domenica 27 marzo 2022

Gli strumenti musicali in 10 poesie di 10 poeti italiani

 

Difficilissimo trovare una persona che non ami almeno un genere musicale, e chiunque ami la musica ha uno o più strumenti preferiti (io, ad esempio, amo il violino e gli strumenti ad arco in generale). C'è poi chi la musica preferisce ascoltarla solamente, e chi, invece, decide di suonarla o addirittura di comporla; questi ultimi, in genere, scelgono uno strumento musicale che più li aggrada, e lo utilizzano - sia per passatempo che per studio o professione - fino a diventare dei suonatori più o meno specializzati. In queste dieci poesie si parla, appunto, di strumenti musicali; ce ne sono di vario genere, compresi quelli che ormai non si usano più da secoli, come il liuto ed il clavicembalo, perché sostituiti da altri più moderni; ve ne sono a corda, ad archi ed a fiato; tra questi ultimi, in una poesia si parla dello "zufolo": strumento rustico che in tempi ormai lontani veniva suonato dai pastori e dai contadini. In pressoché tutti i componimenti, si respira un'aria di passato remoto, poiché, già da un po' di anni a questa parte, la musica - come altre discipline artistiche - ha perso d'importanza, e di conseguenza anche gli strumenti musicali, fondamentali insieme alla voce umana per la creazione di musica, risultano sempre più trascurati dalla poesia contemporanea, e questo, inutile forse dirlo, è un vero peccato.

 

 

 

 

GLI STRUMENTI MUSICALI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI

 

 

 

IL PIANOFORTE

di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

 

Tutto qui parla del passato: ed io

son come una tornante ombra che vede

rifiorir sotto il suo tacito piede

fiori già vizzi in poggio solatio.

 

Dolce prodigio! E il cuor ne trema. Oh cose

non periture, ch'io ritrovo uguali!

Tu sol sapesti, o sogno, i funerali

e la tua tomba è qui, sotto le rose.

 

Valico lento l'atrio, composto

in quale antico suo ricordo ancora?

Ecco le stanze dove riodora

per me l'odore di quel morto Agosto.

 

Quella finestra oh non è chiusa? E viene

da quell'angolo un suon di pianoforte?

Ah! Le tue mani in altre opere assorte

qua l'obliato cembalo ritiene?

 

Furon quei giorni; e Giovinezza, come

eco di suono, dileguò con loro:

per l'aperta finestra il pallido oro

del sole invan ricerca le tue chiome:

 

come quel dì che sul leggìo chinasti

la bella fronte, interrompendo il canto...

Levo il coperchio. Un lor tacito pianto

piangon l'avorio e l'ebano dei tasti.

 

(dalla rivista «Nuova Antologia», marzo 1906)

 

 

 

  

IL LIUTO

di Arturo Graf (1848-1913)

 

Il suo nome perì; ma dura in terra

La gracil opra dell’audace ingegno,

L’opra che in poche corde e in picciol legno

Tante accese e frementi anime serra.

 

Spesi egli avea molt’anni già, tentando

E ritentando d’infrenar nei cavi

Lombi gli agili ritmi e le soavi

Note che in mente gli fiorian cantando.

 

Molti e molt’anni invan: sempre l’ignava,

Insensata materia al pazïente

Di sue mani artificio, al voto ardente

Dell’indomito cor si ribellava.

 

Stanco alla fine e disperato e fisso

In un pensier meraviglioso e scuro,

Una notte, con orrido scongiuro,

Satana svelse dal profondo abisso.

 

Fuor dalle zolle lacerate ed arse,

Fulminando schizzò nell’aer cieco

L’angiol d’inferno, e tracotante e bieco

Gridò: Che vuoi? sien le parole scarse.

 

Quegli prese a parlar: Di pompe e d’oro

E di piacer nulla vaghezza io sento;

Ma sol di questo picciolo strumento,

Solo di questo, o Satana, m’accoro.

 

Dell’anima che spera, ama, desia,

Piange e si cruccia, in queste lignee foci

Io sognai di raccor tutte le voci;

Ma non resse al voler l’industria mia.

 

Che deggio far? pace non ho dappoi

Che m’ingombra quel sogno; e mi consumo

Tutte veggendo dileguarsi in fumo

Le mie speranze. Ajutami, se puoi.

