domenica 23 luglio 2023

"Da poeta a poeta": 10 poesie di 10 poeti italiani dedicate ad altrettanti poeti

 

Sebbene il titolo di questo post sia abbastanza esplicativo, è necessario che aggiunga ulteriori precisazioni al riguardo. Tanto per cominciare, i testi qui presenti sono tutti stati scritti da poeti italiani del XX secolo; invece, i poeti ai quali questi versi sono diretti, non sono tutti novecenteschi e italiani. In diversi casi, le poesie rappresentano degli omaggi a poeti importanti deceduti da poco tempo; coloro che ne parlano, a volte in modo amorevole, alter volte con toni appassionati ed entusiastici, sono degli amici (anche intimi) o, più semplicemente, degli ammiratori. Vi sono anche poesie dedicate a poeti vivi e vegeti (ovviamente ai tempi in cui furono scritte), e, anche qui, a realizzarle sono degli appassionati seguaci o degli amici. Un ultima constatazione: in una delle poesie in cui si parla di poeti stranieri, più precisamente di Philip Larkin, si notano dei toni indignati e polemici; Adriano Guerrini - ovvero l’autore della poesia in questione - si riferisce ad un potere sotterraneo che guida e gestisce la cultura a suo piacimento, e che il poeta inglese ha intercettato e combattuto coi suoi versi.

 

 

10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEDICATE AD ALTRETTANTI POETI

 

 

ADA NEGRI

di Paolo Buzzi (1874-1956)

 

La tragedia lombarda

delle terre

grasse ai signori

e metifiche ai paria

è sul tuo viso tutto maschera e lampi:

nella voce Tua

l'Adda ritorna

co' suoi divini argenti

e il gorgoglio d'ira bollente

alle pile del Ponte di Lodi:

Tu canti all'Italia

il facile canto possente

del fiume che viene dal Nord:

scintillano le tue rime ed i tuoi ritmi

dell'elettrica presa di Tresenda: ardi

sempre fanciulla: erri

sempre zingara: fissi

sempre medusa l'astro da rendere tuo.

E sei madre:

ed hai pianto:

e sorridi:

e più speri:

e la tua viscera bella intona alto il suo canto.

 

(da "Poema dei quarantanni", Edizioni Futuriste di «Poesia», Milano 1922, pp. 210-211)

 

 

 

 

IN MEMORIA DI GIOVANNI CAMERANA

di Giulio Gianelli (1879-1914)

 

Pace a te disdegnosa anima! Prima

d'umiliarti per umano alloro,

salvasti in cielo intatto il tuo tesoro

che innanzi a Dio clemente or ti sublima.

 

Nel lirico desio t'uscì la rima

temperata a la fiamma come l'oro;

permeato di spasimi il tuo coro,

muto il volgo, echeggiò di cima in cima.

 

O veramente anima devota

cui tardò l'ora d'integrarsi in Dio,

termine fisso a sogno di bellezza,

 

se a tua sacra ineffabile tristezza

manchi un ave fraterno, abbiti il mio

che, te lodando, i farisei percota!

 

(da "Tutte le poesie", IPL, Milano 1973, p. 315)

 

 

 

 

A PHILIP LARKIN

di Adriano Guerrini (1923-1986)

 

Per te ho maledetto la maledizione delle lingue,

quasi ho desiderato di chiamarmi Adrian Wareen.

Tu dicevi anni orsono quello che anch'io dicevo,

e ripeto, contro l'astuto cartello dei preziosi

e dei servi arroganti d'una cultura asservita,

che ci hanno tolto i nostri numerosi lettori.

 

Certo, tu sei più sottile; ma esprimi anche tu,

con ritmico chiaro discorso, la nuda esistenza

nel grigio brulichio di Babele. Tu sei più saggio:

sorridi, taci, ti apparti. Io sono troppo stanco

e grido contro questi intelligentissimi idioti;

forse perché qui essi sono divenuti legione.

 

Ho passato tre notti sulla tua incognita lingua;

ma non lasciare che essi guastino traducendoti

le strofe della tua irreprensibile perfezione.

Non l'amano, essi; né amano la nuda esistenza.

Amano solo il potere; e gonfiare penne di moda.

Li perdòno solo perché per essi t'ho conosciuto.

 

(ottobre 1979)

 

[da "Poesie (1941-1986)", De Ferrari, Genova 1996, p. 164]

 

 

 

 

PER GUIDO GOZZANO

di Amalia Guglielminetti (1881-1941)

 

L'Eguagliatrice che ti stava a lato,

inacerbita da decenne attesa,

dolce Fratello, te, preda indifesa,

attrasse infine nel suo muto agguato.

