L'Oratorio d'Amore 1893-1903 è il titolo
della seconda e più consistente opera poetica di Diego Angeli (Firenze 1869 -
Roma 1937); in verità è anche l'ultima, dato che Angeli, pur continuando a
pubblicare versi in varie riviste, dopo questo volume poetico non ne fece
uscire altri a sua firma fino alla sua morte. Dell'autore, si può dire che la
poesia fu una delle tante discipline a cui si dedicò, e nemmeno la più
rilevante, visto che se oggi qualcuno lo ricorda, è per i suoi romanzi, le sue
novelle e qualche saggio di guerra. Il libro in questione, che fu pubblicato
dalla Società Editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati e C., in Roma, nel
1904, si sostanzia in 141 pagine e 66 poesie. Non si può nascondere, leggendo
questi versi, che Angeli subì una decisiva influenza dalla poesia di Gabriele
D'Annunzio, in particolare dalle raccolte L'Isotteo.
La Chimera (1889) e Poema paradisiaco
(1893); nel contempo, però, mi pare giusto identificare un felice sviluppo e
una certa originalità in queste liriche di Angeli, che, già dalla precedente raccolta
La Città di Vita (1896), mostravano
una capacità indiscussa dello scrittore toscano nel trattare quei temi così
cari al decadentismo e al simbolismo, in modo personale e tutt'altro che
banale. In queste pagine Angeli approfondisce il discorso iniziato otto anni
prima, dimostrandosi oltre tutto un precursore della corrente o scuola
crepuscolare, data la malinconia che affiora in diverse composizioni poetiche
comprese in questo libro e scritte, come si evince dal sottotitolo, nell'arco
di un decennio. Volendo, una volta di più, prendere come riferimento
l'antologia Dal simbolismo al déco,
si nota che il critico Glauco Viazzi, pur inserendo Angeli nella sezione Ideosimbolisti, esteti, ermetisti, non
seleziona alcuna poesia da L'Oratorio
d'Amore, preferendo attingere dalle tante liriche che lo scrittore
fiorentino pubblicò su riviste prestigiose come Il Marzocco e Poesia; me
ne meravigliai e tutt'ora me ne meraviglio, ma noto altresì che nella parte
critica, che fa da presentazione a quella antologica, Viazzi cita alcune poesie
di questo volume, come si può leggere nel frammento che di seguito riporto, in
cui si pone l'accento sul lato psicologico di determinati versi:
[...] l'Angeli
scrive un rituale d'invocazione, il suo è un esorcismo evocato, ma la Donna
rimarrà per sempre l'inattingibile, l'Assente. Se ne ha riprova nel caso in cui
l'immagine presenta valenza erotica non latente ma esplicita se non proprio
accentuata, e la si può presumere referenziale: si tratta sempre di un reale
pensato, ridotto a ricordo, il colloquiale si rivolge sempre ad una assenza (Sopra una gavotta antica), la
rimemorazione prevale anche sul versante del presente (La notte dei gigli, caratterizzata com'è, e insistentemente, dalla morte dei gigli, si trasforma in
manifestazione esorcistica per contrastare l'assenza e la dissoluzione).¹
In riferimento a
ciò e per concludere, riporto i testi delle due poesie nominate da Viazzi e
presenti ne L'Oratorio d'Amore alle
pagine 25 (Sopra una gavotta antica)
e 68-70 (La notte dei gigli).
NOTE
1) Da Dal simbolismo al déco, a cura di Glauco
Viazzi, Einaudi, Torino 1981, tomo primo, pp. 95-96.
SOPRA UNA GAVOTTA
ANTICA
Tutti i lilla
fioriranno
nei giardini
pieni di fontane.
Ricordate? fu
l'altro anno
le promesse non
son state vane.
Mi avevate detto
di venire un giorno
e per voi
raccolsi tutti i lilla in fiore.
Ma son morti i
lilla! Quando al fin ritorno
voi farete?
Quando questo nuovo amore?
Ricordate?
Ricordate?
Io m'inchino a
voi divotamente.
Belle labbra
tanto amate
voi non mi
rifiuterete niente.
Suoneranno in
gloria vostra i violini
tra le
architetture lievi di mortelle
e vedremo a notte
splendere le stelle
mentre odoreranno
forte i gelsomini.
Ecco, il lilla è
già appassito,
la Gavotta muore
in lontananza,
muore il mio
sogno infinito...
Dite? Dite? Non
c'è più speranza?
Roma.
LA NOTTE DEI
GIGLI
Morivano i gigli
esalando
profumi più
ardenti, più gravi:
e si udivano a
quando a quando
da lunge richiami
soavi.
E si udivan
misteriosi
accordi sull'ali
del vento
e scintillavan
radiosi
mille astri nel
firmamento.
Ed anche si
udivan bisbigli
confusi e
scrosciar di torrenti:
e tutti morivano
i gigli
più gravi, più
impuri, più ardenti.
Io stavo sul tuo
seno, come
fuori del mondo e
della vita.
Io stavo sul tuo
seno come
in una più
lontana vita.
Tutto era
lontano, ma tutto
viveva nell'animo
mio
ed ero sommerso
in un flutto
profondo di un
profondo oblio.
Dove la gran
spiaggia sonante
su cui bevvi il
filtro letale?
dove il naviglio
veleggiante
nel vespro,
sull'acqua d'opale?
Dove le parole
che mai
ho sentito tanto
soavi?
Ah i gigli
morivano ormai
più impuri, più
ardenti, più gravi.
Ed io stretto fra
le tue braccia
bevevo quel
profondo aroma
e tu reclinavi la
faccia
su me tra la
morbida chioma;
e tacevi tutta anelando
ed il tuo respiro
segnava
i minuti. Ma fin
da quando
quel lento gioire
indugiava?
Ma quando sarebbe
svanito?
Coll'alba? Si
udivano canti
lontani, si udiva
infinito
il murmure
d'acque scroscianti.
— Dimani?
rispondi, dimani?
ti dissi cercando
li intenti
tuoi sguardi,
cercando le mani
tue ghiacce — Mi
senti? mi senti?
Ma tu mi
stringesti più forte
al seno ed avesti
una sola
parola, ma fino
alla morte
sentirò quella
tua parola.
E tu lo sapevi,
tu china
su me — tra la
chioma ondosa
era la bocca sibillina
quasi una
purpurea rosa —
tu l'anima
offristi: e fu allora
ogni ultima forza
distrutta.
Io vissi una vita
in quell'ora
e bevvi
quell'anima, tutta.
Firenze, maggio.
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