domenica 10 febbraio 2019

Antologie: Marinetti e i futuristi

Non è soltanto un'antologia poetica, questo ottimo volume curato da Luciano De Maria e pubblicato nel 1994 dalla Garzanti di Milano; qui si possono trovare molti manifesti, alcuni scritti teorici e politici (compresi quelli polemici) e parte di testi prosastici e teatrali riguardanti il movimento d'avanguardia italiano più importante del XX secolo. Ovviamente si dà uno spazio non indifferente al fondatore del Futurismo: Filippo Tommaso Marinetti. Per quel che concerne la parte poetica, situata all'interno della quarta sezione, intitolata Testi creativi, il curatore giustamente prende in considerazione soltanto i migliori esponenti del movimento: Paolo Buzzi, Enrico Cavacchioli, Luciano Folgore, Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi; meno spazio trovano i fautori della prosa poetica come Bruno Corra e Mario Carli. Chi, però, volesse approfondire maggiormente il lato poetico del Futurismo, meglio farebbe a consultare un'altra antologia di cui ho già parlato: I Poeti del Futurismo 1909-1944 ( a cura di Glauco Viazzi), poiché mi sembra ancora oggi la più completa ed esaustiva del settore. Ecco, infine, l'elenco dei poeti selezionati dal curatore dell'opera.



MARINETTI E I FUTURISTI

Filippo Tommaso Marinetti, Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi, Paolo Buzzi, Enrico Cavacchioli, Luciano Folgore, Francesco Cangiullo, Ardengo Soffici, Bruno Corra, Mario Carli.

domenica 3 febbraio 2019

14 poesie di 14 poeti italiani del XX secolo sull'addio alla scrittura e alla vita


In queste poesie c'è una evidente intenzione, da parte degli autori, di chiudere con la scrittura in versi; in taluni casi, l'intenzione è ben più ampia e importante, trattandosi di testamenti. È chiaro che si tratta di testamenti poetici, anche se, sebbene raramente, si riscontrino una certa percentuale di indizi che fanno pensare a veri e propri testamenti. È il caso dei versi di Enrico Fracassi, che si suicidò a soli ventidue anni lasciando pochissime poesie inedite che furono pubblicate molti anni dopo la sua scomparsa. Ma anche in altri casi emerge in modo evidente una sincerità non discutibile: penso ai poeti destinati a morire entro poco tempo per malattia, per vecchiaia o, ancora una volta, per loro volontà. Ci sono poi casi in cui il poeta dichiara di chiudere la sua attività letteraria, ma in realtà non lo fa; Enrico Thovez per esempio, nella sua ultima poesia della sua prima opera poetica sembra abbia intenzione, dopo aver dato alla luce un capolavoro memorabile, di non pubblicare più nulla; al contrario, circa venti anni dopo Il poema dell'adolescenza (da cui è tratta la poesia qui presente), farà uscire un'ulteriore opera in versi. Anche il Congedo di Marino Moretti non è attendibile, se è vero che uscì nel volume Tutte le poesie del 1966, come fosse sicura la cessazione della sua attività letteraria; invece, all'opera citata, seguirono, da parte dello scrittore romagnolo, altri romanzi e altre poesie, pubblicate fino al limite della vecchiaia. Ma quelli che seguono sono, al di là di ulteriori, noiosi ragionamenti, tutti versi apprezzabili per profondità, bravura, fantasia e ironia: come capita spessissimo se si parla di poesia italiana del Novecento.




CANZONE TRISTE IN TRE PARTI
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

I

Ora che m' avvicino a voi
mentre parlate, soli, o ad altri
che non v'ascoltano...
Ora che m' avvicino alla morte
e a voi che a lei vi stringete
perché è l'ultima cosa che vi resta.
Ora soltanto intendo quel che dite
e la ragione che vi fa parlare.

Una sera dopo una giornata
troppo bella d'ottobre in un albergo
decaduto di Parma in cui
non accendono
profittando di questa luce incerta.
Così è un po' buio, fa un po' freddo,
al pensionante non è dato che parlare,
ma a chi?
Prima che le lampade imbianchino
le tovaglie e colorino i miseri garofani
per la commedia vivida del pranzo,
lasciate che un quieto delirio di parole
di donne rinnovi le gonne fugaci, i corpetti celesti
che il mulinello d'ombra inghiottirà
nell'istante che precede
l'avvicendarsi dei turni di servizio.


II

Era questo il mormorio indistinto
da un'altra stanza che rassicurava
l'adolescente in lagrime, la saggezza raggiunta
nella rinuncia?


III

A quelli che vorrebbero tenermi qui -
morti che mi amano ancora
perché non gli resta altro da fare
che amarmi sin che anch' io
non sia tornato con loro
dietro il muro sbiadito e il marmo
che salda la calcina mischiata
con sabbia del Baganza e acqua
del condotto farnesiano -
vivi che non mi hanno mai amato
e dicono di preferire
quella mia poesia di una grazia
proverbiale, dico: lasciatemi andare,
giugno è ventoso
e queste foglie amare
sono imbrattate di lucciole sfinite,
lasciatemi andare via.