 

Com’ebbe udito, una ed un’altra volta

Il maledetto con pupille accese

Guatò ghignando il dilicato arnese,

Poi: Buon consiglio saprò darti: ascolta.

 

Una vergine uccidi, a cui, pur ora

Nato, nel core il primo amor s’annidi;

Un cavaliere innamorato uccidi,

A morir pronto per colei che adora.

 

Uccidi un trovator dalla cui bocca

Sgorghi soave e lusinghiero il canto;

E una pentita, che in preghiere e in pianto

L’anima versi dalla grazia tocca.

 

Uccidi un pellegrin che in duro esiglio

Chiami la patria straziata e cara;

E una madre, che steso entro la bara

Vegga il corpo dell’unico suo figlio.

 

Uccidi; e in nome mio, la croce infranta,

Oltraggiato colui cui più non servi,

Nel cavo legno e nei distesi nervi

Le fremebonde, ignude anime incanta.

 

Disse, sparì. L’artefice ossequente

Giusta il precetto uccise, e nelle sorde

Fibre del legno e nelle tese corde

L’anime imprigionò perfidamente.

 

Ed ecco ha vita e sentimento e umana

Voce il lïuto, e di sì dolci note

Susurreggiando l’anime percote

Che dalla terra le rapisce e strana.

 

Egli dannato fu, senza perdono;

Ma dal lïuto donne e trovatori,

E su nel cielo gli angeli canori,

Traggono accenti d’ineffabil suono.

 

(da "Dopo il tramonto", Treves, Milano 1893)

 

 

 

 

IL FLAUTO

di Giuseppe Lipparini (1877-1951)

 

Con la corteccia di un ramo di pioppo ho foggiato il mio flauto,

siccome un antico pastore.

 

Fremono i mandorli in fiore al soffio dei tepidi venti:

la terra si scioglie e si dà.

 

Lancio la melodia per i sette fori del flauto,

e l'aria n'è piena e stupisce.

 

Sale così la mia pena col canto di là da le vette,

compagna raminga a le nuvole

 

che su la fresca vallata si affacciano come le donne

nei chiari mattini ai balconi.

 

(da "L'ansia", Puccini, Ancona 1913)

 

 

 

 

FORSE...

di Tito Marrone (18812-1967)

 

Il clavicordo geme

ne l'ora taciturna.

 

Sì come chiude un'urna

tesori, l'onda freme

melodia fra le

corde. Malinconia.

 

E ne li arazzi sale

l'ignota melodia.

 

(da "Le Gemme e gli Spettri", Boheme, Palermo 1901)

 

 

 

 

VIOLONCELLI

di Eugenio Montale (1896-1981)

 

Ascolta il nostro canto che ti va nelle vene

e da queste nel cuore ti si accoglie,

che pare, angusto, frangersi: siamo l'Amore, ascoltaci!

Ascolta il rosso invito del mattino

che rapido trascorre come ombra d'ala in terra;

assurgi dal vivaio dei mortali

d'opaca terra, ignari d'ogni fiamma,

e seguici nel gurge dell'Iddio

che da sé ci disserra,

echi della sua voce, timbri della sua gamma!

Come l'esagitato animo allora

esprimerà scintille che giammai

avresti conosciute! La tua forma

più vera non capisce ormai nei limiti

della carne: t'è forza di confonderti

con altre vite e riplasmarti tutta

in un ritmo di gioia; la tua scorza

di un dì, non t'appartiene più. Sarai

rifatta dall'oblio, distrutta dal ricordo,

creatura d'un attimo. E saprai

i paradisi ambigui dove manca

ogni esistenza: seguici nel centro

delle parvenze: (ti rivuole il Niente!).

 

(dalla rivista «Primo Tempo», giugno 1922)

 

 

 

 

LA CORNAMUSA

di Angiolo Orvieto (1869-1967)

 

I

 

Suono di cornamusa lento lento

nell'aria solitaria e grigia io sento:

eco lontana, fievole lamento,

suono di cornamusa lento lento.

 

II

 

O lento suon di cornamusa, alfine

dopo tanto silenzio riudito,

sei forse l'ombra delle mie divine

malinconie? sei forse un mesto invito?

 

Donde? Dai giorni dell'adolescenza

tenera? o pur dai giorni dell'amore?

O rechi il gemmeo sogno delle aurore

montane nella tua molle cadenza?