 

Tu sorridesti di quel tuo pacato

sorriso che vinceva odio ed offesa.

- Ecco, - dicesti poi senza sorpresa,

- la Signora che l'uom Morte ha chiamato.

 

- Ecco, sei tu. Da tanto io ti conosco.

Questo male che lento mi flagella

non fu che l'ombra del tuo sguardo fosco.

 

Stanco e sereno io varco le tue porte.

Se m'ha mentito l'altra cosa bella,

almeno tu non mi mentisti, o Morte.

 

(da «La Donna», settembre 1916)

 

 

 

 

FANTASIA SUL NOME DI LIBERO DE LIBERO

di Margherita Guidacci (1921-1992)

 

Mi piace leggere il tuo nome, in quella

geometrica eleganza

che lo pone in figura di saliera:

dove ciascuna vaschetta splendente

reca il discorso saggio

o il discorso pungente.

(A unirli e separarli, perentoria,

la verticale delle immagini.)

 

Ma più mi piace udirlo, perché allora

non è più un nome: è un motto, la promessa orgogliosa

del tuo lavoro di poeta, mai

venuto a patti: «libero delibero».

Vale a dire: «io decido

liberamente.»

 

(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999, p. 228)

 

 

 

 

LAFOURGE

di Marino Moretti (1885-1979)

 

Io amo I tuoi giardini senza nome

dove c’è l’erba della guarigione:

 

    Dans les jardins

    de nos instincts

    allons cueillir

    de quoi guérir…

 

Sempre di te raccolgo un epigramma

che val più d’una graziosa damma:

 

    Ah! Vous savez cez choses

    tout aussi que moi,

    je ne vois pourquoi

    on veut que j’en recause…

 

No, non t’ho conosciuto a’ miei bei giorni,

e pur ti riconosco e a me ritorni.

 

(da “Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 1966, p. 356)

 

 

 

 

PER SERGIO CORAZZINI

di Nicola Moscardelli (1894-1943)

 

Hai lasciato un pianto nell'aria

come una lacrima che non sa cadere:

(nuvole rosee leggere

e questa vita sempre più varia).

 

Ti ritroverò una sera

nell'attimo di questo sognare,

dall'ombra ti sentirò frusciare

come un alito d'ombra leggera:

 

girerò il mondo a tentoni

come una cosa con occhi straziati

(pastelli di sole arancione

come nei tempi dei tempi passati).

 

Pezzo di sole e di sasso

ruvido scabro a morire d'amore,

scalpellato da nuovo dolore

risollevato dal gorgo più basso:

 

un giardino odorava lontano

una rosa sfioriva sul balcone,

confuso fra tante persone

nel buio ti strinsi la mano.

 

Imbuto nero, tromba di scale

precipitammo a cogliere la luna,

pazzi della nostra fortuna

ci sedusse un odor d'ospedale.

 

Spacco nel muro, luci mutilate

spigoli d'ombra, diffuso chiarore,

tremanti del nostro terrore

ci demmo alle vecchie vie dimenticate.

 

Tavoli bianchi, morgue della notte,

ci distendemmo senza peccato:

orgia, convito purificato,

spillaci il sangue dalle vene rotte!

 

Torneremo dalla solita via

come nei tempi dei tempi andati,

con i nostri occhi vecchi sconsolati

riabbracceremo la malinconia.

 

Lampade spente, vie desolate

per noi solitari di lungo cercare:

qualcuno ci udirà singhiozzare

sotto stelle di vetro spezzate.

 

(da "La Mendica muta", Vallecchi, Firenze 1919, pp. 16-17)

 

 

 

 

A MARINO MORETTI

di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

 

Ci siamo incontrati nel mese di febbraio del 1903

esordienti in una commedia di Goldoni: il ventaglio.

Tu eri Scavezzo, io il barone Del Cedro.

Chi ci aveva portati in quel luogo?

Sembra difficile indovinarlo, invece è facilissimo:

la poesia che a quel tempo aleggiava sul teatro

e della quale due adolescenti dotati di fantasia

avevano subito il fascino.

E fu proprio in quel luogo che la poesia

rivelò ai due adolescenti il proprio cammino,

sul quale in perfetta armonia

procedettero da quel giorno

discutendo di tutti e di quanto si faceva nel mondo

fuorché di quello che facevano loro,

quasi non lo avessero saputo

ognuno per la propria strada

e nel rispetto assoluto l'uno dell'altro.

Fu questo il nostro stupendo segreto

per il quale settant'anni di amicizia

non produssero un'ombra fra noi

non provocarono uno screzio,

un punto di ruggine o di attrito.