(da "La lucertola di Casarola", Garzanti, Milano 1997)




AUGURIO
di Gustavo Botta (1880-1948)

Dopo la sorda romba
di un mondo irrequieto,
il fiore del segreto
consoli la mia tomba.

(da "Alcuni scritti", Ariel, Milano 1952)




ALLA MIA OMBRA
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Qualcuno ti cancelli
a mia immagine e somiglianza
ombra scompagnata
che ancora scivoli
vacillante sui muri
sperduta nelle stanze.

(da "Ultime", Idola Novecento, Palermo 2000)




LA MORTE DI TANTALO
di Sergio Corazzini (1886-1907)

Noi sedemmo sull'orlo
della fontana nella vigna d'oro.
Sedemmo lacrimosi in silenzio.
Le palpebre della mia dolce amica
si gonfiavano dietro le lagrime
come due vele
dietro una leggera brezza marina.

Il nostro dolore non era dolore d'amore
né dolore di nostalgia
né dolore carnale.
Noi morivamo tutti i giorni
cercando una causa divina
il mio dolce bene ed io.

Ma quel giorno già vanìa
e la causa della nostra morte
non era stata rinvenuta.

E calò la sera su la vigna d'oro
e tanto essa era oscura
che alle nostre anime apparve
una nevicata di stelle.

Assaporammo tutta la notte
i meravigliosi grappoli.
Bevemmo l'acqua d'oro,
e l'alba ci trovò seduti
sull'orlo della fontana
nella vigna non più d'oro.

O dolce mio amore,
confessa al viandante
che non abbiamo saputo morire
negandoci il frutto saporoso
e l'acqua d'oro, come la luna.
E aggiungi che non morremo più
e che andremo per la vita
errando per sempre.

(da "Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1968)




CONGEDO
di Enrico Fracassi (1902-1924)

Sottoterra non vive spirito o senso:
le ceneri peregrinano, poi si confondono.
Atomi elevano le montagne, monumenti,
che illuminano lampade, senza ricordo accese.

Dolce per me sarebbe e per te profondare nella quiete,
sul tuo seno assaporo una più certa morte;
non più ascolteremmo, sparte membra nel suolo,
scendere di soppiatto, fra le viti, la sera.
Per noi, sulle montagne, ora s’accenderebbero
quelle immobili lampade sepolcrali.

(da "Passione e oblio", Edizioni Il Labirinto", Roma 1998)




PRESAGIO
di Giulio Gianelli (1879-1914)

Come oggi parto verso l'alpe, o amici,
presto m'involerò per altra via,
eternamente. Così vuol che sia
l'anima, se da lei tolgo gli auspici.

Mi evocherete lungo le pendici
dove un giorno cantai la madre mia,
e, sposa eletta, la malinconia
mi soccorreva d'attimi felici.

Non piangerete; favola è la morte
per me, come la vita, che non ebbi
suddita al verbo d'un'ignobil sorte.

Non so per qual prodigio di natura,
io che tra voi, fraternamente, crebbi,
un'immagine fui, non creatura.

(da "Intimi vangeli", Streglio, Torino 1908)




CONGEDO
di Marino Moretti (1885-1979)

Tutto vi lascio del mio Novecento
in prosa o in verso che è quel ch'io possiedo,
con una casa, un focolare spento
e uno squallido arredo.

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1966)




CONGEDO
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

E ora vi dico addio
perché la mia carriera
è finita:
evviva!
Muoiono i poeti
ma non muore la poesia
perché la poesia
è infinita
come la vita.

(da "Via delle cento stelle", Mondadori, Milano 1972)




NOVEMBRE
di Antonia Pozzi (1912-1938)

E poi – se accadrà ch'io me ne vada –
resterà qualchecosa
di me
nel mio mondo –
resterà un'esile scìa di silenzio
in mezzo alle voci –
un tenue fiato di bianco
in cuore all'azzurro –

Ed una sera di novembre
una bambina gracile
all'angolo d'una strada
venderà tanti crisantemi
e ci saranno le stelle
gelide verdi remote –
Qualcuno piangerà
chissà dove – chissà dove –
Qualcuno cercherà i crisantemi
per me
nel mondo
quando accadrà che senza ritorno
io me ne debba andare.

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998)




LAPIDE
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Non è un orto
o un giardino
il cimitero
dove io sono sepolto.
È un luogo assorto,
un muro.
Ogni bene è scontato,
ogni debito pagato
e il nome tutelato.
Mio amico, fratello
contami i vecchi giuochi,
il fumo, i fuochi antichi.
Prendi di me l'effige,
le rughe, la fuliggine,
le lacrime, la ruggine.
Non è un orto
o un giardino
il cimitero dove io sono sepolto.
È un regno spento, muto.
Qui l'amore è perduto.
Qui la festa è finita.

