La sensazione della
perdita in senso lato, dolorosamente e frequentemente si manifesta nei versi
dei poeti italiani decadenti e simbolisti. Passando dal generale al
particolare, nella maggior parte delle poesie che parlano di perdite, è facile
che si ponga in evidenza l’assenza e il rimpianto della persona amata in un
passato più o meno lontano; è il caso della poesia di Civinini, che osserva
malinconicamente l’entusiasmante e invitante ritorno della primavera - con
tutte le implicazioni e le manifestazioni favorevoli che contraddistinguono
tale evento stagionale -, poiché per lui, questa rinascita non fa altro che
acuire il doloroso ricordo di un amore svanito, che nasceva e dava il meglio di
sé proprio all’inizio di una primavera ormai scomparsa per sempre. Ma la
sensazione di aver perduto qualcosa di estremamente importante, si manifesta in
modi assai diversi, come nella poesia di Govoni, che dichiara il suo stato di
cupa tristezza a causa di una serie di perdite non ben definite, eppure
fortemente avvertite dal poeta. C’è poi Moscardelli, che fa un lungo elenco di
esseri umani, vegetali e oggetti, da lui perduti per sempre, e se ne duole
poiché tutti rappresentavano qualcosa di veramente prezioso. Ma la perdita può
essere rappresentata anche dalla morte di un amico o di un parente, come nel
caso di alcuni versi scritti da Corazzini e Valeri; struggenti sono quelli del
poeta veneto, che, non rassegnato alla scomparsa definitiva della cuginetta
adolescente, visita i luoghi che lei frequentava, sperando d’incontrarla di
nuovo. Infine, la perdita può concretizzarsi in simboli, come nella poesia di
Graf e di Gozzano; quest’ultimo vede sé stesso già anziano davanti a un
focolare, mentre getta alle fiamme vecchie carte (le sue poesie, le lettere e
gli annunci funerari) con le quali si riassume tutta la sua vita passata; alla
fine, di tutti i ricordi migliori non rimane null’altro che cenere.
Poesie sull’argomento
Mario Adobati:
"L'immemore" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor:
"Nel sogno" in "Nuove liriche" (1908).
Guelfo Civinini:
"Canzone della primavera perduta" in "I sentieri e le
nuvole" (1911).
Sergio Corazzini:
"Per un amico, morto" in «Marforio», settembre 1903.
Sergio Corazzini:
"Le illusioni" e "Stazione sesta" in "Libro per la
sera della domenica" (1906).
Edmondo Corradi:
" L'invito" in «Domenica Letteraria», luglio 1897.
Luisa Giaconi:
"Un'ora perduta" in "Tebaide" (1909).
Cosimo Giorgieri Contri:
"Il Fauno" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Cosimo Giorgieri
Contri: "Il tesoro" in "Primavere del desiderio e
dell'oblio" (1903).
Domenico Gnoli:
"Solo!" e "Sogno svanito" in "Jacovella" (1905).
Corrado Govoni:
"Qualche cosa che se n'è andata" in "Poesie elettriche"
(1911).
Guido Gozzano:
"Il filo" in "La via del rifugio" (1907).
Arturo Graf:
"Tempio distrutto" in "Le Danaidi" (1905).
Virgilio La Scola:
"Pulvis et umbra" in "La placida fonte" (1907).
Tito Marrone:
"L'ora perduta" in «Le scimmie e lo specchio», 1946.
Fausto Maria Martini:
"Verso la fine" in "Poesie provinciali" (1910).
Nicola Moscardelli:
"Cose perdute" in "La Veglia" (1913).
Emanuele Sella:
"Via tribulationis" in "L'Ospite della Sera" (1922).
Alberto Tarchiani:
"Alle cose perdute" in "Piccolo libro inutile" (1906).
Diego Valeri:
"T'ho cercata per l'ombra delle stanze..." in "Umana"
(1916).
Giuseppe Villaroel:
"Finire" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).
Testi
PULVIS ET UMBRA
di Virgilio La Scola
Mi vidi - quel giorno
di pianto -
Addentro il suo
gelido abisso:...
O quanto dolore, che
schianto
Nel guardo
recondito... fisso!...
Recava con sé, de la
vita
Qualcosa negli occhi,
là giù:
Il tragico lume
dell'ora smarrita,
L'estremo rimpianto
d'un bene che fu!...
Mi chiusero in lungo
tremore,
Le braccia sì tenere
e stanche:
M'effusero un'onda
d'amore
Le labbra sì sterili
e bianche;
Mi volle cullare nel
nulla,...
Nel cavo suo grembo,
là giù;...
Più lieve,... più
dolce,... siccome si culla
Ne' sogni il ricordo
d'un bene che fu!...
"O come era
limpido il giorno,
Ovunque il perdono
versai:..
La gioia piangevami
attorno,
Se un umile pianto
placai:
Educa al sorriso gli
umani;...
È un cerulo incanto
lassù:..
Irradia le labbra,
consacra le mani,
Innova il prodigio
d'un bene che fu!...
Là dove concordi gli
uccelli
Effondono libero il
corso,
Non rechi la gioia a'
fratelli
Dolore, non rechi
rimorso:...
Là dove respiri il
tuo cielo,
Il poco è
soverchio,... non più!...
V'è fiori per tutti
su ogni esile stelo,
V'è canti per tutti
nel bene che fu!..."
Ne l'ombra, era un
murmure;.. un lento
Rincorrer di pallide
fronti;
Di muschio e di ceri
uno spento
Sentore, pe' chiusi
orizzonti...
Recava con sé de la
vita
qualcosa negli occhi,
là giù:
Il tragico lume
dell'ora smarrita,
L'estremo rimpianto
d'un bene che fu!...
(da "La placida
fonte", Zanichelli, Bologna 1907)
VIA TRIBULATIONIS
di Emanuele Sella
Volevo recarteli io
stesso
i fiori di questo
abbandono;
con ploro sommesso
ripeterti il suono
d'un «t'amo» assai
dolce d'un tempo che fu.
Ma i fiori, ahimè,
sono avvizziti
al bacio dell'ultimo
Sole
e le mie più miti più
belle parole
perduto han per
sempre l'antica virtù.
E intanto, com'una
preghiera,
trasvola una nube
d'argento:
«Addio, o chimera!»
le grido ed il vento
la spinge lontano
lontano là giù.
Tu sei quella nube
che fugge;
io tendo le mani ed
il pianto
degli occhi mi
sfugge. (Ecco un ultimo canto,
un nulla più nulla
del nulla che fu).
(da "L'ospite
della sera", Sonzogno, Milano 1922)
Carl
Schweninger der Jüngere, “Verlorene Liebe” (da questa pagina web) |
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