 

Prati su l'alba, o suon di cornamusa,

e, presso, le montagne alte di neve;

e tu t'effondi pel silenzio greve,

lento lamento della cornamusa.

 

III

 

Deh non cessare, cornamusa lenta;

versami tutta in cor la tua parola

che ammonisce nell'ombra e che rammenta.

 

Ch'io mi profondi in lei, ch'io mi risenta

qual ero allora, simile ad aiuola

in cui germogli tenera sementa.

 

(da "Primavere della cornamusa", Bemporad, Firenze 1925)

 

 

 

 

SCHERZO PER VIOLINO

di Antonio Rubino (1880-1964)

 

Del lirico violin gratta i budelli

già il musicante, che dentro mi frulla,

e, stecche mugolii trilli strimpelli

 

arrabattando, le dita si sgrulla,

e fa un così arruffato tafferuglio,

che n'ho la testa balorda e citrulla.

 

Corpo d'un cancro! Già che va in subuglio

il pentolin, che tengo nella nuca,

ingarbugliamo qualche guazzabuglio,

 

o frizzo, o ghiribizzo, o fanfaluca.

 

Un frizzo o ghiribizzo, che ingrovigli

un rachitico intrico di reticoli

fiorito di stentorei sbadigli,

 

poi pallidette cabalette articoli,

donde sprizzino triti brii di trii

e piccoli amminicoli ridicoli,

 

fincè il trillo s'immilli in cinguettii

minimi, e con singulti gutturali

muoia di noia in lunghi omèi giulii,

 

cuculiando cobbole nasali.

 

(da "Versi e disegni", Selga, Milano 1911)

 

 

 

 

CHITARRA SPAGNOLA

di Domenico Tumiati (1874-1943)

 

Nel crepuscolo tace

La chitarra spagnola:

Da gran tempo ogni corda

               S'addormì;

 

Un sogno la consola:

Oh mani delicate

Risvegliano l'accordo

               Che morì.

 

Entro la stanza buia,

Di primavera il vento

Con le labbra rosate

               Viene e va.

 

Fremono le celate

Corde di seta e argento,

E un sommesso lamento

               Vi ristà.

 

Nel suo fragile seno,

La muta pellegrina

Rimpiange i minareti

               Che lasciò.

 

Quando venne per l'arco

D'oro de la marina,

E i fulgidi aranceti

               Che sfiorò.

 

Come dolce sarebbe

Udire la tua voce,

O lira armoniosa

               Di Madrid,

 

Se mormorassi appena

Una danza veloce,

Una vecchia romanza

               Del gran Cid!

 

Piedini irrequieti

E follie di gitane,

Di Cordoba e Granada

               I visir;

 

De l'Alhambra i roseti,

Sieste castillane,

E andaluse sul Guadalquivir...

 

Ne la polka coqueta,

Ne la blanda habanera,

Vengono questa sera

               Verso me?

 

«Jasmin y violeta?...

Ne l'attimo ripresa.

La jota aragonesa

               Forse è?

 

Il tuo sandalo lieve,

Come arpa risuona:

Ecco vibra l'accordo

               Di mi-mi...

 

Si discioglie la neve

Su i tetti a Barcellona?

O una rosa sul Tago

               Rifiorì?

 

Si sveglia ne l'hamaca

Una piccola dea

Che ha due gigli per mani

               E per piè?

 

O il tinnulo monile

D'errante bajadera,

Su i monti lusitani

               Risplendè?

 

Da due labbra di fuoco

Sovra gota vermiglia,

Un bacio violento

               Si stampò?

 

O sorrisero al sole

Le torri di Siviglia,

O un'arma di Toledo

               Balenò?

 

(da "Liriche", Treves, Milano 1937)

 

 

 

 

IL PICCOLO PASTORE

di Diego Valeri (1887-1976)

 

Lento dolce canta, lento dolce piangi,

o mio piccolo sufolo!

Sei tu che spandi,

lassù pel cielo di tenero colchico,

quella tremula danza

di farfalle e di petali d'oro?

 

Le foglie del pioppo sospirano

sommesse, quaggiù;

le piccole povere foglie vorrebbero anch'esse

volare

salire

svanire

lassù...

 

E lui pure, lui pure, il mio piccolo cuore

trema e stormisce in un'ansia di voli infiniti

per infiniti silenzi di cielo.

