domenica 20 marzo 2022

Poeti dimenticati: Alfredo Catapano

 

Nacque a Napoli nel 1881 e ivi morì nel 1927. Avvocato e poeta, diresse insieme a Francesco Gaeta la rivista I Mattaccini. Pubblicò poche raccolte di versi, in cui si dimostrò un poeta classicista e, nello stesso tempo, un seguace di Gabriele D'Annunzio. Si tolse la vita sparandosi un colpo di pistola, poco tempo dopo il suicidio dell'amico e poeta Francesco Gaeta.

 

 

 

Opere poetiche

 

"I profili", Stabilimento tipografico Vesuviano, Napoli 1899.

"Le corone", Pierro, Napoli 1900.

"Interludio", Melfi & Joele tip., Napoli 1905.

"Dai Canti", Napoli 1929.

 

 


 

Presenze in antologie

 

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol.VIII, pp. 158-168).

 

 

 

 

Testi

 

 

PRIMAVERA INTIMA

 

Inverno, in vano in van le umane fronti

premi di tedio e d'ombra, in van minacci

risi di sol, di verde, se t'affacci

tetro a le valli pe' canuti monti.

 

Vecchio, rido di te, se gli orizzonti

stringi in un nero circolo: se agghiacci

i fiumi, dal mio cor giammai discacci

gioja di fiori e gluglulii di fonti.

 

Poi che un umil amor dà primavera

perenne a la mia mente, pur se il seme

torpe per ogni monte e ogni riviera.

 

E canto, o Inverno, versi rusticani;

e il fuoco brilla, e la perduta speme

trovo nel cavo di due bianche mani.

 

(da "Le Corone", Pierro, Napoli 1900, p. 80)

 

 

 

 

 CIELO SERENO

 

Se più fulgidamente t'incurvi, o cilestro emisfero,

egro e solo mi scorgo con questa mia angoscia che fiotta;

l’iride di ogni raggio mi acceca, ogni afflato mi scotta

come spoglio di cute io fossi, per il corpo intero!


Stringansi, quali bende, su ’l mio lacerato pensiero

falde di densa bruma, cortine di piova dirotta;

ch’io non veda quel cielo che incombe; che mai non annotta,

poi che con multipli occhi stellari vi veglia il Mistero.

 

Troppo, a colui che piange, insulta colui che in un folle

riso oblioso è immerso; a quei che con polsi tremanti

forza il nodo di un dubbio, chi ha il vero; ad ogni ombra, il fulgore.

 

Per me, stretto da nebbia profonda sì come le zolle,

per me ch’esito e gemo, il fulmine invoco: che schianti,

in un solco di vampe, la mala radice del cuore.

 

(da "Interludio", Melfi & Joele, Napoli 1905, p. 37)

 

 

 

 

 INVIANDO UN PRIMO FIORE DI MANDORLO

 

Poiché soffri, sei buona. E piangerai

come chi è buono, in questa primavera;

sol che a te olezzin forte, ne la sera

                       molle, i rosai.

 

Ecco; e già piangi e tutta ti commuovi

su l'alito di questo primo fiore,

poi che d'un tratto ti occupa il tremore

                       pe' mesi nuovi:

 

quando più vivo è quel che non s'oblia

e più triste è il ricordo più soave,

e il cuor sente mancarsi, in una grave

                       fosca agonia,

 

e piange un pianto che non vuol conforto,

un muto pianto, dolce e amarulento,

un pianto che non basta a lo sgomento

                       per ciò ch'è morto.

 

(da "Dai Canti", a cura della Compagnia degli Illusi, Napoli 1929, p. 79)

 

domenica 13 marzo 2022

"Canti" di Giovanni Tecchio

 