E ora, caro Marino,

stringiamoci un'altra volta la mano

nella medesima serenità di quel giorno

quando eravamo tu Scavezzo, io il barone Del Cedro.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2002, p. 843)

 

 

 

 

SABA

di Vittorio Sereni (1913-1983)

 

Berretto pipa bastone, gli spenti

oggetti d’un ricordo.

Ma io li vidi animati indosso a uno

ramingo in un’Italia di macerie e di polvere.

Sempre di sé parlava ma come lui nessuno

ho conosciuto che di sé parlando

e ad altri vita chiedendo nel parlare

altrettanta e tanta più ne desse

a chi stava ad ascoltarlo.

E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile,

lo vidi errare da una piazza all’altra

dall’uno all’altro caffè di Milano

inseguito dalla radio.

«Porca – vociferando – porca.» Lo guardava

stupefatta la gente.

Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna

che ignara o no a morte ci ha ferito.

 

(da "Gli strumenti umani", Einaudi, Torino 1995, p. 36)

 

 

 

 

A STEFANO MALLARMÉ

di Federigo Tozzi (1883-1920)

 

Il mare, forse, ti comprende bene

Quando la cener delle tue parole

Cade da tutto il cielo e si sovviene

Del fuoco spento di un eterno sole

 

Sopra la voluttà delle sirene,

Che insegnano la morte alle figliuole.

Ma l'anima che troppo a sé ritiene,

Inutilmente vasta, se ne duole.

 

E tu se' buono come Marsia ed hai

Le labbra appesantite dal destino,

Sì come da una pietra sepolcrale.

 

Tu nel silenzio dell'azzurro stai,

E al tuo rorido sogno sei vicino

Sì come arcangel che si guarda le ale.

 

(da "La zampogna verde", Garzanti, Milano 1948, p. 81)





domenica 16 luglio 2023

Riviste: "Il Marzocco"

 Il Marzocco è il titolo di una rivista artistica nata a Firenze nel 1896, grazie ai fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto; diedero un fondamentale apporto alla nascita e allo sviluppo della rivista, anche amici e sodali dei due fondatori, che, tra l’altro, avevano già collaborato alla nascita di un’altra rivista prestigiosa: Vita Nuova. Fu Gabriele D’Annunzio a suggerirne il titolo e a scrivere, insieme a G. S. Gargano, il Prologo apparso sul primo numero, nel febbraio dell’anno di nascita. I direttori più assidui del Marzocco, furono Enrico Corradini e i due fratelli Orvieto (in particolare Adolfo); la rivista chiuse i battenti nel 1932. Il Marzocco si occupò di arte in generale, ma privilegiò decisamente la letteratura; in questo ambito, tra i suoi collaboratori figurano nomi prestigiosi, come quelli di Giovanni Pascoli, Enrico Annibale Butti, Gabriele D’Annunzio e Luigi Pirandello. Poeticamente parlando, la fase più interessante  della rivista si può intercettare nei primi dieci anni delle sue pubblicazioni; in tale periodo, nelle pagine del Marzocco comparvero versi di Diego Angeli, Diego Garoglio, Pietro Mastri, Marino Marin, Domenico Tumiati, Cosimo Giorgieri Contri e, soprattutto, di Giovanni Pascoli e Luisa Giaconi; tutti questi poeti posero le basi, anche con i testi presenti sul Marzocco, per la nascita di un decadentismo poetico tutto italiano, che certamente si rifaceva a quello francese, ma che comunque possedeva degli elementi originali ben identificabili. Chiudo riportando tre belle poesie che apparvero, per la prima volta, sulla rivista fiorentina.

 

 


 

 

PER SEMPRE!

di Giovanni Pascoli

 

Io t'odio? Non t'amo più, vedi,

non t'amo... Ricordi quel giorno?

Lontano portavano i piedi

un cuor che pensava al ritorno.

E dunque tornai: tu non c'eri.

Per casa era un'eco de l'ieri,

d'un lungo promettere. E meco

di te portai sola quell'eco:

          PER SEMPRE!

 

Non t'odio. Ma l'eco sommessa

di quella infinita promessa

vien meco, e mi batte nel cuore

col palpito trito dell'ore;

mi strilla nel cuore col grido

d'implume caduto dal nido:

          PER SEMPRE!

 

Non t'amo. Io guardai, col sorriso,

nel fiore del molle tuo letto.

Ha tutti i tuoi occhi, ma il viso...

non tuo. E baciai quel visetto

straniero, senz'urto alle vene.

Le dissi: - Ed a me, mi vuoi bene? -

- Sì, molto. - E i tuoi occhi in me fisse.

