Drogo, il capitano
Giovanni Drogo, risale a cavallo la ripida strada che dalla pianura mena alla
Fortezza Bastiani. Ha avuto un mese di licenza ma dopo venti giorni già se ne
ritorna; la città gli è oramai diventata completamente estranea, i vecchi amici
hanno fatto strada, occupano posizioni importanti e lo salutano frettolosamente
come un ufficiale qualsiasi. Anche la sua casa, che pure Drogo continua ad
amare, gli riempie l’animo, quando lui ci ritorna, di una pena difficile a
dire.
La casa è quasi ogni
volta deserta, la stanza della mamma è vuota per sempre, i fratelli sono
perennemente in giro, uno si è sposato e abita in una diversa città, un altro
continua a viaggiare, nelle sale non ci sono più segni di vita familiare, le
voci risuonano esageratamente, e aprire le finestre al sole non basta.
Così Drogo ancora una
volta risale la valle della Fortezza ed ha quindici anni da vivere in meno.
Purtroppo egli non si sente gran che cambiato, il tempo è fuggito tanto
velocemente che l’animo non è riuscito a invecchiare. E per quanto l’orgasmo
oscuro delle ore che passano si faccia ogni giorno più grande, Drogo si ostina
nella illusione che l’importante sia ancora da cominciare. Giovanni aspetta
paziente la sua ora che non è mai venuta, non pensa che il futuro si è
terribilmente accorciato, non è più come una volta quando il tempo avvenire gli
poteva sembrare un periodo immenso, una ricchezza inesauribile che non si
rischiava niente a sperperare. Eppure un giorno si è accorto che da parecchio
tempo non andava più a cavalcare sulla spianata dietro alla Fortezza.
Si è accorto anzi di
non averne nessuna voglia e che negli ultimi mesi (chissà da quanto
esattamente?) non faceva più le scale di corsa a due a due. Sciocchezze, ha
pensato, fisicamente si sentiva sempre lo stesso, tutto stava a ricominciare,
non c’era neppure dubbio; una prova sarebbe stata ridicolmente superflua.
Questo frammento l'ho
estratto dal capitolo XXV del bellissimo romanzo di Dino Buzzati (1906-1972): Il deserto dei Tartari (Mondadori,
Milano 1945). È uno dei momenti più profondi e significativi del racconto,
perché il protagonista, ormai invecchiato, inconsapevolmente sta perdendo la
sua vita in un'attesa frustrante di qualcosa che mai verrà. Incapace di
cogliere gli indizi del suo totale fallimento, nemmeno riesce a percepire fino
in fondo che il tempo a sua disposizione sta per scadere (di lì a poco si
ammalerà e morirà lontano da tutti). Ormai è solo, senza affetti (la mamma è
morta, non ha una donna al suo fianco e nemmeno i fratelli si ricordano più di
lui), con le ultime speranze che gli sono rimaste di una vita militare
gloriosa, che però ancora non s'intravede all'orizzonte... e sta ormai per
arrivare la sera. Si parla, in fondo, della vita di molti esseri umani, che
passa nella speranza di un futuro migliore, di una felicità prossima a venire,
e che, alla fine, si conclude senza nessuna soddisfazione. Il tempo è passato
lentamente, ma, come si suole dire, inesorabilmente; anche se per noi ciò non
sembra possibile, poiché nel nostro animo perdura quella sensazione giovanile,
quell'istinto di sopravvivenza, che ci fa sembrare la vita come qualcosa che
duri all'infinito. Ci convinciamo che il meglio sta ancora davanti a noi, anche
se la nostra età è avanzata, e la vecchiaia è ad un passo; eppure siamo sicuri che
la nostra esistenza ci serberà chissà quali sorprese... Ma in realtà, ad
aspettarci, molto spesso sono soltanto le malattie e la morte.
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