Lui pure, il mio piccolo cuor prigioniero

vorrebbe salire - leggero -

svanire,

svanir tra la tremula danza

delle farfalle e dei petali d'oro,

lassù...

 

Lento dolce canta, lento dolce piangi,

o mio piccolo sufolo!

Lento dolce canta, lento dolce piangi,

o mio piccolo cuore!

 

(da "Crisalide", Taddei, Ferrara 1919)

 

 

 

 

L'ARPA DEL MENDICANTE

di Mario Venditti (1889-1964)

 

No: non dite che suona l'arpa

quel cencioso dalla bizzarra

papalina nera e scarlatta

più sdrucita della zimarra

e che a un piede porta una scarpa

ed ha l' altro in una ciabatta.

 

Perché s'abbia un'arpa, non basta

un qualunque simile ordegno

a tre lati dalla fatale

ossatura di vecchio legno

rabescato più o meno guasta

e un più o meno vano pedale.

 

V'è bisogno: di mani snelle

che trasvolino su le corde

come tortore imprigionate;

della danza in ritmo concorde

d'una qualche ciocca ribelle

a fragranti trecce annodate;

 

di due labbra color vitalba

che, fra un diesis e un si bemolle,

sembrino altre corde più brevi,

mentre — come bianche corolle

al presentimento dell' alba —

si dischiudan pàlpebre lievi.

 

E che, in fine, fra i sol e i la,

una lampada stile impero

a uno specchio già centenario

volga gli occhi di taffetà

rosa o azzurro anche è necessario,

perché s' abbia un'arpa da vero.

 

(da "Il cuore al trapezio", Taddei, Ferrara 1921)

 

Joseph DeCamp, "The Guitar Player"
(da questa pagina web)


domenica 20 marzo 2022

Poeti dimenticati: Alfredo Catapano

 

Nacque a Napoli nel 1881 e ivi morì nel 1927. Avvocato e poeta, diresse insieme a Francesco Gaeta la rivista I Mattaccini. Pubblicò poche raccolte di versi, in cui si dimostrò un poeta classicista e, nello stesso tempo, un seguace di Gabriele D'Annunzio. Si tolse la vita sparandosi un colpo di pistola, poco tempo dopo il suicidio dell'amico e poeta Francesco Gaeta.

 

 

 

Opere poetiche

 

"I profili", Stabilimento tipografico Vesuviano, Napoli 1899.

"Le corone", Pierro, Napoli 1900.

"Interludio", Melfi & Joele tip., Napoli 1905.

"Dai Canti", Napoli 1929.

 

 


 

Presenze in antologie

 

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol.VIII, pp. 158-168).

 

 

 

 

Testi

 

 

PRIMAVERA INTIMA

 

Inverno, in vano in van le umane fronti

premi di tedio e d'ombra, in van minacci

risi di sol, di verde, se t'affacci

tetro a le valli pe' canuti monti.

 

Vecchio, rido di te, se gli orizzonti

stringi in un nero circolo: se agghiacci

i fiumi, dal mio cor giammai discacci

gioja di fiori e gluglulii di fonti.

 

Poi che un umil amor dà primavera

perenne a la mia mente, pur se il seme

torpe per ogni monte e ogni riviera.

 

E canto, o Inverno, versi rusticani;

e il fuoco brilla, e la perduta speme

trovo nel cavo di due bianche mani.

 

(da "Le Corone", Pierro, Napoli 1900, p. 80)

 

 

 

 

 CIELO SERENO

 

Se più fulgidamente t'incurvi, o cilestro emisfero,

egro e solo mi scorgo con questa mia angoscia che fiotta;

l’iride di ogni raggio mi acceca, ogni afflato mi scotta

come spoglio di cute io fossi, per il corpo intero!


Stringansi, quali bende, su ’l mio lacerato pensiero

falde di densa bruma, cortine di piova dirotta;

ch’io non veda quel cielo che incombe; che mai non annotta,

poi che con multipli occhi stellari vi veglia il Mistero.

 

Troppo, a colui che piange, insulta colui che in un folle

riso oblioso è immerso; a quei che con polsi tremanti

forza il nodo di un dubbio, chi ha il vero; ad ogni ombra, il fulgore.

 

Per me, stretto da nebbia profonda sì come le zolle,

per me ch’esito e gemo, il fulmine invoco: che schianti,

in un solco di vampe, la mala radice del cuore.

