Eugenio Montale (Genova 1896 - Milano 1981), ovvero il poeta italiano del Novecento più considerato e celebrato unanimemente, da critica e pubblico, non è tra i miei poeti prediletti; ciò nonostante, mi sono piaciute e tutt’ora mi piacciono parecchie sue poesie; la maggior parte di esse, si trovano nell’opera prima dello scrittore ligure: Ossi di seppia, che fu pubblicata dall’editore Gobetti di Torino nel 1925. Io lessi l’intera raccolta, quando, tanti anni fa, ne comperai una delle tante ristampe (nel mio caso quella edita dalla Mondadori di Milano nel 1992).
Inizio col dire che Ossi di seppia non ha le caratteristiche delle opere poetiche successive di Montale: Le Occasioni e La Bufera e altro; in questi versi, che pure, a volte non sono facili alla comprensione, si nota una maggior chiarezza, e quindi una più elevata possibilità di percepire il pensiero del poeta, che pure, spesso si esprime in un linguaggio tecnico, facendo uso di molti termini arcaici. Fondamentale, in questa raccolta, è la descrizione del paesaggio ligure, immortalato soprattutto nelle ore meridiane, d’estate, quando la luce non dà scampo. Questi paesaggi assolati e aridi, divengono il simbolo del “male di vivere”, della totale assenza di Dio e di un pessimismo esistenziale che molto ricorda Giacomo Leopardi. E, a proposito di poeti che hanno influenzato Montale nella scrittura delle poesie degli Ossi, si potrebbero citare i nomi di Pascoli, D’Annunzio, o dei poeti liguri più vecchi di diverse generazioni (Roccatagliata Ceccardi e i fratelli Novaro); ma, probabilmente, è Camillo Sbarbaro il poeta più vicino ai primi versi di Montale - tra l’altro, negli Ossi c’è una sezione a lui dedicata -, soprattutto per quel senso d’estraneità alla vita di cui diviene “spettatore inerte” (Pier Vincenzo Mengaldo), e per la conseguente indifferenza ai fatti e alle vicende umane. Montale, quasi sempre, parla in negativo: può soltanto andare per esclusione e quindi stabilire ciò che non è o non vuole; per il resto, il poeta non è in grado di affermare nulla, non possiede alcuna verità. In questo preciso contesto, Montale mostra affinità anche coi poeti crepuscolari, e in particolare con Gozzano, il quale aveva ben compreso, circa dieci anni prima, che i poeti, nella società moderna, avevano definitivamente perso d’importanza, e quindi erano costretti a parlare soltanto di piccole o buone cose della vita di tutti i giorni, escludendo dai loro versi argomenti troppo impegnativi. C’è infine da ricordare che tale sfiducia per gli esseri umani e, più in generale, per il futuro, nasceva in quegli anni, a causa della recente salita al potere della dittatura fascista. Chiudo, trascrivendo, dal volume da me posseduto, tre fra le poesie che preferisco, facenti parte della raccolta Ossi di seppia.
I LIMONI
si muovono soltanto
fra le piante
dai nomi poco
usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo
le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in
pozzanghere
mezzo seccate
agguantanoi ragazzi
qualche sparuta
anguilla:
le viuzze che
seguono i ciglioni,
discendono tra i
ciuffi delle canne
e mettono negli
orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le
gazzarre degli uccelli
si spengono
inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si
ascolta il susurro
dei rami amici
nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di
quest'odore
che non sa
staccarsi da terra
e piove in petto
una dolcezza inquieta.
Qui delle
divertite passioni
per miracolo tace
la guerra,
qui tocca anche a
noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei
limoni.
Vedi, in questi
silenzi in cui le cose
s'abbandonano e
sembrano vicine
a tradire il loro
ultimo segreto,
talora ci si
aspetta
di scoprire uno
sbaglio di Natura,
il punto morto
del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da
disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una
verità.
Lo sguardo fruga
d'intorno,
la mente indaga
accorda disunisce
nel profumo che
dilaga
quando il giorno
più languisce.
Sono i silenzi in
cui si vede
in ogni ombra
umana che si allontana
qualche
disturbata Divinità.
Ma l'illusione
manca e ci riporta il tempo
nelle città
rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi,
in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca
la terra, di poi; s'affolta
il tedio
dell'inverno sulle case,
la luce si fa
avara - amara l'anima.
Quando un giorno
da un malchiuso portone
tra gli alberi di
una corte
ci si mostrano i
gialli dei limoni;
e il gelo del
cuore si sfa,
e in petto ci
scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro
della solarità.
(da "Ossi di seppia", Mondadori, Milano 1992, pp. 9-10)
MERIGGIARE
PALLIDO E ASSORTO
Meriggiare
pallido e assorto
presso un rovente
muro d'orto,
ascoltare tra i
pruni e gli sterpi
schiocchi di
merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei
suolo o su la veccia
spiar le file di
rosse formiche
ch'ora si rompono
ed ora s'intrecciano
a sommo di
minuscole biche.
Osservare tra
frondi il palpitare
lontano di
scaglie di mare
mentre si levano
tremuli scricchi
di cicale dai
calvi picchi.
E andando nel
sole che abbaglia
sentire con
triste meraviglia
com'è tutta la
vita e il suo travaglio
in questo
seguitare una muraglia
che ha in cima
cocci aguzzi di bottiglia.
(da "Ossi di
seppia", Mondadori, Milano 1992, p. 40)
Da “MEDITERRANEO”
Dissipa tu se lo
vuoi
questa debole
vita che si lagna,
come la spugna il
frego
effimero di una
lavagna.
M’attendo di
ritornare nel tuo circolo,
s’adempia lo
sbandato mio passare.
La mia venuta era
testimonianza
di un ordine che
in viaggio mi scordai,
giurano fede
queste mie parole
a un evento
impossibile, e lo ignorano.
Ma sempre che
traudii
la tua dolce
risacca su le prode
sbigottimento mi
prese
quale d’uno
scemato di memoria
quando si
risovviene del suo paese.
Presa la mia
lezione
più che dalla tua
gloria
aperta,
dall’ansare
che quasi non dà
suono
di qualche tuo
meriggio desolato,
a te mi rendo in
umiltà. Non sono
che favilla d’un
tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non
altro, è il mio significato.
(da "Ossi di
seppia", Mondadori, Milano 1992, pp. 79-80)
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