- Per sempre? - le dissi. Mi disse:

          - PER SEMPRE! -

 

Risposi: - Sei bimba e non sai

"Per sempre" che voglia dir mai! -

Rispose: - Non so che vuol dire?

"Per sempre" vuol dire "Morire";

Sì: addormentarsi la sera:

restare così come s'era,

          PER SEMPRE!

 

(da «Il Marzocco», giugno 1898)

 

 

 


IL TEMPO

di Domenico Tumiati

 

Io non so, come giunsi a quella torre:

mi trovai prigioniero, sui gradini

piede costretto sovra piede a porre,

e la scala parea senza confini.

 

- Perché mai salgo? - Io chiesi, a me rivolto.

M'urgevano le tempie come un'onda:

d'un tratto vidi a me dinanzi un volto,

di chi folta caligine nasconda.

 

Era un piccolo vecchio che scendea

come un'ombra; e mi volse li occhi fissi,

ove un guizzo di luce si spegnea

simile a lampo su profondi abissi.

 

Prestai orecchio al suo discender lento;

e un altro passo udii, che a me davanti

le scale misurava in quel momento,

nel salire celavami i sembianti.

 

Da le spalle incurvate, anch'ei mi parve

per anni adusto, ne la luce fioca;

ma interrogare le due chiuse larve

vanamente tentò la voce roca.

 

Così restai su le infinite scale

atomo perso tra i due vecchi lenti

che scandian la quiete, con l'eguale

ritmo dei passi montanti e scendenti.

 

(da «Il Marzocco», luglio 1898)

 

 

 

 

ARMONIA

di Luisa Giaconi

 

Eretta Ella nel lampo del sol morente, cantava

un antico e lento poema suo; fremeva di ritmi

profondi il silenzio de' lauri solenne, come eco,

cantavano i cieli con echi vasti di luce d'oro.

 

Fulgeva la sua chioma di vivo piropo nel sole,

con larghe volute fluendo sovra i non tocchi seni,

stringevano le braccia su i seni una mèsse di fiori,

meravigliosi; poemi dei solchi, ambra dei prati.

 

Diceva Ella il poema suo vasto ed antico dinanzi

a un'ara invisibile ; e faci magiche eran le vite

arboree accese ne l'ora flammea, ed incenso

la errante pei cieli odorosa anima dei fiori.

 

De gli uomini ascoltavano muti, meravigliando

con occhi che animi dopo ciechi anni la luce,

con anime ancor sacre al puro silenzio dei sogni,

che il canto cullava con ritmi di luce e di pianto.

 

Passava Ella col lampo del grande Morente; e più lunge

de gli occhi e più lunge del sogno; velata dai silenzii,

più sacra nel pianto che bagnavale gli occhi divini,

tornante inviolata ai suoi templi lontanissimi d'oro.

 

(da «Il Marzocco», maggio 1899)




domenica 9 luglio 2023

La pioggia nella poesia italiana decadente e simbolista

La simbologia della pioggia è in genere legata a quella dell'acqua, tuttavia si possono evidenziare delle differenze; tra di esse, per esempio, si può pensare alla pioggia come un "pianto del cielo", e quindi accomunarla a sentimenti di tristezza, noia e malinconia (il tutto acuito dal grigiore che domina nelle giornate piovose). Ma le piogge possono divenire anche simbolo di voluttà o di benessere fisico e mentale, specialmente se la precipitazione piovosa avviene durante il periodo estivo (esempio eloquente ne è La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio).



 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Canzonetta della pioggia" in "I cipressi e le sorgenti".

Diego Angeli: "Sera d'inverno ad Acqua Traversa" in "La città di Vita" (1896).

Gustavo Botta: "Balbettìo" in "Alcuni scritti" (1952).

Gustavo Brigante-Colonna: "Piove. Dal ciel discende un velo denso" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Paolo Buzzi: "Sera d'uragano" in "Aeroplani" (1909).

Giovanni Camerana: "Maggio" in "Poesie" (1968).

Enrico Cavacchioli: "Il terrore raccolto" in "L'Incubo Velato" (1906).

Guelfo Civinini: "Pioggia d'ottobre" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Gabriele D'Annunzio: "La pioggia nel pineto" in "Alcyone" (1904).

Adolfo De Bosis: "O nel tardo novembre" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).

Federico De Maria: "Pioggia voluttuosa" in "La leggenda della vita" (1909).

Luigi Donati. "L'acqua" in "Le Ballate d'Amore e di Dolore" (1897).

Corrado Govoni: "La pioggia rugginosa" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).