Nel 1931, presso l'editore Monanni di Milano, fu stampato un volume poetico di Giovanni Tecchio intitolato Canti. All'interno di esso, l'autore, già allora quasi completamente obliato, volle includere il meglio della sua produzione in versi. Sfogliandolo, e tenendo a portata di mano le altre opere poetiche di Tecchio, è facile constatare che, quasi tutte le liriche qui presenti, furono inserite negli altri suoi volumi, che vanno dal primo (Poesie, 1891) all'ultimo (Rime della vita, 1900), che risale a più di trent'anni prima. Parecchi componimenti poetici hanno un titolo diverso e, insieme agli altri, hanno subito delle modifiche non sostanziali, che però dimostrano l'insoddisfazione costante del poeta, sempre in cerca di una forma differente dall'originale. Giovanni Tecchio, di cui avevo già parlato in un post dedicato ai poeti dimenticati, secondo me avrebbe meritato miglior fortuna: i suoi versi, così come quelli di Cosimo Giorgieri Contri e di Diego Angeli, rappresentarono qualcosa di estremamente importante nell'ambito della poesia italiana del primissimo Novecento. Infatti, i primi, grandi poeti che, seguendo un ordine prettamente cronologico, fanno la loro comparsa agli albori del XX secolo, sono i crepuscolari; ora, se si vanno a leggere alcune poesie di Gozzano, Corazzini, Govoni, Moretti e altri ancora, non risulterà difficile notare che vi sono delle attinenze, se non delle nette somiglianze, con quelle scritte da Giovanni Tecchio una decina di anni prima; quest'ultimo, praticamente per tutto il decennio che ha concluso il secolo XIX, pubblicò delle raccolte assai simili tra di loro, in cui prevaleva uno stato d'animo melanconico, così come una estrema sensibilità a determinate manifestazioni della natura ed a particolari "visioni" (interni squallidi, atmosfere sognanti, paesaggi autunnali ecc.), ovvero peculiarità che furono perpetrate anche dai poeti crepuscolari. Non vi è dubbio che il Tecchio subì l'influenza di Gabriele D'Annunzio, che in quegli stessi anni pubblicò due volumi poetici notevoli: La Chimera (1890) e Poema paradisiaco (1893); senza dimenticare, ovviamente, i poeti francesi e belgi che, già a partire dagli anni '60 dell'Ottocento, scrissero e pubblicarono opere in versi rientranti nei massimi capolavori del decadentismo e del simbolismo; ma, allo stesso tempo, non vi è dubbio che Tecchio seppe rielaborare quei temi e quelle atmosfere in modo del tutto personale, creando versi, almeno per me, indimenticabili.

In Canti, Tecchio presenta ai lettori più attenti una sintesi della sua poesia, attingendo dai suoi vecchi volumi e scegliendo ciò che ritiene migliore; questo libro va perciò considerato l'ultimo, ricapitolativo lavoro di un poeta ingiustamente trascurato, e che, a mio modesto parere, meriterebbe una rivalutazione. Ecco infine tre poesie estratte da Canti.  

 

 

Frontespizio del volume: Giovanni Tecchio, Canti

 

 

PALUDE

 

Nello stupor del cielo d'alabastro

Sommessamente ad ora ad or si lagna,

Voce universa, il pianto che ristagna

Sotto il poter malèfico d'un astro.

 

Cupe, nell'aer livido biancastro,

Immote e nere come una montagna,

Sopra la desolata erma campagna

Pendon le nubi di vapor salmastro.

 

Non frullo d'ala, non batter di greggia;

Nel cinereo incantesimo dell'aria

Sorde si sfaldan l'ore senza suono.

 

Sull'acquitrino una ninfea galleggia,

Urna di pario marmo funeraria,

Che in sé racchiude un cor nell'abbandono.

 

(da "Canti", p. 9)

 

 

 

 

SOGNO ETERNO

 

Nei silenzi della notte

van sospiri, voci rotte

d'angoscia, pianti,

d'anime schianti.

Dal suo trono eccelso la Morte

sui piani sogguata, sull'erte montane

di croci la nera coorte.

Lo scrosciar delle lacrime umane,

che gemon lontane lontane,

risuona profondo,

per la notte del mondo.

 

Beato, nel roseo mattino

d'aprile chi vide giocondo

tra fiori il cammino!

Non gli passò sull'anima

dell'universo pianto

il turbinar profondo.

Beato, d'un sogno l'incanto

non vide sfiorire, svanire...

E tutto d'intorno a lui tace,

e gli è dolce dormire

nella profonda pace,

sognare nel vago sorriso

d'eterna giovinezza,

la vita un eliso

d'eterna dolcezza!

 

Oh, di quel giorno il vespero

egli non vedrà mai,

né udrà per la notte col vento

insistente, terribile, mai

quell'eterno lamento,

lo scrosciar delle lacrime umane

che gemon lontane lontane,

risonare profondo,

per la notte del mondo!

 

(da "Canti", pp. 63-64)

 

 

 

 

NEVE

 

E neve e neve e neve...

E tutto intorno imbianca:

Passa un sussurro breve,

Il fru d'un'ala stanca.