 

(da "Interludio", Melfi & Joele, Napoli 1905, p. 37)

 

 

 

 

 INVIANDO UN PRIMO FIORE DI MANDORLO

 

Poiché soffri, sei buona. E piangerai

come chi è buono, in questa primavera;

sol che a te olezzin forte, ne la sera

                       molle, i rosai.

 

Ecco; e già piangi e tutta ti commuovi

su l'alito di questo primo fiore,

poi che d'un tratto ti occupa il tremore

                       pe' mesi nuovi:

 

quando più vivo è quel che non s'oblia

e più triste è il ricordo più soave,

e il cuor sente mancarsi, in una grave

                       fosca agonia,

 

e piange un pianto che non vuol conforto,

un muto pianto, dolce e amarulento,

un pianto che non basta a lo sgomento

                       per ciò ch'è morto.

 

(da "Dai Canti", a cura della Compagnia degli Illusi, Napoli 1929, p. 79)

 

domenica 13 marzo 2022

"Canti" di Giovanni Tecchio

 

Nel 1931, presso l'editore Monanni di Milano, fu stampato un volume poetico di Giovanni Tecchio intitolato Canti. All'interno di esso, l'autore, già allora quasi completamente obliato, volle includere il meglio della sua produzione in versi. Sfogliandolo, e tenendo a portata di mano le altre opere poetiche di Tecchio, è facile constatare che, quasi tutte le liriche qui presenti, furono inserite negli altri suoi volumi, che vanno dal primo (Poesie, 1891) all'ultimo (Rime della vita, 1900), che risale a più di trent'anni prima. Parecchi componimenti poetici hanno un titolo diverso e, insieme agli altri, hanno subito delle modifiche non sostanziali, che però dimostrano l'insoddisfazione costante del poeta, sempre in cerca di una forma differente dall'originale. Giovanni Tecchio, di cui avevo già parlato in un post dedicato ai poeti dimenticati, secondo me avrebbe meritato miglior fortuna: i suoi versi, così come quelli di Cosimo Giorgieri Contri e di Diego Angeli, rappresentarono qualcosa di estremamente importante nell'ambito della poesia italiana del primissimo Novecento. Infatti, i primi, grandi poeti che, seguendo un ordine prettamente cronologico, fanno la loro comparsa agli albori del XX secolo, sono i crepuscolari; ora, se si vanno a leggere alcune poesie di Gozzano, Corazzini, Govoni, Moretti e altri ancora, non risulterà difficile notare che vi sono delle attinenze, se non delle nette somiglianze, con quelle scritte da Giovanni Tecchio una decina di anni prima; quest'ultimo, praticamente per tutto il decennio che ha concluso il secolo XIX, pubblicò delle raccolte assai simili tra di loro, in cui prevaleva uno stato d'animo melanconico, così come una estrema sensibilità a determinate manifestazioni della natura ed a particolari "visioni" (interni squallidi, atmosfere sognanti, paesaggi autunnali ecc.), ovvero peculiarità che furono perpetrate anche dai poeti crepuscolari. Non vi è dubbio che il Tecchio subì l'influenza di Gabriele D'Annunzio, che in quegli stessi anni pubblicò due volumi poetici notevoli: La Chimera (1890) e Poema paradisiaco (1893); senza dimenticare, ovviamente, i poeti francesi e belgi che, già a partire dagli anni '60 dell'Ottocento, scrissero e pubblicarono opere in versi rientranti nei massimi capolavori del decadentismo e del simbolismo; ma, allo stesso tempo, non vi è dubbio che Tecchio seppe rielaborare quei temi e quelle atmosfere in modo del tutto personale, creando versi, almeno per me, indimenticabili.

In Canti, Tecchio presenta ai lettori più attenti una sintesi della sua poesia, attingendo dai suoi vecchi volumi e scegliendo ciò che ritiene migliore; questo libro va perciò considerato l'ultimo, ricapitolativo lavoro di un poeta ingiustamente trascurato, e che, a mio modesto parere, meriterebbe una rivalutazione. Ecco infine tre poesie estratte da Canti.  

 

 

Frontespizio del volume: Giovanni Tecchio, Canti

 

 

PALUDE

 

Nello stupor del cielo d'alabastro

Sommessamente ad ora ad or si lagna,

Voce universa, il pianto che ristagna

Sotto il poter malèfico d'un astro.

