Mi è successo,
recentemente, di leggere delle poesie in cui abbondavano parole inusuali, colte,
difficili; nello stesso libro, le poesie suddette erano precedute da un saggio
critico che, allo stesso modo, era inzuppato di termini forbiti. Per meglio
comprendere entrambe le parti del volume, ho dovuto prendere un dizionario e
consultarlo in continuazione; così la lettura mi è diventata talmente pesante
che ad un certo punto ho preferito abbandonarla. Da questa non entusiasmante
esperienza di lettura mi è scaturita spontanea una riflessione, che può
apparire lapalissiana, ma esprime una realtà incontrovertibile: l'uso frequente
di termini complicati e di un linguaggio lezioso infastidisce, annoia e
allontana molti potenziali lettori. Questa conclusione, a dire il vero, mi pare
molto più plausibile per la prosa e per la critica letteraria che per la
poesia. In quest'ultima infatti, può capitare che il linguaggio astruso la
renda affascinante e che la difficoltà di comprensione ne aumenti il mistero.
Questo non sono io a dirlo, ma già lo affermava Giuseppe Ungaretti quando confessò
di aver amato alla follia la poesia di Stéphane Mallarmé pur se, di sovente,
gli succedeva di non comprenderne il significato. Eppure, anche parlando di
poesia, se dovessi fare un elenco dei miei poeti preferiti (Leopardi, Camerana,
Graf, Pascoli, Govoni, Moretti, Palazzeschi, Corazzini, Valeri, Vigolo,
Sinisgalli, Bertolucci ecc.), mi rendo conto che tutti o quasi, nei loro versi
raramente hanno inserito parole "difficili", e che i loro concetti
molto spesso mi risultavano limpidi come acqua di sorgente; per questi motivi
li ho apprezzati di più, perché la semplicità e, nello stesso tempo, la
profondità, la fantasia e l'originalità, sono gli elementi che rendono una poesia
bellissima. Ci sono stati altri poeti che ho conosciuto e, in minor misura,
amato, ma il loro modo di far versi, molto vicino all'ermetismo o ad altre
scuole che non ponevano la chiarezza come elemento primario, non me li ha fatti
mai stimare più di tanto, riscontrandone, più di una volta, ostica la lettura.
Eugenio Montale, che è il poeta più valutato del Novecento italiano, mi ha
appassionato raramente. Di Arturo Onofri preferisco la prima fase poetica rispetto
alla seconda, che pure è maggiormente considerata dai critici. Io, inoltre, mi
ritengo un appassionato di poesia italiana, ma non ho mai avuto alle spalle una
preparazione particolarmente adeguata della materia; posso anche dire di essere
piuttosto ignorante al riguardo, soprattutto se si parla di metrica. Sono
diplomato e il mio vocabolario è piuttosto limitato; per questo, non di rado mi
succede d'imbattermi, come ho già detto, in parole di cui non conosco bene il
significato. D'altra parte penso che la migliore poesia sia quella che giunge a
tutti, compresi coloro che non hanno studiato molto. Gli altri versi, possono
essere apprezzati da certi poeti o certi intellettuali che, ben chiusi in una
torre d'avorio, comunicano soltanto tra di loro e se ne infischiano del resto
dell'umanità. Devo dire che di poeti "semplici" ce ne sono
moltissimi, conosciuti e non, e vanno da San Francesco d'Assisi ai
contemporanei. Devo specialmente a loro il mio immenso amore per la poesia.
Voglio chiudere,
una volta di più, questa breve dissertazione con alcuni versi. Si tratta di una poesia di Edoardo
Sanguineti che ben s'inserisce nel contesto, parlando della chiarezza quale
elemento fondamentale nell'arte poetica, nella letteratura, nel giornalismo e un po' in tutte le
materie umanistiche.
la poesia è
ancora praticabile, probabilmente, io me la pratico, lo vedi,
in ogni caso,
praticamente così:
con questa
poesia molto quotidiana (e molto
da quotidiano,
proprio): e questa poesia molto giornaliera (e molto giornalistica,
anche, se vuoi) è
più chiara, poi, di quell’articolo di Fortini che chiacchiera
della chiarezza
degli articoli dei giornali, se hai visto il «Corriere» dell’11,
lunedì, e che ha
per titolo, appunto, “perché è difficile scrivere chiaro” (e che
dice persino,
ahimè, che la chiarezza è come la verginità e la gioventù): (e che
bisogna perderle,
pare per trovarle): (e che io dico, guarda, che è molto meglio
perderle che
trovarle, in fondo):
perché io sogno
di sprofondarmi a testa prima,
ormai, dentro un
assoluto anonimato (oggi, che ho perduto tutto, o quasi): (e
questo significa,
credo, nel profondo, che io sogno assolutamente di morire,
questa volta, lo
sai):
oggi il mio stile è non
avere stile:
(dall'antologia:
"Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento", Interlinea,
Novara 1997, p. 559)
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