 

Mentre nell'aria lieve

Danza la ridda bianca,

Una tristezza greve

Scende col dì che manca.

 

Chi studia a un lume fioco,

Chi dorme in letto morbido,

Chi ride accanto al foco;

 

Va un vecchierel lontano,

Un pan cercando e querulo

Stende la scarsa mano.

 

(da "Canti", p. 99)

domenica 6 marzo 2022

Le ombre nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Il termine "ombra", almeno nell'ambito della poesia decadente e simbolista, è stato molto usato ed abusato. Il significato così come la simbologia, non ha riferimenti stabili e precisi; nella maggior parte dei casi però, l'ombra o le ombre sono collegate col buio, con le tenebre e comunque con un concetto relativo all'oscurità in generale. Nella poesia di Diego Angeli, l'ombra di qualcosa o di qualcuno rimane impressa sul muro, come una macchia indelebile, e sembra presagire una sventura imminente. Nei versi di Galletti, un paesaggio lacustre, brumoso, in cui le ombre, al calar della sera, s'infittiscono sempre più, sta a simboleggiare l'anima del poeta, ormai stanca e rassegnata. Nella poesia di Baganzani, invece, l'ombra del corpo, che accompagna l'uomo dovunque esso sia, viene descritta come qualcosa di molto prezioso e amato, e viene definita "malinconia"; simile a quest'ultima, è la poesia di Garoglio, che aggiunge, alla vaga sensazione melanconica, una profonda e lapidaria meditazione sulla vita e sulla morte. Luisa Giaconi, nella poesia visionaria intitolata L'immagine, si vede apparire davanti agli occhi meravigliati l'ombra di sé stessa, com'era in un non precisato passato: forma pallida, dolente, muta, che racchiude nella sua delicata anima qualcosa di estremamente misterioso. Nella poesia di Gianelli l'ombra (o, meglio, il buio) è il poeta stesso, che generosamente ha donato i suoi raggi di luce a chi glieli chiedeva, fino a rimanerne totalmente privo; in questi versi il buio ha valenza di delusione nei confronti dell'umanità, che egoisticamente prende tutto ciò che può e non dà nulla. Girardini vede l'umanità come una fitta schiera di ombre che passano e ripassano per poi finire tutte in un "angol nero" che le inghiotte e che, ovviamente, rappresenta il misero della morte. D'insondabile mistero sono avvolti anche i versi di Tumiati, che descrive una tela raffigurante il ritratto di un filosofo, i cui lineamenti risultano imprecisati a causa dell'ombra fitta; soltanto si distingue lo sguardo fisso dell'uomo pensante. Più volte, in queste liriche, le ombre rappresentano le anime morte; esse, si materializzano quasi sempre durante le ore notturne, quando l'oscurità avvolge ogni cosa; spesso, questa sorta di fantasmi si lamentano per dei torti o delle violenze subite nella loro vita. Rare volte l'ombra rappresenta qualcosa di estremamente piacevole, come la sognata e rimpianta presenza di una donna amata, che fa risorgere nel poeta i momenti più belli vissuti insieme in un passato ormai lontano.

 

 

Poesie sull'argomento 


Diego Angeli: "Un'ombra" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).

Antonino Anile: "L'ombra" in "I Sonetti dell'Anima" (1907).

Sandro Baganzani: "Senzanome" in "Senzanome" (1924).

Gustavo Brigante-Colonna: "Il convento" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Dino Campana: "Il canto della tenebra" in "Canti Orfici" (1914).

Enrico Cavacchioli: "L'ombra del nemico" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Giovanni Alfredo Cesareo: "Annera l'ombra innanzi a te..." in "Poemi dell'ombra" (1923).

Arturo Colautti: "L'ombra" in "Canti virili" (1896).

Gabriele D'Annunzio: "Nel bosco" in "Elegie romane" (1892).

Federico De Maria: "La Tenebra" in "Voci" (1903).

Riccardo Forster: "L'ombra" in "La Fiorita" (1905).

Alfredo Galletti: "Ombra" in "Odi ed elegie" (1903).

Diego Garoglio: "L'ombra" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Luisa Giaconi: "L'immagine" e "Senz'ombra d'amore" in "Tebaide" (1912).

Giulio Gianelli: "Buio" in "Intimi vangeli" (1908).

Cosimo Giorgieri Contri: "La danzatrice dell'ombra" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).