 

Cupe, nell'aer livido biancastro,

Immote e nere come una montagna,

Sopra la desolata erma campagna

Pendon le nubi di vapor salmastro.

 

Non frullo d'ala, non batter di greggia;

Nel cinereo incantesimo dell'aria

Sorde si sfaldan l'ore senza suono.

 

Sull'acquitrino una ninfea galleggia,

Urna di pario marmo funeraria,

Che in sé racchiude un cor nell'abbandono.

 

(da "Canti", p. 9)

 

 

 

 

SOGNO ETERNO

 

Nei silenzi della notte

van sospiri, voci rotte

d'angoscia, pianti,

d'anime schianti.

Dal suo trono eccelso la Morte

sui piani sogguata, sull'erte montane

di croci la nera coorte.

Lo scrosciar delle lacrime umane,

che gemon lontane lontane,

risuona profondo,

per la notte del mondo.

 

Beato, nel roseo mattino

d'aprile chi vide giocondo

tra fiori il cammino!

Non gli passò sull'anima

dell'universo pianto

il turbinar profondo.

Beato, d'un sogno l'incanto

non vide sfiorire, svanire...

E tutto d'intorno a lui tace,

e gli è dolce dormire

nella profonda pace,

sognare nel vago sorriso

d'eterna giovinezza,

la vita un eliso

d'eterna dolcezza!

 

Oh, di quel giorno il vespero

egli non vedrà mai,

né udrà per la notte col vento

insistente, terribile, mai

quell'eterno lamento,

lo scrosciar delle lacrime umane

che gemon lontane lontane,

risonare profondo,

per la notte del mondo!

 

(da "Canti", pp. 63-64)

 

 

 

 

NEVE

 

E neve e neve e neve...

E tutto intorno imbianca:

Passa un sussurro breve,

Il fru d'un'ala stanca.

 

Mentre nell'aria lieve

Danza la ridda bianca,

Una tristezza greve

Scende col dì che manca.

 

Chi studia a un lume fioco,

Chi dorme in letto morbido,

Chi ride accanto al foco;

 

Va un vecchierel lontano,

Un pan cercando e querulo

Stende la scarsa mano.

 

(da "Canti", p. 99)

domenica 6 marzo 2022

Le ombre nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Il termine "ombra", almeno nell'ambito della poesia decadente e simbolista, è stato molto usato ed abusato. Il significato così come la simbologia, non ha riferimenti stabili e precisi; nella maggior parte dei casi però, l'ombra o le ombre sono collegate col buio, con le tenebre e comunque con un concetto relativo all'oscurità in generale. Nella poesia di Diego Angeli, l'ombra di qualcosa o di qualcuno rimane impressa sul muro, come una macchia indelebile, e sembra presagire una sventura imminente. Nei versi di Galletti, un paesaggio lacustre, brumoso, in cui le ombre, al calar della sera, s'infittiscono sempre più, sta a simboleggiare l'anima del poeta, ormai stanca e rassegnata. Nella poesia di Baganzani, invece, l'ombra del corpo, che accompagna l'uomo dovunque esso sia, viene descritta come qualcosa di molto prezioso e amato, e viene definita "malinconia"; simile a quest'ultima, è la poesia di Garoglio, che aggiunge, alla vaga sensazione melanconica, una profonda e lapidaria meditazione sulla vita e sulla morte. Luisa Giaconi, nella poesia visionaria intitolata L'immagine, si vede apparire davanti agli occhi meravigliati l'ombra di sé stessa, com'era in un non precisato passato: forma pallida, dolente, muta, che racchiude nella sua delicata anima qualcosa di estremamente misterioso. Nella poesia di Gianelli l'ombra (o, meglio, il buio) è il poeta stesso, che generosamente ha donato i suoi raggi di luce a chi glieli chiedeva, fino a rimanerne totalmente privo; in questi versi il buio ha valenza di delusione nei confronti dell'umanità, che egoisticamente prende tutto ciò che può e non dà nulla. Girardini vede l'umanità come una fitta schiera di ombre che passano e ripassano per poi finire tutte in un "angol nero" che le inghiotte e che, ovviamente, rappresenta il misero della morte. D'insondabile mistero sono avvolti anche i versi di Tumiati, che descrive una tela raffigurante il ritratto di un filosofo, i cui lineamenti risultano imprecisati a causa dell'ombra fitta; soltanto si distingue lo sguardo fisso dell'uomo pensante. Più volte, in queste liriche, le ombre rappresentano le anime morte; esse, si materializzano quasi sempre durante le ore notturne, quando l'oscurità avvolge ogni cosa; spesso, questa sorta di fantasmi si lamentano per dei torti o delle violenze subite nella loro vita. Rare volte l'ombra rappresenta qualcosa di estremamente piacevole, come la sognata e rimpianta presenza di una donna amata, che fa risorgere nel poeta i momenti più belli vissuti insieme in un passato ormai lontano.

