domenica 9 gennaio 2022

"Lo specchio e la falce" di Pietro Mastri

 

Nel 1907 fu pubblicata dall'editore Treves di Milano, Lo specchio e la falce: terza opera in versi di Pietro Mastri (pseudonimo di Pirro Masetti, nato, vissuto e morto a Firenze tra il 1868 ed il 1932). Rispetto alle precedenti, si distingue per un incupimento tangibile delle atmosfere che vi vengono descritte, pur rimanendo immutate certe tematiche, molto legate alla poetica pascoliana delle "piccole cose". Questo libro segna il confine della prima fase poetica dello scrittore fiorentino; dopo di esso, infatti, Mastri non pubblicò più nulla per ben tredici anni, attraversando un periodo particolarmente complicato della sua vita, che comunque riuscì lentamente a superare, aiutato dalla fede religiosa, che gli diede la possibilità di osservare sé stesso e il mondo con maggiore ottimismo. Ma in queste pagine non è difficile notare il disagio esistenziale che allora lo attanagliava, e che era meno evidente nelle altre raccolte; questo disagio si manifesta già dal prologo: una prosa senza titolo in cui il poeta medita amaramente sulla vita che, nel suo caso, aveva già superato la metà (eloquente a tal proposito è la citazione dantesca posta all'inizio); una cupa malinconia attraversa diversi componimenti poetici, come Boboli, in cui i famosi giardini fiorentini servono da spunto per dimostrare l'indifferenza e la spietatezza della natura (derivazione leopardiana), soprattutto quando ripensa ai periodi felici della sua infanzia e della sua gioventù - ormai lontani - che gli consentono di dedurre l'assoluta immutabilità del luogo e, nello stesso tempo, il totale ribaltamento della situazione e dell'umore personale. In altre poesie come Lo specchio e Viale dei colli, Mastri appare ormai distaccato dalla realtà e disinteressato alle vicende umane, e sembra osservare sé stesso come tutto il resto, da un luogo lontano e fuori del mondo. Come in L'arcobaleno - raccolta pubblicata sette anni prima - vi sono dei versi in cui domina il mistero assoluto; in Grido nella notte, per esempio, l'angoscia si manifesta improvvisamente, durante una notte serena e tranquilla, a causa della netta percezione di un urlo lungo e disperato di cui il poeta non capisce la provenienza né il motivo. Questo senso di panico misto a mistero ritorna in Terrore notturno, anche se qui si palesa la presenza della "morte": tema che si ripete simbolicamente anche nelle due ultime poesie intitolate complessivamente La falce. Vi sono poi alcuni versi - e con questa constatazione del tutto personale concludo - in cui Mastri sembra anticipare i temi cari a Camillo Sbarbaro: Il giumento bendato è una poesia in cui si paragona l'umanità ad un animale da soma, costretto a svolgere determinati compiti e incapace di opporsi agli ordini, come fosse, anziché un essere vivente, un automa. Ecco infine due delle trentuno poesie che fanno parte della raccolta Lo specchio e la falce di Pietro Mastri. 

 

 


 

BOBOLI

 

   O gran giardino regale,

   oggi regale invano,

   dal nome labiale

   di suono sì intimo e arcano,

   che le labbra, raccolte

   nel proferirlo, due volte

   si bacian con lieve carezza,

quasi ad assaporarne la dolcezza;

 

   Boboli, qual nostalgia

   a te mi riconduce

   or che Marzo s'avvia

   fra palpiti d'ombre e di luce?...

   Boboli, in questo giorno

di festa, a te da lungo oblio ritorno.

 

   Oh! son pur questi i recessi

   dove fanciullo venni.

   Fra siepi di mirti e cipressi

   ancora i viali solenni,

   sì fondi che sfuggono all'occhio,

   sembrano attendere un cocchio

   dorato, cui seguan cortei

di musiche, d'insegne e di trofei:

 

   ancora, per erte e per chine,

   ombrosi sentieri

   corrono senza fine

   sotto gli archi leggeri

   dei rami contesti dall'arte,

memori che l'amore ama in disparte:

 

   ancora lucertole al sole

   guizzan sui gradi vuoti

   dell'anfiteatro; e le sole

   statue nei gesti immoti

   ripetono i giochi antichi,

   bianche fra verdi intrichi;

   e nelle vasche, enorme

blocco di amalachita, l'acqua dorme.