Emilio Girardini: "Guardando il soffitto" in "Ruri" (1903).

Corrado Govoni "L'ombra Danaide" in "Gli aborti" (1907).

Remo Mannoni, "Ombre amiche" in «Gran Mondo», agosto 1904.

Pietro Mastri: "Tenebra marina" in "L'arcobaleno" (1900).

Arturo Onofri: "Uno sguardo" in "Liriche" (1914).

Angiolo Orvieto: "Risposta" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Nino Oxilia: "E una candela nella sala enorme" in "Canti brevi" (1909).

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Sensazione d'ombra a valle" in «Idea Liberale», marzo 1896.

Umberto Saffiotti: "Le ombre" in "Le fontane" (1902).

Domenico Tumiati: "Ombra" e "Ombra di coro" in "Musica antica per chitarra" (1897).

Diego Valeri: "Nell'ombra" in "Umana" (1916).

Remigio Zena: "Toccata. In minore" in "Tutte le poesie" (1974).



Testi


L'OMBRA

di Riccardo Forster

 

Il tramonto con l'ultima favilla

si spegne in mare. Io vedo le colline

perder la luce e tacite d'un crine

nero chiomarsi. È notte nella villa.

 

Come sempre, come ieri, la tranquilla

sua Ombra non indugia sulle chine

rose, sull'erbe che han sete di brine

in ogni lor recondita fibrilla.

 

A poco a poco, tutta s'è raccolta

l'Ombra calata dall'illune cielo

nel gran mistero della notte folta.

 

Più non ricordi il sole come brilla

ardente nel meriggio. Un Ombra, un velo

è l'orizzonte della tua pupilla.

 

(da "La Fiorita", 1905)

 

 

 

 

E UNA CANDELA NELLA SALA ENORME

di Nino Oxilia

 

E una candela nella sala enorme:

riddano i mostri in mezzo all'ombra informe.

 

A tratti con la voce solitaria

un tarlo rode ... Un brivido è nell'aria.

 

L'ombra avanza ancora, ancora ... E quale

inganno è del gran letto funerale?

 

La tela si raggrinza ... E quale vita

si afferra ad essa con le scarne dita?

 

L'ombra invade la sala. Si distende ...

e si avvinghia ... e si snoda. Sulle tende

 

che celano le piante alte dell'orto

posa livido un teschio di morto.

 

(da "Canti brevi", 1909)



Odilon Redon , "Darkness"
(da questa pagina web)


domenica 27 febbraio 2022

La poesia di Giovanni Marradi


 


Giovanni Marradi non ebbe una vita particolarmente movimentata, e visse sempre nella sua città natale: Livorno, tra il 1852 e il 1922; pur non avendo completato gli studi, grazie all'aiuto di Ferdinando Martini divenne dapprima insegnante, quindi Provveditore agli studi nella sua Livorno. Poeta dalla vena facile e istintiva, fu sempre definito "carducciano"; in effetti, l'aggettivo gli calza a pennello; ciò è facilmente constatabile sia leggendo molti dei suoi migliori versi, sia perché fu lui stesso a definirsi un seguace del Carducci (che però non ebbe parole particolarmente lusinghiere nei suoi confronti). Il critico Luigi Baldacci affermò che Marradi fu il poeta che tenne in considerazione più di altri le Rime nuove di Giosuè Carducci; secondo lo stesso, ciò che avvicina l'opera poetica del livornese a quella del pietrasantino, è "un ambito comune di naturalismo". Sempre Baldacci, paragona la poesia di Marradi alla musica di Pietro Mascagni e ad alcune opere pittoriche dei macchiaioli; insomma, esistono elementi comuni, non solo tra i poeti toscani attivi nella seconda metà dell'Ottocento, ma anche tra artisti di vario genere nati nella stessa regione; tutti infatti presentano peculiarità ben identificabili, che vanno ricondotte all'area geografica in cui questi artisti vissero e crearono le loro opere migliori. Anche un altro critico insigne: Ferruccio Ulivi, vide nella poesia di Marradi evidenti accenti naturalistici, ma, pure, identificò certe somiglianze con alcuni versi di Gabriele D'Annunzio; tornando però a quanto scrisse il Baldacci, Marradi fu sempre o quasi polemico nei confronti della poesia dannunziana e non solo (criticò anche i versi di Giacomo Zanella e di Vittorio Betteloni), rimanendo fedele soltanto al "maestro" Carducci. Chiudo riportando un elenco delle opere poetiche di Marradi, seguito da quello delle migliori antologie in cui è stato incluso; infine, ho trascritto tre poesie da me particolarmente gradite di questo poeta, ormai quasi dimenticato.