(da "L'ellisse. Poesie 1932-1972", Mondadori, Milano 1974)




LA MIA BARA
di Giovanni Testori (1923-1993)

Ho cominciato a costruire
insieme a te
il mio letto di sempre,
la mia bara.

Guarda:
è come un'altra casa,
anzi, più certa,
più sicura
e cara.

(da "Per sempre", Feltrinelli, Milano 1970)




ADDIO
di Enrico Thovez (1869-1925)

Ho fatto intero il mio compito. La poesia ch'era in me,
in questi cuori, fra queste aride mura, nel tedio
della mia misera vita, io l'ho vestita del genio
del mio pensiero, le ho infuso la mia sostanza immortale.
Nel mondo dolce e negato per sempre, nelle correnti
fervide dell'esistenza, da quest'angusta prigione
scagliai il cuore veemente, il cuore nato a un più alto
destino, a legge più dolce. Stanco, ferito, ora al fine
cedo alla sorte. Insensibile l'oscura notte mi avvolge,
mi fascia d'ombra la mente, mi vela gli occhi che tanto
arsero d'entusiasmo per questo lucido mondo...
Tra poco pur avrà pace questo mio indomito cuore.
Oh, possa vivere ancora oltre il mio corpo il mio spirito
in questo verso! vi esulti ignuda voce; e il mio grido
eternamente negli anni agiti il cuore dell'uomo!

(da "Il poema dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)




I GIORNI, I MESI, GLI ANNI
di Diego Valeri (1887-1976)

I giorni, i mesi, gli anni,
dove mai sono andati?
Questo piccolo vento
che trema alla mia porta,
uno a uno, in silenzio,
se li è portati via.
Questo piccolo vento
foglia a foglia mi spoglia
dell’ultimo mio verde
già spento. E così sia.

(da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1977)




IL POETA MORTO
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

La barba cresce
anche sulla faccia dei morti.
Così il poeta morto
continua
a farsi crescere i versi
sul cadavere.

(da "La fame degli occhi", Florida, Roma 1982)



Pericles Pantazis, "The Writer"
(da questa pagina)

mercoledì 30 gennaio 2019

Largo


 O lasciate lasciate che io sia
una cosa di nessuno
per queste vecchie strade
in cui la sera affonda –

O lasciate lasciate ch'io mi perda
ombra nell'ombra –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce –

E non chiedetemi – non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l'arcana folla
dei miei fantasmi –
e non cercate – non cercate
quello ch'io cerco
se l'estremo pallore del cielo
m'illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge a entrare –

Non domandatemi se prego
e chi prego
e perché prego –

Io entro soltanto
per avere un po' di tregua
e una panca e il silenzio
in cui parlino le cose sorelle –
Poi ch'io sono una cosa –
una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del suo mondo –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce –

Milano, 18 ottobre 1930



Questa intensissima poesia è di Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938), e l'ho trascritta dalle pagine 34 e 35 del volume Parole, Garzanti, Milano 1998, in cui sono presenti tutti i versi della poetessa lombarda prematuramente scomparsa.
Qui, mi pare, si possano rintracciare dei segni evidenti di una disperazione interiore che porterà la Pozzi, otto anni dopo, verso il suicidio. Non è ben chiaro a chi, la poetessa, rivolga fin dai primi versi le sue suppliche, ma si presuppone che siano le persone più vicine a lei in quel momento. Si respira un'atmosfera di estraniamento misto a rassegnazione, che si palesa in una necessità di solitudine, di lontananza da tutto e da tutti; la Pozzi dice di aver voglia di perdersi e null'altro; non ha voglia di rispondere a domande troppo impegnative riguardanti i suoi progetti futuri o la sua identità. Poi, sempre rivolgendosi a una non ben precisata umanità, chiede di non indagare troppo sul fatto che stia provando una sensazione di vuoto totale, che gli sta facendo perdere ogni motivazione per continuare a vivere; la sua anima, ormai svuotata da ogni presenza reale, si è popolata di fantasmi, ovvero di entità fittizie. Allora, per ritrovare almeno un perché della vita, la poetessa, mentre sta camminando senza meta sul far della sera, prova ad entrare nella prima chiesa che incontra lungo una vecchia strada; ma il motivo della sua sosta all'interno della chiesa non è soltanto dovuta alla ricerca di una fede perduta, o al bisogno di preghiera, bensì al desiderio di un luogo appartato, calmo e silenzioso; tant'è vero che chiede di non essere seguita, di essere lasciata sola a meditare. E lì, trova conforto nel paragonarsi agli oggetti (le cose) presenti, poiché la distanza che prova  dal resto dell'umanità è tale da sentirsi più vicina alle cose inanimate che vede intorno a sé, e così s'immedesima negli oggetti, e come gli oggetti vecchi e dimenticati di un luogo pubblico, si sente di non appartenere a nessuno e di essere stata dimenticata da tutti. E mentre scende lentamente la sera e la luce cala sempre di più, vorrebbe scomparire nel buio guardando l'ultima luce scemare per sempre.