domenica 23 ottobre 2022

La poesia di Giovanni Pascoli

 

Se qualcuno mi chiedesse il nome di un poeta che – più di ogni altro – ha rappresentato qualcosa di veramente importante nella mia vita, e che mi ha accompagnato, con i suoi versi indimenticabili, praticamente per tutto il mio percorso formativo ed esistenziale, non esiterei a dire che tale poeta è Giovanni Pascoli. Di lui rammento ancora a memoria, frammenti di poesie che studiai già sui banchi della scuola elementare; di Pascoli furono i primi libri che comperai quando, in gioventù, dentro di me si accese la passione per la poesia. È pur vero che la mia attenzione si è sempre rivolta ad alcune, specifiche raccolte del poeta emiliano, che possono essere riassunte in quattro volumi: Myricae, Poemetti, Canti di Castelvecchio e Poesie varie; in essi, sono presenti pressoché tutti quei versi che mi hanno fatto amare intensamente l’arte della poesia (prima di conoscere i poeti crepuscolari, i miei poeti preferiti erano senz’altro Pascoli e Leopardi).

Il fascino della poesia pascoliana risiede in gran parte nella superba descrizione di luoghi, figure ed eventi apparentemente insignificanti; luoghi della campagna dove il poeta trascorse la sua esistenza; figure spesso dimesse, semplici e a volte sofferenti, viste con gli occhi di chi sa comprendere appieno le umane debolezze e sa riconoscere la bontà disarmante dei tanti, umili esseri umani destinati ad una vita di stenti e di difficoltà; infine gli eventi, quasi sempre religiosi, di un’Italia che certamente non esiste più: umile e forse ingenua, ancora estremamente legata a tradizionali riti che scandivano i giorni dell’anno, e che rendevano la vita meno dura. Ma a far grandi le poesie di Pascoli può bastare ancora di meno: il verso di un uccello, un temporale imprevisto, il suono delle campane che giunge all’improvviso e desta sensazioni particolarissime, un fievole e piacevole canto di donna, un aquilone che vola nel cielo azzurro... La poesia di Pascoli è lontana da quella del Carducci, così come dalla poesia di D’Annunzio; molto si rifà, invece, alla poesia popolare. Fu, principalmente, grazie a Giovanni Pascoli, se la lirica italiana del XX secolo trovò un terreno fertile e solido, che diede i suoi primi frutti già agli albori, con i crepuscolari (tutti ebbero, come riferimento imprescindibile, proprio il poeta di Castelvecchio) e con altri poeti che lo considerarono sempre un maestro insostituibile.

Chiudo con la trascrizione di tre poesie-capolavoro di Giovanni Pascoli – provenienti dal volume della foto che le precede - che possono essere considerate di diritto tra le migliori della intera storia della poesia mondiale.

 

 

Piatto anteriore del volume: Giovanni Pascoli, Poesie, Garzanti, Milano 1992

 

 

X AGOSTO

 

San Lorenzo, io lo so perché tanto

 di stelle per l’aria tranquilla

arde e cade, perché sì gran pianto

 nel concavo cielo sfavilla.

 

Ritornava una rondine al tetto:

 l’uccisero: cadde tra spini:

ella aveva nel becco un insetto:

 la cena de’ suoi rondinini.

 

Ora è là come in croce, che tende

 quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido è nell’ombra, che attende,

 che pigola sempre più piano.

 

Anche un uomo tornava al suo nido:

 l’uccisero: disse: Perdono;

e restò negli aperti occhi un grido

 portava due bambole in dono...

 

Ora là, nella casa romita,

 lo aspettano, aspettano in vano:

egli immobile, attonito, addita

 le bambole al cielo lontano.

 

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi

 sereni, infinito, immortale,

Oh! d’un pianto di stelle lo inondi

 quest’atomo opaco del Male!

 

(da Poesie, Garzanti, Milano 1992, pp. 93-94) 

 


 

 

L'AQUILONE

 

C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,

anzi d'antico: io vivo altrove, e sento

che sono intorno nate le viole.

 

Son nate nella selva del convento

dei cappuccini, tra le morte foglie

che al ceppo delle quercie agita il vento.

 

Si respira una dolce aria che scioglie

le dure zolle, e visita le chiese

di campagna, ch'erbose hanno le soglie:

 

un'aria d'altro luogo e d'altro mese

e d'altra vita: un'aria celestina

che regga molte bianche ali sospese...

 

sì, gli aquiloni! È questa una mattina

che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera

tra le siepi di rovo e d'albaspina.

 

Le siepi erano brulle, irte; ma c'era

d'autunno ancora qualche mazzo rosso

di bacche, e qualche fior di primavera

 

bianco; e sui rami nudi il pettirosso

saltava, e la lucertola il capino

mostrava tra le foglie aspre del fosso.

 

Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino

ventoso: ognuno manda da una balza

la sua cometa per il ciel turchino.

 

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,

risale, prende il vento; ecco pian piano

tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.

 

S'inalza; e ruba il filo dalla mano,

come un fiore che fugga su lo stelo

esile, e vada a rifiorir lontano.

 

S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo

petto del bimbo e l'avida pupilla

e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.

 

Più su, più su: già come un punto brilla

lassù lassù... Ma ecco una ventata

di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?

 

Sono le voci della camerata

mia: le conosco tutte all'improvviso,

una dolce, una acuta, una velata...

 

A uno a uno tutti vi ravviso,

o miei compagni! e te, sì, che abbandoni

su l'omero il pallor muto del viso.

 

Sì: dissi sopra te l'orazïoni,

e piansi: eppur, felice te che al vento

non vedesti cader che gli aquiloni!

 

Tu eri tutto bianco, io mi rammento.

solo avevi del rosso nei ginocchi,

per quel nostro pregar sul pavimento.

 

Oh! te felice che chiudesti gli occhi

persuaso, stringendoti sul cuore

il più caro dei tuoi cari balocchi!

 

Oh! dolcemente, so ben io, si muore

la sua stringendo fanciullezza al petto,

come i candidi suoi pètali un fiore

 

ancora in boccia! O morto giovinetto,

anch'io presto verrò sotto le zolle

là dove dormi placido e soletto...

 

Meglio venirci ansante, roseo, molle

di sudor, come dopo una gioconda

corsa di gara per salire un colle!

 

Meglio venirci con la testa bionda,

che poi che fredda giacque sul guanciale,

ti pettinò co' bei capelli a onda

 

tua madre... adagio, per non farti male.

 

(da Poesie, Garzanti, Milano 1992, pp. 269-272)

 

 

 

 

LA MIA SERA

 

Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c'è un breve gre gre di ranelle.

Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

        Che pace, la sera!

 

Si devono aprire le stelle

nel cielo sì tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell'aspra bufera,

non resta che un dolce singulto

        nell'umida sera.

 

È, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

cirri di porpora e d'oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

        nell'ultima sera.

 

Che voli di rondini intorno!

che gridi nell'aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

nel giorno non l'ebbero intera.

Né io... e che voli, che gridi,

        mia limpida sera!

 

Don... Don... E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano,

Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra...

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch'io torni com'era...

sentivo mia madre... poi nulla...

        sul far della sera.

 

(da Poesie, Garzanti, Milano 1992, pp. 536-537)

 

 

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