 

 

 

Opere poetiche

 

"Canzoni moderne", Zanichelli, Bologna 1879 (sotto lo pseud. di G. M. Labronio)

"Fantasie marine", Tip. Cino dei F.lli Bracali, Roma 1881.

"Mortuaria", Stab. Tipografico dell'Ordine, Ancona 1881.

"Ricordi lirici", Sommaruga, Roma 1884.

"Poesie", Triverio, Torino 1887.

"Nuovi canti", Treves, Milano 1891.

"Ballate moderne", Voghera, Roma 1894.

"Rapsodia garibaldina", Verri, Milano 1899.

"Poesie", Barbera, Firenze 1902 e successive.

 

  

Piatto anteriore della ottava tiratura stereotipa del volume: Giovanni Marradi, "Poesie", Barbera, Firenze 1923 

 

 

Presenze in antologie

 

"Poesie moderne (1815-1887)", raccolte e ordinate da Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1889 (pp. 459-461).

"Dai nostri poeti viventi", a cura di Eugenia Levi, Loescher & Seeber, Torino-Roma 1891 (pp. 123-128).

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 222-232).

"Aria sana", a cura di G. Lanzalone e B. Cocurullo, Stab. Tip. Fratelli Jovane Di G., Salerno 1908 (pp. 285-288).

"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (p. 1251).

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 247-250).

"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 135-136).

"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 303-305).

"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 425-428).

"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 304-310).

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 172-179).

"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 129-131).

"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp. 1057-1071).

"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 605-611).

"Poesia dell'Ottocento", a cura di Carlo Muscetta ed Elsa Sormani, Einaudi, Torino 1968 (vol. II, pp. 2139-2158).

"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1977 (pp. 265-270).

"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 449-453).

 

 

 

 

Testi

 

 

UNA RUPE

 

Terribile dirupo

che con la testa enorme

domini, eretto e cupo

fantasma, il ciel che dorme,

 

sei forse, entro la notte,

tacito al buio e al gelo,

lo spettro di Nembrotte

che scalar pensa il cielo?

 

Che fai, che fai, diritto

silenzioso e cupo,

contro il ciel confitto

terribile dirupo?

 

Non so; ma invidio, o monte,

l'ala de' tuoi falconi

quando l'aerea fronte

di nuvole incoroni.

 

Invidio le tue lotte

col dio che ti percote,

e fulminate e rotte

le tue foreste immote.

 

E alla tua cima invano

l'occhio e il desio s'aderge

da questo reo pantano

che stagna e mi sommerge.

 

(da "Poesie", Barbèra, Firenze 1923, pp. 126-127)

 

 

 

 

PALAZZO IN ROVINA

(DALLA ROCCA DI FOSSOMBRONE)

 

Era ostello di Duchi, e luce e suono

n'uscìa d'armi e di feste. Ora è stamberga

di proletari, e sdraiavi le terga

irreverenti l'ispido colono.

 

Pace a voi, Duchi. L'inclita magione

vostra ruina, e ad agio suo vi passa,

pei rotti muri, il popolo e il rovaio.

Or da' verdi pendii di Fossombrone

sovrasta indarno alla città giù bassa

l'aula del trono, ohimè, fatta granaio!

Pace a voi, morti. Sfolgora april gaio,

e ancor sul vostro secolar letargo

porta viole e oblio. — Principi, largo,

largo alla plebe che vi invade il trono!

 

(da "Poesie", Barbèra, Firenze 1923, p. 274)

 

 

 

 

 SOGNI E RICORDI

 

Scorre fra l'ingiallita erba che muore

un rivolo di limpida acqua viva,

e a me, sotto una mite ombra tardiva,

l'onda de' sogni scorre lenta in cuore.

 

Né mai fu così dolce il sogno alato

dell'avvenire, quando più lo infiora

la verde illusion della speranza,

come ora è dolce del lontan passato

la vision che sfuma e si scolora

nelle memorie, in cerula distanza.

Oh come, ormai, dell'avvenir che avanza

langue a me il sogno pallido ed incerto,

or che sfiorì del roseo tuo serto,

giovinezza mia, l'estremo fiore!

 

(da "Poesie", Barbèra, Firenze 1923, p. 328).