La Riviera Ligure è il titolo di una rivista letteraria che nacque ad Oneglia, e che fu pubblicata tra il 1899 ed il 1919. Sebbene, in realtà sia nata nel 1895, sotto il titolo Riviera di Ponente, nei primi quattro anni della sua vita, che videro la direzione di Angiolo Silvio Novaro, la rivista si occupò prevalentemente di realtà strettamente legate alla regione Liguria; nel contempo, essa aveva lo scopo di sponsorizzare l’industria olearia Sasso. Dal 1899, con il cambio del direttore (Angiolo Silvio lasciò il posto al fratello minore Mario), la rivista diede alle sue pagine un’impronta esclusivamente letteraria, ospitando i versi e le prose di illustri scrittori; tantissimi sono i nomi che comparvero all’interno della Riviera Ligure con articoli, poesie, prose poetiche e narrative; tra gli altri si ricordano: Giovanni Pascoli, Luigi Pirandello, Giovanni Cena, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Enrico Pea, Guido Gozzano, Umberto Saba, Emilio Cecchi, Corrado Govoni, Piero Jahier, Clemente Rebora, Marino Moretti, Camillo Sbarbaro, Scipio Slataper ecc. Nei vent’anni in cui la Riviera Ligure mantenne la sua costante presenza nelle edicole italiane, fu sempre un esempio di garanzia per i lettori più avveduti, offrendo ad essi un panorama letterario diversificato, che sapeva tenere in conto sia le vecchie che le nuove tendenze, fino a divenire un punto di riferimento imprescindibile per studiare più a fondo la migliore letteratura italiana del primo ventennio del Novecento. Mario Novaro mantenne la direzione sino alla fine delle pubblicazioni, e le uscite della rivista, inizialmente bimestrali, a partire dal 1905 divennero mensili. Infine trascrivo tre famose poesie che apparvero, per la prima volta, sulla Riviere Ligure.
Prima pagina di un numero della Riviera Ligure
LA TESSITRICE
di Giovanni
Pascoli
Mi son seduto ne
la panchetta
come una volta...
quanti anni fa?
Ella, come una
volta, s'è stretta
ne la panchetta.
E non il suono
d'una parola;
solo un sorriso
tutta pietà.
La bianca mano
lascia la spola.
Piango, e le
dico: Come ho potuto,
dolce mio bene,
partir da te?
Piange, e mi dice
d'un cenno muto:
Come hai potuto?
Con un sospiro
quindi la cassa
tira del muto
pettine a sè.
Muta la spola
passa e ripassa.
Piango, e le
chiedo: Perchè non suona
dunque l'arguto
pettine più?
Ella mi fissa
timida e buona:
Perchè non suona?
E piange, piange
- Mio dolce amore,
non t'hanno
detto? non lo sai tu?
Io non son viva
che nel tuo cuore.
Morta! Sì, morta!
se tesso, tesso
per te soltanto;
come, non so;
in questa tela,
sotto il cipresso
accanto alfine ti
dormirò.
(da La Riviera Ligure n. 27, 1901)
TOTÒ MERÙMENI
di Guido Gozzano
I.
Col suo giardino
incolto, le sale vaste, i bei
balconi
secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra
tolta da certi versi miei,
sembra la
villa-tipo del Libro di Lettura.
Pensa migliori
giorni la casa triste, pensa
gaie brigate
sotto gli alberi centenari,
banchetti
illustri nella sala da pranzo immensa
e danze nel
salone spoglio da gli antiquari.
Ma dove in altri
tempi giungeva Casa Ansaldo,
Casa Rattazzi,
Casa d'Azeglio, Casa Oddone,
s'arresta
un'automobile fremendo e sobbalzando,
villosi
forestieri picchiano la gorgòne.
S'ode un latrato
e un passo, si schiude cautamente
la porta... In
quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò
Merùmeni, con una madre inferma,
una prozia canuta
ed uno zio demente.
II.
Totò ha
venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e
gusto in opere d'inchiostro,
scarso cervello,
scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza… È il vero figlio
del tempo nostro.
Non ricco, giunta
l'ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca!)
e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse
l'esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi
che sarà bello tacere.
Non è cattivo.
Manda soccorso di danaro
al povero,
all'amico un cesto di primizie.
Non è cattivo. A
lui ricorre lo scolaro
pel tema,
l'emigrante per le commendatizie.
Arido,
consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È
il buono che derideva il Nietzsche:
«In verità derido
l'inetto che si dice
buono, perchè non
ha l'ugne abbastanza forti...»
Dopo lo studio
grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci
compagni sull'erba che l'invita;
i suoi compagni
sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una
bertuccia che ha nome Macakita.
III.
La Vita si
ritolse tutte le sue promesse:
egli sognò per
anni l'Amore che non venne,
sognò pel suo
martirio attrici e principesse,
ed oggi ha per
amante la cuoca diciottenne.
Quando la casa
dorme, la giovinetta scalza,
fresca come una
prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua
stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la
possiede, beato e resupino.
IV.
Totò non può
sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti
prime del sentimento.
L'analisi e il sofisma
fecero di quest'uomo
ciò che le fiamme
fanno d'un edificio al vento.
Ma come le ruine
che già seppero il fuoco
esprimono i
giaggioli dai bei vividi fiori,
quell'anima
riarsa esprime a poco a poco
una fiorita
d'esili versi consolatori.
V.
Così Totò
Merùmeni, dopo tristi vicende
quasi è felice.
Alterna l'indagine e la rima.
Chiuso in se
stesso vigila, s'accresce, esplora, intende
la vita dello spirito
che non intese prima.
Perchè la voce è
poca, e l'arte prediletta
immensa, perché
il Tempo - mentre ch'io parlo - va,
Totò opra in
disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno
è nato. Un giorno morirà.
Agliè
(canavese) 20 Ottobre 1910.
(da La Riviera Ligure n. 133, 1911)
PAUSA
di Camillo
Sbarbaro
Taci, anima
stanca di godere
e di soffrire
(all'uno e all'altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua
odo se ascolto.
Non di rimpianto
per la miserabile
giovinezza, non
d'ira o di speranza,
e neppure di
tedio.
Giaci come
il corpo,
ammutolita tutta piena
d'una
rassegnazione disperata.
Noi non ci
stupiremmo
non è vero mia
anima, se il cuore
si fermasse,
sospeso se ci fosse
il fiato...
Invece camminiamo.
camminiamo io e
te come sonnambuli.
E gli alberi son
alberi, le case
sono case, le
donne
che passano son
donne e tutto è quello
che è, soltanto
quel che è.
La vicenda di
gioia e di dolore
non ci tocca.
Perduta ha la sua voce
la Sirena del
mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con
asciutti occhi me stesso.
(da La Riviera Ligure n. 146, 1913)
bellissime poesie!
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