, andò subito a ruba), e fu soltanto in quell'anno che riuscii, finalmente, a leggere tutte le poesie di questa nostra bravissima e sfortunata poetessa. C'è da dire che la Pozzi, fin quando fu in vita, non pubblicò alcun libro di versi; il primo volume poetico, uscì grazie ai familiari, nel 1939 (un anno circa dopo la sua morte). Un altro, ben più consistente, vide la luce nel 1943, grazie alla Mondadori di Milano; nella terza edizione (1948), le poesie della Pozzi ebbero l'onore di una prefazione firmata da Eugenio Montale. Quindi, nel 1964, uscì una quarta edizione comprendente anche alcuni inediti. Come ho già detto, soltanto nel 1989 è stata stampata l'intera opera poetica di Antonia Pozzi, che include anche altre poesie inedite pubblicate nel frattempo in alcuni volumetti.
Se è vero che la
poesia della Pozzi, a volte, è stata definita ingenua o, volendo usare un
aggettivo meno offensivo, naive, è
altrettanto vero che tali giudizi superficiali e lontani dal vero, si basano
semplicemente sul fatto che essa risulta, all'apparenza, semplicissima e
totalmente priva di arzigogoli. La poetessa lombarda ha sempre preferito il
verso libero a qualsiasi altro tipo di metrica (raro, si riscontra l'uso
dell'endecasillabo), e nello stesso tempo, non ha mai abbracciato correnti
poetiche di moda ai suoi tempi, come l'ermetismo. Il suo canzoniere o diario
poetico che dir si voglia, spicca, oltre che per la semplicità, per la
profondità di pensiero, per la sincerità delle diverse emozioni o sensazioni
descritte e per la rara capacità di coinvolgere il lettore che si ritrova quasi
spiazzato di fronte ai suoi versi delicati, istintivi e a volte commoventi.
Considero Antonia Pozzi, malgrado la sua breve esistenza, una delle migliori
poetesse italiane ed europee del XX secolo, e non mi meraviglia il fatto che ancora
oggi, a distanza di poco meno di un secolo dalla sua scomparsa, l'interesse
verso la sua poesia sia ancora vivissimo. Chiudo riportando un elenco di libri
che contengono i suoi versi e, di seguito, cinque capolavori poetici nati dalla
sua straordinaria inventiva.
Opere poetiche
"Parole.
Liriche", Pozzi, Milano-Verona 1939.
"Parole.
Diario di poesia", Mondadori, Milano 1943, 1948³.
"Parole.
Diario di poesia", Mondadori, Milano 1964 (4° ed. con Poesie inedite).
"La vita
sognata e altre poesie inedite", Scheiwiller, Milano 1986.
"Parole",
Garzanti, Milano 1989, 1998².
"La
giovinezza che non trova scampo", Scheiwiller, Milano 1995.
Testi
AMORE DI
LONTANANZA
Ricordo che,
quand'ero nella casa
della mia mamma,
in mezzo alla pianura,
avevo una finestra
che guardava
sui prati; in
fondo, l'argine boscoso
nascondeva il
Ticino e, ancor più in fondo,
c'era una
striscia scura di colline.
Io allora non
avevo visto il mare
che una sol
volta, ma ne conservavo
un'aspra
nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo
l'orizzonte;
socchiudevo un
po' gli occhi; accarezzavo
i contorni e i
colori tra le ciglia:
e la striscia dei
colli si spianava,
tremula, azzurra:
a me pareva il mare
e mi piaceva più
del mare vero.
Milano, 24 aprile
1929
(da
"Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 6)
LARGO
O lasciate
lasciate che io sia
una cosa di
nessuno
per queste
vecchie strade
in cui la sera
affonda –
O lasciate
lasciate ch'io mi perda
ombra nell'ombra
–
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima
luce –
E non chiedetemi
– non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella
folla è il vuoto
e nel vuoto
l'arcana folla
dei miei fantasmi
–
e non cercate –
non cercate
quello ch'io
cerco
se l'estremo
pallore del cielo
m'illumina la
porta di una chiesa
e mi sospinge a
entrare –
Non domandatemi
se prego
e chi prego
e perché prego –
Io entro soltanto
per avere un po'
di tregua
e una panca e il
silenzio
in cui parlino le
cose sorelle –
Poi ch'io sono
una cosa –
una cosa di
nessuno
che va per le
vecchie vie del suo mondo –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima
luce –
Milano, 18
ottobre 1930
(da
"Parole", Garzanti, Milano 1998, pp. 34-35)
PRESAGIO
Esita l'ultima
luce
fra le dita
congiunte dei pioppi –
l'ombra trema di
freddo e d'attesa
dietro di noi
e lenta muove
intorno le braccia
per farci più
soli –
Cade l'ultima
luce
sulle chiome dei
tigli –
in cielo le dita
dei pioppi
s'inanellano di
stelle –
Qualcosa dal
cielo discende
verso l'ombra che
trema –
qualcosa passa
nella tenebra
nostra
come un biancore
–
forse qualcosa
che ancora
non è –
forse qualcuno
che sarà
domani –
forse una
creatura
del nostro pianto
–
Milano, 15
novembre 1930
(da
"Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 37)
LA FORNACE
Bambina, nelle
sere di novembre
poi che sui monti
c'era
la guerra
e la legna
costava
assai – come il
latte, come il pane –
e la nebbia
pesava
gelida sulla
terra,
la mamma mi
portava
– per scaldarci –
alla fornace.
Riflessi di brace
tingevano
l'androne nero:
rossa nel fondo
divampava
la cupola del
forno.
Dall'alto un
vecchio scagliava
fascine e
fascine.
Giù i tegoli in
cerchio
sembravano una
ruota
immota
a cui fosse mozzo
la fiamma.
Si arrossava
la creta al
centro:
verde era ancora
al margine
dove più lento
arrivava il
calore.
Si sgranavano in
uno stupore
d'incanto – le
pupille bambine.
Il vecchio
dall'alto scagliava
fascine e fascine
–
Si ritornava
per l'androne
nero
con un bruciore
di vampa negli occhi.
Fuori, un'immensa
fontana
nella nebbia
lanciava
il suo getto
bianco e faceva
rabbrividire –
La casa pareva
lontana,
la strada
sembrava non finire
più. Era notte,
era novembre,
sui monti c'era
la guerra –
16 settembre 1933
(da
"Parole", Garzanti, Milano 1998, pp. 141-142)
MORTE DI UNA
STAGIONE
Piovve tutta la
notte
sulle memorie
dell'estate.
A buio uscimmo
entro un tuonare
lugubre di pietre,
fermi sull'argine
reggemmo lanterne
a esplorare il
pericolo dei ponti.
All'alba pallidi
vedemmo le rondini
sui fili fradice
immote
spiare cenni
arcani di partenza –
e le specchiavano
sulla terra
le fontane dai volti
disfatti.
Pasturo, 20
settembre 1937
(da
"Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 301)
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