 

   Tanto mi appari immutato,

   ch'io cerco sulla ghiaia

   fina, o su qualche prato,

   se un segno anche m'appaia,

   un segno, di quelle orme stesse,

che il mio piede infantile un dì v'impresse.

 

   Ohimè! Altri fanciulli

   sfarfallano là pei viali,

   con risa, urli e trastulli,

   con un balenar come d'ali ;

   e colgono pur oggi

   le mammole su' tuoi poggi,

   e sbriciolano il pane

ai pesci rossi delle tue fontane.

 

   E tu gli accogli, oramai,

   come accogliesti me,

   come ne accoglierai

   i figli oh! non figli di re.

   Aperti son ora i cancelli:

e tu gli accogli, ormai, come gli uccelli;

 

   gli uccelli a te migranti

   in questi primi tepori,

   ch'empiono già di canti

   i tuoi boschetti d'allori,

   mentre le piante spoglie

   han verdi presagi di foglie,

   e al piè delle cortici annose

rampano tralci che saran di rose...

 

   Non senti tu? No. Il vecchio

   tuo spirito si mira,

   immobile, nello specchio

   d'un'altra età; né l'attira

   vicenda di stagioni,

né trapassar di generazioni.

 

   Tu, gran giardino regale,

   oggi regale invano,

   vegeti forse quale

   il fachiro indiano,

   che, assorto nel veggente

   letargo, sogna e non sente;

   non sente il pulsar della vita,

ch'entro di sé, fuori di sé l'incita;

 

   non sente il ronzìo delle mosche

   sul volto, né crescer prolissa

   la barba; con le fosche

   pupille, inerte, s'affissa,

   e avvolto nelle sue bende

segue il suo sogno fuor del tempo e attende.

 

(da "Lo specchio e la falce", Treves, Milano 1907, pp. 29-34)

 

 

 

 

 

COSÌ LE STELLE...

 

Vuoi che alcunché - spirito, idea, sembianza -

serbi intatta bellezza agli occhi tuoi?

Fa di restarne lungi più che puoi,

e da lungi sii pago d'ammirare.

 

Così le stelle, per la gran distanza,

mostran di sé la pura luce: presso

vedresti il fango, forse, il fango stesso,

onde la terra sordida ti appare.

 

(da "Lo specchio e la falce", Treves, Milano 1907, p. 67)  

domenica 2 gennaio 2022

Antologie: "Transiti"

 

Già è divenuto un lontano ricordo, il transito quanto mai annunciato e temuto, dal secondo al terzo millennio. Esiste una piccola antologia poetica, che comperai a quei tempi e che ancora posseggo, in cui si parla di questo argomento; s'intitola Transiti (sottotitolo: Poesia di fine millennio), ed è stata curata da Luca Giordano; fu pubblicata da Avagliano Editore in Cava de' Tirreni nel 1999. Al suo interno si trovano versi di otto poeti italiani e alcuni disegni di Gelsomino D'ambrosio. Ecco cosa c'è scritto sul piatto posteriore di questo volumetto:

 

Fra suggestioni arcaiche e critica della società contemporanea, echi mitologici e motivi leopardiani, sette poeti italiani affrontano il tema del confine, mettendosi in viaggio per il nuovo millennio, alcuni per varcarlo come ignorandolo, altri per esorcizzare i possibili esiti di dolore e di straniamento. Più che il passaggio di un displuvio cronologico, il tema centrale dell'antologia finisce per essere il rapporto, assai più decisivo, fra la vita e la morte.

Il confine, se esiste, è nell'uomo. E la voce del poeta - sottile, poco ascoltata, ma consapevole e certa -, ignorando la scadenza del calendario, si richiama ad una diversa tavola dei valori, andando a scavare proprio nell'uomo il senso ultimo del vivere.

 

Ed ecco un frammento della presentazione scritta dal curatore, che precede la parte antologica:

 

Sappiamo che nulla di tanto nuovo, perfino nell'orrore, potrà accadere nel Duemila che non sia già mille volte accaduto, ma il gioco dei transiti è troppo carico di allusività per non apparirci uno specchio. E allora eccole queste nuove letture d'occasione: per la fine del millennio, e in attesa del nuovo mondo che verrà d'incanto, la poesia torna qui ai temi radicali della vita e della morte in un fragile gioco di allusioni.