 

 

Poesie sull'argomento 


Diego Angeli: "Un'ombra" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).

Antonino Anile: "L'ombra" in "I Sonetti dell'Anima" (1907).

Sandro Baganzani: "Senzanome" in "Senzanome" (1924).

Gustavo Brigante-Colonna: "Il convento" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Dino Campana: "Il canto della tenebra" in "Canti Orfici" (1914).

Enrico Cavacchioli: "L'ombra del nemico" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Giovanni Alfredo Cesareo: "Annera l'ombra innanzi a te..." in "Poemi dell'ombra" (1923).

Arturo Colautti: "L'ombra" in "Canti virili" (1896).

Gabriele D'Annunzio: "Nel bosco" in "Elegie romane" (1892).

Federico De Maria: "La Tenebra" in "Voci" (1903).

Riccardo Forster: "L'ombra" in "La Fiorita" (1905).

Alfredo Galletti: "Ombra" in "Odi ed elegie" (1903).

Diego Garoglio: "L'ombra" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Luisa Giaconi: "L'immagine" e "Senz'ombra d'amore" in "Tebaide" (1912).

Giulio Gianelli: "Buio" in "Intimi vangeli" (1908).

Cosimo Giorgieri Contri: "La danzatrice dell'ombra" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).

Emilio Girardini: "Guardando il soffitto" in "Ruri" (1903).

Corrado Govoni "L'ombra Danaide" in "Gli aborti" (1907).

Remo Mannoni, "Ombre amiche" in «Gran Mondo», agosto 1904.

Pietro Mastri: "Tenebra marina" in "L'arcobaleno" (1900).

Arturo Onofri: "Uno sguardo" in "Liriche" (1914).

Angiolo Orvieto: "Risposta" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Nino Oxilia: "E una candela nella sala enorme" in "Canti brevi" (1909).

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Sensazione d'ombra a valle" in «Idea Liberale», marzo 1896.

Umberto Saffiotti: "Le ombre" in "Le fontane" (1902).

Domenico Tumiati: "Ombra" e "Ombra di coro" in "Musica antica per chitarra" (1897).

Diego Valeri: "Nell'ombra" in "Umana" (1916).

Remigio Zena: "Toccata. In minore" in "Tutte le poesie" (1974).



Testi


L'OMBRA

di Riccardo Forster

 

Il tramonto con l'ultima favilla

si spegne in mare. Io vedo le colline

perder la luce e tacite d'un crine

nero chiomarsi. È notte nella villa.

 

Come sempre, come ieri, la tranquilla

sua Ombra non indugia sulle chine

rose, sull'erbe che han sete di brine

in ogni lor recondita fibrilla.

 

A poco a poco, tutta s'è raccolta

l'Ombra calata dall'illune cielo

nel gran mistero della notte folta.

 

Più non ricordi il sole come brilla

ardente nel meriggio. Un Ombra, un velo

è l'orizzonte della tua pupilla.

 

(da "La Fiorita", 1905)

 

 

 

 

E UNA CANDELA NELLA SALA ENORME

di Nino Oxilia

 

E una candela nella sala enorme:

riddano i mostri in mezzo all'ombra informe.

 

A tratti con la voce solitaria

un tarlo rode ... Un brivido è nell'aria.

 

L'ombra avanza ancora, ancora ... E quale

inganno è del gran letto funerale?

 

La tela si raggrinza ... E quale vita

si afferra ad essa con le scarne dita?

 

L'ombra invade la sala. Si distende ...

e si avvinghia ... e si snoda. Sulle tende

 

che celano le piante alte dell'orto

posa livido un teschio di morto.

 

(da "Canti brevi", 1909)



Odilon Redon , "Darkness"
(da questa pagina web)