La gondola,
caratteristica imbarcazione veneziana, in certa letteratura decadente e
simbolista, diventò simbolo di morte. Lo attestano dei versi e delle prose
pubblicate tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Ecco due esempi che
confermano questa tesi. Il primo è un sonetto di Alessandro Varaldo (1876-1953),
tratto dal Il 1° Libro dei Trittici (Tipografia
di Pietro Gibelli, Bordighera): opera poetica decisamente sui generis uscita nel 1897 , in cui sono presenti poesie in forma
di sonetto "a tema" dell'autore menzionato, di Alessandro Giribaldi (1874-1928)
e di Mario Malfettani (1875-1911). Originale è anche l'impaginazione
orizzontale dei testi. Poco conosciuto, questo libriccino è da considerarsi tra
i più riusciti nell'ambito della poesia simbolista italiana.
LA GONDOLA DAL LETTO
DI ROSE
Passano i morti solo
in questa pace
sopra quest'acque
nere e lentamente?
Forse scorre veloce
una silente
gondola di giustizia
o di fallace
vendetta? Sul Canale
Orfano sente
il marinaio un
tremito: si tace
ogni canto, ogni
bacio in questa pace
funebre: stanno le
civette intente.
Ma una gondola passa
in un istante
di terrore ed à rose
in su i cuscini;
rose bianche d'amore
e di desio,
e scorre sopra tanti
morti e tante
vendette sola poi che
ai mattutini
sogni i fantasmi
cantano l'addio.
La poesia di Varaldo
si trova nel capitolo intitolato Trittico
de le acque ed è quanto mai misteriosa: la prima quartina è composta da
domande inquietanti relative ad un non ben definito passaggio sulle acque scure
del canale veneziano; forse di morti, oppure, di una gondola che simboleggi la
giustizia o la vendetta. Il canale, definito "orfano", è circondato
da un grande silenzio, da una pace "funebre". Poi l'apparizione
terrificante della gondola che ha, al suo interno, dei cuscini ed un letto di
rose bianche (esse, come dice il testo, simboleggiano amore e desiderio).
L'ultima terzina del sonetto è inesplicabile: parla del passaggio solitario
dell'imbarcazione sopra le acque che coprono tanti morti e tante vendette;
quel "poiché" dell'ultimo verso sembrerebbe spiegare il motivo di
tale passaggio nel fatto che i fantasmi (forse quelli dei morti citati in
precedenza) cantano l'addio ai mattutini
sogni.
Molto più limpido è
il frammento che ho estratto dal racconto breve di Thomas Mann (1875-1955): La Morte a Venezia (Der Tod in Venedig, S. Fischer, Berlin 1912).
Ma chi non ha mai
avuto da reprimere un brivido passeggero, una misteriosa timidezza nel salire
per la prima volta, o dopo lunga dissuetudine, in una gondola veneziana? Quella
strana barca, tramandata dai tempi delle ballate e tanto singolarmente nera,
come lo sono soltanto le casse da morto, ricorda avventure silenziose e
scellerate nello sciabordio della notte, ricorda forse di più la morte stessa,
la bara, il tetro funerale e l'ultimo, taciturno viaggio. E si è mai osservato
che il sedile d'una tale barca verniciato in nero feretro, la poltroncina
imbottita in nero opaco, è il sedile più soffice, più voluttuoso, più
prostrante del mondo? Aschenbach se ne rese conto quando, ai piedi del
gondoliere, di fronte ai suoi bagagli raccolti in ordine a prua, vi si accomodò
sopra. I vogatori stavano ancora litigando, rudi, incomprensibili, gesticolando
minacciosi. Ma la calma particolare della città acquatica sembrava accogliere
mite, smaterializzare e disperdere sui flutti le loro voci. Faceva caldo là nel
porto. Sfiorato dall'alito tiepido dello scirocco, sull'elemento cedevole,
appoggiato al cuscino, il viaggiatore chiuse gli occhi, godendo un'inerzia
tanto inusitata quanto dolce. Il percorso sarà breve, pensava; potesse durare
sempre! Mentre oscillava leggero si sentiva allontanare dalla ressa, dal
vociare confuso.
Qui viene descritto
il momento in cui il protagonista, ovvero il professor Gustav von Aschenbach, sbarcato
allo scalo veneziano, sale sulla gondola che lo deve portare all'interno della
città lagunare. Nella gondola il nero prevale sugli altri colori e ricorda, per
le dimensioni e la forma, una bara; per questo il pensiero della morte è
conseguente, unito ad una sensazione d'inerzia, di rilassatezza e di voluttà
tali da far sì che il viaggiatore desideri un viaggio infinito. Forse si tratta
dell'ultimo viaggio (e in effetti, alla fine del racconto von Aschenbach
troverà la morte nella città veneta); volendo poi fare un ulteriore, personale viaggio
con la fantasia, si potrebbe pensare all'imbarcazione che ospita un personaggio
misterioso, visibile nel celebre quadro L'isola
dei morti (Die Toteninsel, 1880)
del pittore elvetico Arnold Böcklin (1827-1901).
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