Sei poeti italiani tra i più rappresentativi delle tendenze letterarie di questa seconda metà del secolo e due esuli americani che, non sempre da poveri, per ragioni e tempi diversi hanno varcato le nostre frontiere per un ignoto transito in culture nuove e ideologie diverse, sono gli ospiti scelti per questo volumetto. Con il maggior esponente della neoavanguardia italiana (e, forse, uno dei pochi poeti italiani in grado di varcare, in questo secolo, i confini letterari nazionali), si accompagnano le voci migliori di altre tensioni emotive e di altre esperienze linguistiche che, in alcuni casi, proprio da lui hanno preso il passo per differenze, in un evidente (anche se non sempre conclamato) contrasto tematico, stilistico, formale, ideologico. Voci, queste ultime, naturalmente, non compatte e non riconducibili ad una unità di coro. Voci esse stesse differenziate in visioni e luoghi l'una all'altra distanti. Figure, tuttavia, altrettanto in rilievo nel panorama recente della nostra poesia.

 

Queste mie trascrizioni spiegano in modo esaustivo le tematiche dei versi che compongono quest'antologia. Chiudo riportando i nomi dei poeti presenti nella stessa.

 




TRANSITI

POESIA DI FINE MILLENNIO

 

Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Luigi Fontanella, Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Giose Rimanelli, Vito Riviello, Edoardo Sanguineti.

domenica 26 dicembre 2021

La poesia di Edmondo De Amicis

 

Edmondo De Amicis (Oneglia 1846 - Bordighera 1908) è stato, è, e molto probabilmente sarà sempre ricordato come prosatore, e in particolar modo come autore del romanzo Cuore: punto di riferimento imprescindibile per tutti gli italiani - bambini, giovani e in età matura - a partire dall'ultimo decennio del XIX secolo, fino all'avvento del fascismo. La fortuna di questo famoso romanzo, così come la fortuna dell'autore, si andarono affievolendo cogli anni; il motivo principale sta nel fatto che il libro Cuore fu giudicato e bollato, da una parte eccessivamente sentimentale, e dall'altra oltremisura patriottico. Fatto sta che il De Amicis, da un po' di tempo a questa parte, è caduto, se non nel dimenticatoio, in un limbo perpetuo. Pochi o pochissimi conoscono i versi di questo scrittore, che pure, a suo tempo, ebbero discreta fama, e furono più volte ripubblicati in un unico volume edito dalla Treves di Milano (la prima edizione è del 1880). Della poesia di De Amicis si sono occupati diversi, illustri critici del Novecento; un po' tutti concordano nell'identificare alcuni elementi che la contraddistinguono - come l'abbassamento del tono e una palese prosasticità - i quali fanno sì che venga considerato, insieme ad altri del suo tempo, come un precursore del crepuscolarismo. C'è poi più di qualcuno che pone in evidenza l'umorismo, presente in svariate liriche del nostro; Ferruccio Ulivi evidenzia anche "una bonaria satira del costume", mentre Ettore Janni afferma, dopo aver individuato un latente pessimismo affiorante qua e là nei suoi versi (camuffato ed annacquato da un più riscontrabile umorismo): «Si può dire del De Amicis che provenga egli pure, buono buono, dalla Scapigliatura».

Concludo riportando un elenco delle antologie che hanno preso in considerazione il De Amicis "poeta", seguito da tre poesie estratte dall'unico volume di versi che pubblicò questo scrittore troppo spesso identificato soltanto quale autore del libro Cuore.

 

 

Edmondo De Amicis

 

Presenze in antologie

 

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 135-136).

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 235-236).

"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 266-269).

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 8-14).  

"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp. 999-1008).

"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 593-596).

"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1977 (pp. 395-397).

"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 409-416).

"L'albero a cui tendevi la pargoletta mano", a cura di due anonimi, Mursia 1979 (p. 220).

"Poesia italiana 1224-1961. Un'Antologia", a cura di Antonio Carlo Ponti, Guerra, Perugia 1996 (p. 172).

"Le poesie che amo", a cura di Alessandro Gennari, Mondadori, Milano 1998 (pp. 83-84).

 

 


Testi

 

 

A MIA MADRE

 

Non sempre il tempo la beltà cancella

O la sfioran le lacrime e gli affanni;

Mia madre ha sessant'anni,

E più la guardo e più mi sembra bella.

 

Non ha un detto, un sorriso, un guardo, un atto

Che non mi tocchi dolcemente il core;

Ah se fossi pittore

Farei tutta la vita il suo ritratto.

