E l’acqua
cade su la morta estate,
e l’acqua
scroscia su le morte foglie;
e tutto è
chiuso, e intorno le ventate
gettano
l’acqua alle inverdite soglie;
e intorno i
tuoni brontolano in aria;
se non
qualcuno che rotola giù.
Apersi un
poco la finestra: udii
rugliare in
piena due torrenti e un fiume;
e mi parve
d’udir due scoppiettìi
e di vedere
un nereggiar di piume.
O
rondinella spersa e solitaria,
per questo
tempo come sei qui tu?
Oh! non è
questo un temporale estivo
col giorno
buio e con la rosea sera,
sera che
par la sera dell’arrivo,
tenera e
fresca come a primavera,
quando,
trovati i vecchi nidi al tetto,
li salutava
allegra la tribù.
Se n’è
partita la tribù, da tanto!
tanto, che
forse pensano al ritorno,
tanto, che
forse già provano il canto
che
canteranno all’alba di quel giorno:
sognano
l’alba di San Benedetto
nel lontano
Baghirmi e nel Bornù.
E chiudo i
vetri. Il freddo mi percuote,
l’acqua mi
sferza, mi respinge il vento.
Non più gli
scoppiettìi, ma le remote
voci dei
fiumi, ma sgrondare io sento
sempre più
l’acqua, rotolare il tuono,
il vento
alzare ogni minuto più.
E fuori
vedo due ombre, due voli,
due
volastrucci nella sera mesta,
rimasti qui
nel grigio autunno soli,
ch’aliano
soli in mezzo alla tempesta:
rimasti
addietro il giorno del frastuono,
delle grida
d’amore e gioventù.
Son padre e
madre. C’è sotto le gronde
un nido, in
fila con quei nidi muti,
il lor nido
che geme e che nasconde
sei
rondinini non ancor pennuti.
Al primo
nido già toccò sventura.
Fecero
questo accanto a quel che fu.
Oh! tardi!
Il nido ch’è due nidi al cuore,
ha fame in
mezzo a tante cose morte;
e l’anno è
morto, ed anche il giorno muore,
e il tuono
muglia, e il vento urla più forte,
e l’acqua
fruscia, ed è già notte oscura,
e quello
ch’era non sarà mai più.
Questa che
ho riportato è una delle poesie più disperate e malinconiche presenti nella
raccolta di Giovanni Pascoli intitolata Canti
di Castelvecchio. Apparve fin dalla prima edizione dell'opera citata,
uscita nel 1903; è, più precisamente, l'ultima lirica della sezione principale
che porta il titolo della raccolta, e si pone come componimento finale di una
successione che ha, come struttura progettuale, quella del trascorrere delle
stagioni, partendo dall'inverno e terminando con l'autunno. Praticamente
ignorata dalle antologie più importanti, ricordo che la lessi per la prima
volta quando comperai una ristampa di questa opera poetica che considero,
insieme a Myricae, la migliore del
poeta emiliano. Come già accennato, i versi di In ritardo evidenziano uno stato d'animo decisamente malinconico
del poeta, dovuto alla fine dell'estate e del bel tempo, come dimostra
l'ambientazione autunnale, con la caduta di una pioggia intensa, che, insieme
al sinistro rumore dei tuoni, si pone a simbolo di disfacimento e rovina. Altri
simboli si possono identificare nei nidi - uno vuoto ed uno occupato dai
rondinini - citati al verso 39, attorno ai quali si aggirano i genitori della
nidiata: due volastrucci (sono i balestrucci, ovvero un tipo di rondini dai
colori bianco-azzurri), preoccupati per la sorte dei rondinini affamati; ebbene
quei nidi molto ricordano la vicenda familiare del Pascoli: il nido
abbandonato, ovvero la prima cova stagionale dei balestrucci, rappresenta la
perdita dei genitori e dei fratelli del poeta; il secondo invece, simboleggia
la precarietà e il pericolo in cui si trovava a vivere il Pascoli dopo tanti
lutti familiari mai superati né rimpiazzati da altri affetti. L'ultimo verso,
sentenzioso e palesemente pessimista, dichiara senza mezzi termini
l'impossibilità di un ritorno del tempo trascorso - che poi coincide col tempo
felice del poeta - mettendo quindi a sigillo della composizione una totale
assenza di speranza ed un senso di vuoto assolutamente incolmabile.
Ruggero
Pascoli (1815-1867) coi tre figli maggiori: da sinistra Giacomo (1852-1876),
Luigi (1854-1871) e Giovanni (1855-1912)
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