Nel 1950 vide la
luce un bellissimo volumetto poetico di Adriano Grande (Genova 1897 - Roma 1972). S'intitola Fuoco bianco (sottotitolo: 1941-1949) e fu pubblicato dalle
Edizioni della Meridiana di Milano. Il suo interno racchiude trenta poesie
divise in tre sezioni: Ricordi - Farfalle - Fuoco bianco. La prima sezione, come ben spiega il titolo, mostra
un riaffiorare dei migliori ricordi del poeta ligure, appartenenti soprattutto
all'infanzia: periodo felice per eccellenza, nella vita di Grande, che lo
ricorda con intensità e con dovizia di particolari. Questi cari ricordi sono
descritti in modo preciso, e attraversano un po' tutte le stagioni dell'anno; i
luoghi sono, tutti o quasi, quelli della terra natale, tratteggiata con
evidente ammirazione e stupore. Nella poesia intitolata Incontro, il ricordo è riferito ad una ragazza non ben precisata,
compagna di un indimenticabile viaggio in treno, con la quale Grande ebbe modo
di creare un rapporto d'intimità quasi magico; eccone alcuni versi:
Non ci
conoscevamo, ma fratelli,
partecipi noi
soli di lontani
magici eventi
eravamo, guardandoci
con l'ombra d'un
sorriso d'infantile
segreta intesa. E
quando vidi sciogliersi
la catenella
d'oro dal tuo collo
e venni ad allacciarla
senza dire
parola, non ti
parve strano il gesto
né l'uomo: e non
pensasti a ringraziarmi.
La seconda
sezione vede, al centro dell'attenzione del poeta, la natura nelle sue
manifestazioni più semplici e più sbalorditive; Grande si sofferma nella descrizione
attenta e meravigliata di paesaggi, ponendo particolare attenzione alle piccole
cose (l'erba, le nuvole, i fiori) e agli animali, tra i quali spiccano, come si
evince dal titolo della sezione stessa, le farfalle: simbolo di bellezza, di
eleganza e di leggerezza. Restano impressi alcuni versi in cui il poeta mostra
la personale amarezza e il suo immenso dispiacere, per una guerra che aveva
causato infiniti drammi e distruzioni; proprio
lui, che alcuni anni prima aveva celebrato in altri versi la grandezza del
duce, ora si pentiva e si rammaricava di ciò che il fascismo aveva causato;
ecco a conferma questi versi tratti dalla poesia Povertà:
Pensieri lievi,
gioie
inaspettate e
brevi: me ne appago
adesso che m'è
dato
capire com'è
inutile ogni guerra.
Vedo che la
miseria
assale la mia
terra, la mia casa
invade, per le
strade
ci assedia [...]
Infine, la terza
sezione che è inizialmente dedicata a scene e momenti di guerra, con visioni di
fuochi, di velivoli militari e con rumori di esplosioni che sconvolgono la flora e la fauna circostante; il tutto è descritto
quasi in contrapposizione alle eterne eppur sorprendenti manifestazioni della
natura, siano esse primaverili o estive, che sembrano volersi porre al di fuori di
qualsiasi crudeltà e ignominia, come unica testimonianza della presenza di Dio,
anche se intorno il mondo sembra impazzito e l'umanità abbia soltanto voglia di
autodistruggersi. Nella meravigliosa poesia intitolata Palombelle, un frate, estasiato dalla fioritura primaverile, chiede
a Dio perché nel mondo esista tanto dolore e, nello stesso tempo, tanta
disarmante bellezza:
Perché tanta
bellezza,
Signore, ci hai
donato
che dura così
poco? Perché altrove
il manto della
terra è insanguinato?
Poi, nelle poesie
che portano le date posteriori alla fine della guerra, ritornano i temi cari al
poeta: paesaggi stupendi, eventi stagionali e malinconie dovute al tempo che
passa. L'ultima lirica, semplicemente grandiosa, è una sorta di testamento
poetico, rivolto ad uno sconosciuto lettore, in cui si dà risalto alla cosa più
preziosa della vita di un poeta: le parole scritte; solo esse rimarranno,
quando il corpo sarà divenuto polvere, a rappresentare l'anima di un uomo che
dedicò la sua esistenza alla scrittura. Chiudo questo post riportandola di
seguito.
SU UNA TOMBA
Fui vivo, o tu
che leggi. Ecco che torno
ad esistere un
po' nel tuo pensiero
per queste mie
parole che s'insinuano
dentro di te, che
forse ad alta voce
vai pronunciando.
Di me s'è perduto
quel che non
conta: il corpo perituro,
le mutevoli brame
e molte vane
angoscie, molto
inutile dolore.
Ho conosciuto
anch'io l'aria dei giorni
festosi: al sole
ho scaldato le membra
e tra le coltri,
lungamente ho atteso
la fine degli
inverni, delle guerre,
delle miserie
umane. Adesso resta
di me questo
rametto di parole
che oscilla un
poco a fior della tua voce
come se la mia
tomba respirasse.
Così tu apprendi
ch'io mi regalai
al fuggitivo
suono delle verdi
fronde d'aprile.
Ascolta: a me la vita
non seppe dire
verità più alta:
ed ora so che fa
durare il mondo.
Fui vivo, amico.
Se m'hai ben compreso
tu pure, un
giorno, in un ramo leggero
simile a questo,
stormire potrai.
Nessun commento:
Posta un commento