 

Vorrei ritrarla quando inchina il viso

Perch'io le baci la sua treccia bianca,

O quando inferma e stanca

Nasconde il suo dolor sotto un sorriso.

 

Ma se fosse un mio prego in cielo accolto

Non chiederei del gran pittor d'Urbino

Il pennello divino

Per coronar di gloria il suo bel volto;

 

Vorrei poter cangiar vita con vita,

Darle tutto il vigor degli anni miei,

Veder me vecchio, e lei

Dal sacrifizio mio ringiovanita.

 

(da "Poesie", Treves, Milano 1882, pp. 105-106)

 

 

 

 

LA PIOGGIA

 

Con che dolcezza i primi anni rammento

E i miei trastulli e il mio paterno tetto

Sporgendo il volto a questo vivo e schietto

Odor di pioggia che mi porta il vento!

 

Riveggo il padre mio sui libri intento,

Dorato dal chiaror del caminetto,

E risento dal piccolo mio letto

Delle lunghe notturne acque il lamento.

 

E sogno ancora i pellegrini erranti

Per vaste selve e nere alte castella

Nido ospitai di fuggitivi amanti;

 

E un vago raggio dell'età fuggita

Al già stanco mio sguardo il mondo abbella...

Odorando la pioggia, amo la vita.

 

(da "Poesie", Treves, Milano 1882, p. 147)

 

 

 

 

ALLA TERRA

 

T'amo, feconda e pia terra, e t'ammiro,

E ti palpo, e di te colmo le mani,

E su te chino il volto, avido, e i sani

Profumi tuoi, riconoscente, aspiro;

 

E in te l'occhio figgendo, in breve giro

Scopro monti e foreste e valli e piani,

E mi smarrisco per recessi arcani,

E dietro a mille vaghe ombre sospiro.

 

E a traverso a' tuoi strati in te sprofondo

Con paurosa voluttà la mente

Fino all'intime viscere del mondo,

 

E bacio il manto tuo florido e bello,

Terra forte, gentil, fida, innocente,

Che ricopri mio padre e mio fratello.

 

(da "Poesie", Treves, Milano 1882, p. 158)

domenica 19 dicembre 2021

Poeti dimenticati: Francesco Meriano

 

Nacque a Torino nel 1896 e morì a Kabul (Afganistan) nel 1934. Poeta, giornalista e politico, pubblicò la sua prima raccolta di versi appena diciottenne; ancora giovanissimo diresse la rivista La Brigata insieme a Bino Binazzi; collaboratore con versi, articoli e saggi della Diana, del Popolo d'Italia e del Giornale del Mattino, fu anche vice-direttore del Resto del Carlino. Dedicatosi alla politica a partire dal 1924, ebbe, fino alla prematura morte, diversi e prestigiosi incarichi all'estero. Poeticamente parlando, Meriano fa parte di quella generazione che subì le influenze di correnti e movimenti fondamentali quali crepuscolarismo e futurismo; egli ne fu inizialmente un seguace; in seguito però, si avvicinò decisamente ad un frammentismo sia prosastico che poetico, caro agli scrittori della Voce. Da quest'ultima tendenza scaturirono i migliori risultati letterari di Meriano, sia che si parli di versi veri e propri, sia di prose poetiche o narrative.



 

Opere poetiche

 

"Gli Epicedi e altre poesie", «La Fiorita», Teramo 1914.

"Equatore notturno - Parole in libertà", Edizioni Futuriste di «Poesia», Milano 1916.

"Croci di legno", Vallecchi, Firenze 1919.

 




Presenze in antologie

 

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 405-407).

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 5, pp. 42-49).

"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 399-406).

 



Testi

 

CONFESSIONE

 

Anima, mi raccolgo

col tuo solo dolore,

odo la tua parola,

il tuo profumo colgo

come un solingo fiore,

sento il verso che vola

dal tuo dolce mistero

come il corvo rapace

nella notte verace

s'alza da un cimitero.

 

Anima, non godemmo

dell'altra gioventù,

che freme nella vita;

l'ebrezza non bevemmo.

Quel che ghirlanda fu

ora è fronda appassita.

Tardi? Perché, contrari

a tutto ciò che è gioia,

preferimmo la noia

di studi solitari?

 

Ricordo. Noi guardammo

negli occhi della folla

gelida, muta, ostile;

ed odio vi trovammo:

e non l'odio che scrolla

ma l'odio che fa vile.