Corrado Govoni: "Sotto la pioggia" in "Poesie elettriche" (1911).

Marco Lessona: "Piove" e "Parla un'altra donna" in "Versi liberi" (1920).

Tito Marrone: "La pioggia d'estate" in «Cronache della Civiltà Elleno-Latina», settembre 1904.

Nicola Moscardelli: "Pioggia" in "Abbeveratoio" (1915).

Arturo Onofri: "Cade una pioggia soave sull'orto fiorito" in "Canti delle oasi" (1909).

Nino Oxilia: "E piove, piove, piove..." e "È notte e piove..." in "Canti brevi" (1909).

Nino Oxilia: "Alla finestra mentre piove" in "Gli orti" (1918).

Guido Ruberti: "Mattino di pioggia" in "Le Evocazioni" (1909).

Diego Valeri: "Pioviggina" in "Umana" (1916).

 

 


Testi

 

PIOGGIA VOLUTTUOSA

di Federico De Maria

 

Piove. Folgora. C'è qualche cosa

nell'aria attristita

che quasi c'invita

al raccoglimento.

E, forse pel freddo, io sento

un brivido, un tremito strano:

è come se una lama voluttuosa

mi pungesse, spingendomi a poco

a poco verso di te.

Perché non vieni tu, o sposa

del mio mistero, a illuminar di gioia

la lasciva noia

di quest'ora tediosa?

Da gran tempo qui tutto t'aspetta

nell'ornata stanzetta.

Per te ò acceso un buon fuoco

che sfriggola e scoppietta

tentando rallegrar tutti gli oggetti

che attorno stan, poveretti,

imbronciati nel lento crepuscolo

che il cielo loro concede

da la finestra. E il tuo poeta siede

presso a quel fuoco, di faccia

a una vuota poltrona

che tiene aperte le braccia

invocandoti. Da le pareti

tutti i ritratti dei cari

mi guardano immobili, ma

sogghignandomi, anche i men lieti.

Ed io vedo la mia persona

ripetuta da l'attaccapanni

ove pare che i miei abiti

cadenti siano la caricatura

della mia dolente figura

abattuta da continui disinganni.

E t'attende pure il letto

bianco, come la castità,

ove crebbi e mai fui solo

fantasticando e sognando...

Oh, lì da gran tempo t'aspetto,

con questa pioggia infingarda

che più dispone ad amare.

Ti sentirei, sul mio petto

allacciata, trasalire, palpitare

per lunghe, lunghissime ore...

E sentiremmo la pioggia scandir la cadenza

del nostro furtivo amore.

picchierellando su i vetri

maliziosa... A ogni tuon rimbombante

balzeremmo, fatti rossi dal pudore...

e soffocheremmo in un bacio

uno scroscio irresistibile di riso.

Quante parole diremmo e poi quante

pazzie faremmo, senza parlar più !...

Poi, tardi, si spegnerebbe

il fuoco, col giorno, e tu

diresti: «Che freddo!» con quella

voce fatta più lunga dal languore, col viso

contro il mio viso, stringendoti a me

più forte, con i capelli arruffati,

gli occhi di nero cerchiati,

discinta nell'inverecondia

divina dell'amor che fa più bella.

— Però non avremmo più legna;

ed io riattizzerei le fiamme

coi versi che scrissi per te

in questi lunghi sei mesi

che attesi...

 

(da "La leggenda della vita", Edizioni di «Poesia», Milano 1909)

 

 

 

 

È NOTTE E PIOVE...

di Nino Oxilia

 

È notte e piove. Ò avanti

il mare che lamenta

coll'onda grigia e lenta

una storia di pianti.

 

Dalla finestra in luce

d'una casa abitata

il vento mi conduce

un suono - una risata -

 

...a tratti - Il canto lieto

di una fanciulla bionda.

Una voce profonda

d'uomo. Un passo sul greto.

 

Le nubi in cielo vanno

tacite, senza rombo,

verso un ignoto affanno,

sotto il cielo di piombo.

 

Il cuore, oggi, mi pesa

come non mai. Mi pare

che tutto, e cielo e mare,

voglia recarmi offesa.

 

E che la terra esali

qualche veleno ignoto

e qualche pianto ignoto

singhiozzi tra i mortali.

 

Vorrei sotto la mesta

pioggia che cade, sulla

spiaggia chinar la testa

come a una dolce culla,

 

e in silenzio ascoltare

tutti i ritmi trasfusi

nell'aria e già confusi

col risucchio del mare.

 

(da "Poesie", Guida, Napoli 1973)

 

 

Gustave Calilebotte, "Paris street; Rainy day"
(da questa pagina web)