Le recenti notizie
luttuose riguardanti persone che avevo conosciuto e che, più o meno, avevano la
mia età, oltre che procurarmi un grande sconforto, mi hanno fatto pensare
ancora una volta alla morte, e a quanto sia vicina e insidiosa, ma soprattutto imprevedibile. Chi se n'è andato a causa di un cancro, chi per arresto
cardiaco, nel giro di pochi mesi, questi individui sono scomparsi per sempre
dalla faccia della terra. Quante volte mi capita di pensare al futuro,
d'immaginarmi vecchio, di pensare al momento in cui smetterò di lavorare ed
andrò in pensione... Ma dimentico sempre che il mio futuro non sono e non sarò io soltanto a
deciderlo. Non so quanto mi resta da vivere (trenta, venti, dieci anni? O
soltanto pochi mesi?); nessuno di noi può saperlo, compresi coloro che godono
di ottima salute. So per certo che, a mano a mano che si sale in età, sale
anche la percentuale della possibile morte, sia essa improvvisa o lenta. In
particolare, ho notato che una volta superato il mezzo secolo di vita, le
probabilità di ammalarsi e di perire aumentano in modo considerevole. Le tante
chiacchiere che si fanno sui mass media inerenti all'aspettativa di vita
attuale, restano, alla fine, inutili ciance, illusioni per chi non vuole
pensare che non c'è nulla di sicuro al riguardo. L'ottantenne o il centenne che
giunge a quella veneranda età non poteva sapere, quando aveva venti o quaranta
anni in meno, se vi sarebbe mai arrivato. Anche la storiella del DNA, che
influenza fortemente il destino di ciascuno di noi, mi pare non sia
attendibile. Insomma, tranne i suicidi, nessun essere umano sa quando o come
morirà. La morte, se si potesse raffigurare, sarebbe un cecchino che spara
all'impazzata sulla folla, non curandosi minimamente delle persone che colpisce.
Forse, fra un po' di tempo, ricomincerò, per forza di cose, a pensare ad un futuro, ma
ora in me prevale la constatazione della estrema labilità dell'esistenza, e provo già a immaginare una reazione adeguata, nel caso in cui, improvvisamente
venissi a sapere che mi rimane poco da vivere. Per concludere questo doloroso
ragionamento, ancora una volta, propongo dei versi che parlano di morte; e
ancora una volta ho scelto una poesia di Alessandro Parronchi, che ben descrive
uno stato d'animo radicatosi nel poeta a seguito di una serie infinita di
notizie luttuose, che coinvolgevano (e coinvolgeranno sempre) esseri umani di
tutte le età.
UN'ALTRA PICCOLA
CROCE
di Alessandro
Parronchi
La morte ha
invaso la vita. Sulle colline
– di Staglieno,
del Père-Lachaise, di Arlington
e del paesino
della più remota campagna –
non c’è più posto
nemmeno per una piccola croce.
La stesso nel mio
cuore. Quante volte la nenia
judicare saeculum per ignem
ho udito per
l’uno o l’altro parente od amico.
Dapprima mi
turbava, ora non più.
Ora, in italiano,
ha un suono crudo,
non sveglia echi,
risonanze profonde.
Sono stanco della
morte.
Ma se vuoi,
madre, che scriva qualcosa
per la bimba che
è morta,
non dirò di no.
Come l’astronomo
scopre un’altra piccola stella
tra le miriadi di
cui non sa che farsi il cielo,
farò brillare a
notte un altro lume
per lei tra le
meteore.
Ma di giorno
voglio pensarla viva
sulla terra e nel
vento, come una margherita
appena schiusa.
Poi, come un piccolo seme
bianco dentro la terra, promessa
di primavera
quando vien sera.
(da "Le
poesie", Polistampa, Firenze, 2000, volume II, p. 394)
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