Ah non per quelle bocche

fu pane il nostro canto!

Si ribevvero il pianto

le nostre stesse bocche.

 

E cantammo in un angolo

del mondo, il più deserto,

il Dolore, ove pochi,

i profughi del fango,

quelli che più han sofferto,

tengono accesi i fuochi

delle loro speranze.

Oh, più del vostro amore,

il nostro alto dolore

è ricco d'esultanze!

 

Cantammo nell'angoscia

il pianto che divora,

lo scherno che distrugge,

la risata che scroscia,

ma non l'odio che accora,

la menzogna che fugge,

l'insulto che ha paura.

Fu limpido ogni verso,

ogni pensiero terso

ed ogni strofe pura.

 

La Morte ora s'appressa.

Non ho più forze; sono

debole, sono vuoto.

L'anima si confessa,

l'anima vuol perdono,

il cuore è quasi immoto.

Rimpiango il sacrifizio,

la gioventù perduta,

la coppa non bevuta

per non cedere al vizio.

 

Sono come precinto

romito che si muore

e nelle fibre dure

sente, non ancor vinto,

lo stimolo d'amore,

e il sole agogna. E pure

nella sua cella oscura

gli toccherà morire,

e la vedrà riempire

di brame e di paura.

 

Voglio godere! E pure

stanca è la man, la fronte

pesa, il capo riarde.

Godon l'altre creature

la loro vita d'onte

e di fedi bugiarde.

Oh, anch'io! Ch'io provi

la vita coi suoi mali,

le sue gioie fatali,

i suoi palpiti nuovi!

 

Anima, viver voglio

quest'orgia della gloria

che m'arde in ogni vena.

Per il mio vasto orgoglio

la Musa è una Vittoria,

la Despota è una Menade;

i versi son l'assenzio

che inebria e che rapisce,

gli steli che fiorisce

l'angoscia del Silenzio.

 

Inebriami di canto!

Del canto più selvaggio,

del canto più sfrenato,

non più pregno di pianto,

ma che sappia di maggio

e di fieno falciato.

Ch'io senta sulla bocca

un'altra bocca, quella

della dolce sorella,

che un bacio ardente scocca.

 

(da "Gli Epicedi ed altre poesie", 1914)

 

 

 

 

SPLEEN

 

Primavera di penitenza,

tutto è spento e incenerito.

Una spettrale sonnolenza

ci addormenta nell'infinito.

 

E quelle ali così stanche,

così inutili e pesanti!

E le strade afose e bianche

sotto il passo dei mendicanti!

 

Disperazione delle ore

che si annoiano a misurare

con triste meccanico cuore

tutte le gocce di questo mare!

 

Di questo mare desolato,

come un lago calmo ed uguale

dove ogni ricordo è annegato

in una pace mortale!

 

O Primavera malata,

nel letargo della natura,

dalla nera terra è sbocciata

una malvagia fioritura.

 

Fiori di tutte le voglie,

fiori d'amari peccati,

che uccidono chi li coglie

coi profumi avvelenati...

 

Non ci sono che i loro colori

sulla terra addormentata:

sotto il male di cui tu muori,

O Primavera avvelenata!

 

[da "Croci di legno (1916-1919)", 1919]

 

 

 

 

 

 

sabato 18 dicembre 2021

L'alfabeto della poesia

 Più di una persona mi ha chiesto: «Come si fa una poesia?». Io gli ho risposto: «È semplice: basta usare le lettere dell'alfabeto!». «Come sarebbe a dire?», mi è stato risposto, e allora io gli ho elencato tutte le lettere presenti nel nostro alfabeto (insomma, non proprio tutte, qualcuna in verità l'ho saltata); e facendo questo elenco, mi è nata una poesia, che riporto di seguito. S'inititola: "L'alfabeto della poesia".



A come Amore,

B come Bellezza,

C come Colore,

D come Dolcezza;


E come Ebbrezza,

F come Fantasia,

G come Gaiezza,

I come Ironia;


L come Leggerezza,

M come Madrigale,

N come Naturalezza,

O come Originale;


P come Poemetto,

Q come Quartina,

R come Rispetto,

S come Sestina;


T come Tenerezza,

U come Utopia,

V come Vaghezza,

Z come Zia.


E l'alfabeto intero

per poter dare il via

al magnifico e altero

mondo della poesia.