Se qualcuno mi
chiedesse il nome di un poeta che – più di ogni altro – ha rappresentato
qualcosa di veramente importante nella mia vita, e che mi ha accompagnato, con
i suoi versi indimenticabili, praticamente per tutto il mio percorso formativo
ed esistenziale, non esiterei a dire che tale poeta è Giovanni Pascoli. Di lui
rammento ancora a memoria, frammenti di poesie che studiai già sui banchi della
scuola elementare; di Pascoli furono i primi libri che comperai quando, in
gioventù, dentro di me si accese la passione per la poesia. È pur vero che la
mia attenzione si è sempre rivolta ad alcune, specifiche raccolte del poeta
emiliano, che possono essere riassunte in quattro volumi: Myricae, Poemetti, Canti di Castelvecchio e Poesie varie; in essi, sono presenti pressoché tutti quei versi che mi hanno fatto amare intensamente l’arte della poesia
(prima di conoscere i poeti crepuscolari, i miei poeti preferiti erano
senz’altro Pascoli e Leopardi).
Il fascino della
poesia pascoliana risiede in gran parte nella superba descrizione di luoghi,
figure ed eventi apparentemente insignificanti; luoghi della campagna dove il
poeta trascorse la sua esistenza; figure spesso dimesse, semplici e a volte
sofferenti, viste con gli occhi di chi sa comprendere appieno le umane
debolezze e sa riconoscere la bontà disarmante dei tanti, umili esseri umani
destinati ad una vita di stenti e di difficoltà; infine gli eventi, quasi
sempre religiosi, di un’Italia che certamente non esiste più: umile e forse
ingenua, ancora estremamente legata a tradizionali riti che scandivano i giorni
dell’anno, e che rendevano la vita meno dura. Ma a far grandi le poesie di
Pascoli può bastare ancora di meno: il verso di un uccello, un temporale
imprevisto, il suono delle campane che giunge all’improvviso e desta sensazioni
particolarissime, un fievole e piacevole canto di donna, un aquilone che vola
nel cielo azzurro... La poesia di Pascoli è lontana da quella del Carducci,
così come dalla poesia di D’Annunzio; molto si rifà, invece, alla poesia popolare.
Fu, principalmente, grazie a Giovanni Pascoli, se la lirica italiana del XX
secolo trovò un terreno fertile e solido, che diede i suoi primi frutti già
agli albori, con i crepuscolari (tutti ebbero, come riferimento
imprescindibile, proprio il poeta di Castelvecchio) e con altri poeti che lo
considerarono sempre un maestro insostituibile.
Chiudo con la
trascrizione di tre poesie-capolavoro di Giovanni Pascoli – provenienti dal
volume della foto che le precede - che possono essere considerate di diritto
tra le migliori della intera storia della poesia mondiale.
Piatto anteriore del volume: Giovanni Pascoli, Poesie, Garzanti, Milano 1992 |
X AGOSTO
San Lorenzo, io
lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade,
perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una
rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel
becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là come in
croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è
nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo
tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli
aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...
Ora là, nella
casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile,
attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo,
dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d’un pianto
di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
(da Poesie, Garzanti, Milano 1992, pp. 93-94)
L'AQUILONE
C'è qualcosa di
nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io
vivo altrove, e sento
che sono intorno
nate le viole.
Son nate nella
selva del convento
dei cappuccini,
tra le morte foglie
che al ceppo
delle quercie agita il vento.
Si respira una
dolce aria che scioglie
le dure zolle, e
visita le chiese
di campagna,
ch'erbose hanno le soglie:
un'aria d'altro
luogo e d'altro mese
e d'altra vita:
un'aria celestina
che regga molte
bianche ali sospese...
sì, gli aquiloni!
È questa una mattina
che non c'è
scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di
rovo e d'albaspina.
Le siepi erano
brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora
qualche mazzo rosso
di bacche, e
qualche fior di primavera
bianco; e sui
rami nudi il pettirosso
saltava, e la
lucertola il capino
mostrava tra le
foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi:
abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno
manda da una balza
la sua cometa per
il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia,
pencola, urta, sbalza,
risale, prende il
vento; ecco pian piano
tra un lungo dei
fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba
il filo dalla mano,
come un fiore che
fugga su lo stelo
esile, e vada a
rifiorir lontano.
S'inalza; e i
piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e
l'avida pupilla
e il viso e il
cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su:
già come un punto brilla
lassù lassù... Ma
ecco una ventata
di sbieco, ecco
uno strillo alto... - Chi strilla?
Sono le voci
della camerata
mia: le conosco
tutte all'improvviso,
una dolce, una
acuta, una velata...
A uno a uno tutti
vi ravviso,
o miei compagni!
e te, sì, che abbandoni
su l'omero il
pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra
te l'orazïoni,
e piansi: eppur,
felice te che al vento
non vedesti cader
che gli aquiloni!
Tu eri tutto
bianco, io mi rammento.
solo avevi del
rosso nei ginocchi,
per quel nostro
pregar sul pavimento.
Oh! te felice che
chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti
sul cuore
il più caro dei
tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente,
so ben io, si muore
la sua stringendo
fanciullezza al petto,
come i candidi
suoi pètali un fiore
ancora in boccia!
O morto giovinetto,
anch'io presto
verrò sotto le zolle
là dove dormi
placido e soletto...
Meglio venirci
ansante, roseo, molle
di sudor, come
dopo una gioconda
corsa di gara per
salire un colle!
Meglio venirci
con la testa bionda,
che poi che
fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co'
bei capelli a onda
tua madre...
adagio, per non farti male.
(da Poesie, Garzanti, Milano 1992, pp. 269-272)
LA MIA SERA
Il giorno fu
pieno di lampi;
ma ora verranno
le stelle,
le tacite stelle.
Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie
dei pioppi
trascorre una
gioia leggiera.
Nel giorno, che
lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire
le stelle
nel cielo sì
tenero e vivo.
Là, presso le
allegre ranelle,
singhiozza
monotono un rivo.
Di tutto quel
cupo tumulto,
di tutta
quell'aspra bufera,
non resta che un
dolce singulto
nell'umida sera.
È, quella
infinita tempesta,
finita in un rivo
canoro.
Dei fulmini
fragili restano
cirri di porpora
e d'oro.
O stanco dolore,
riposa!
La nube nel
giorno più nera
fu quella che
vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di
rondini intorno!
che gridi
nell'aria serena!
La fame del
povero giorno
prolunga la
garrula cena.
La parte, sì
piccola, i nidi
nel giorno non
l'ebbero intera.
Né io... e che
voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano,
Dormi! sussurrano,
Dormi!
bisbigliano, Dormi!
là, voci di
tenebra azzurra...
Mi sembrano canti
di culla,
che fanno ch'io
torni com'era...
sentivo mia
madre... poi nulla...
sul far della sera.
(da Poesie,
Garzanti, Milano 1992, pp. 536-537)
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