domenica 9 dicembre 2018

"Linea della vita" di Giorgio Vigolo



Linea della vita di Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983) è una raccolta poetica che rappresenta uno dei punti più alti mai raggiunti dalla poesia italiana novecentesca. Il poeta romano, che aveva già alle spalle un altro libro di versi e alcuni volumi di prose, con questa opera rivelò tutto il suo smisurato talento, deliziando il pubblico della poesia grazie a composizioni indimenticabili. Probabilmente non fu abbastanza considerato dalla critica di allora, e, malgrado venisse elogiato ed inserito nelle migliori antologie, non ottenne quella consacrazione che ebbero altri poeti bravissimi, ma sicuramente inferiori.
Il libro, pubblicato dalla Mondadori di Milano nella collana I poeti dello Specchio nel 1949, è formato da sei sezioni: Conclave dei sogni (che riprende il titolo e la struttura della prima raccolta poetica di Vigolo); I secoli poeti; Amico di Caronte; L'eremita di Roma; Parlo con l'eco; Fili d'erba. In totale, qui sono presenti 135 poesie.
Di Conclave dei sogni spero di potermene occupare in un futuro prossimo, tenendo però presente la raccolta originale uscita nel 1935.
Volendo passare quindi alla seconda sezione, ovvero I secoli poeti, essa consta di 15 poesie, presumibilmente scritte tra il 1935 ed il 1939; quest'ultimo particolare si può dedurre anche dal forte legame che c'è nei versi di questa sezione, con quelli di Conclave dei sogni; visioni, sogni, personaggi della mitologia e della religione caratterizzano un po' tutte le poesie; ancora una volta, la descrizione di alcuni luoghi nascosti di Roma lascia il segno per la formidabile capacità di affascinare il lettore: elemento indiscutibile della migliore poesia di Vigolo; eccone un esempio in questi pochi versi: Avido sole brucia / sul calvo argine i mucchi / di masserizie, il cranio / d'un cavallo, la paglia / infetta dei giacigli; / ed è questo il più tetro cimitero della città, / così aperto all'ardente / luce e dissacrato, / senza pietà di piante che rimboschi / il disperato campo / delle cose cadute.
La terza sezione s'intitola Amico di Caronte e si può considerare un vero e proprio tesoretto, in quanto contiene alcune tra le più belle poesie dello scrittore romano. qui si nota una svolta nel fare poetico di Vigolo, come spiegò lui stesso in un'autopresentazione inclusa in una vecchia antologia, di cui riporto un frammento significativo:
A partire dal 1940, quando l'esperienza della guerra, patita per la seconda volta nella mia vita, con un ripetuto richiamo alle armi, immise una violenta irruzione di cose esteriori nella mia interiorità, - lo stadio onirico della mia poesia venne a cessare: sia perché non ricordavo più i miei sogni, sia perché i fatti dell'esistenza si iscrissero ormai con nuovo mordente nel mio testo di veglia; e con essi cominciò un diverso piano della mia attività poetica.
E in tale situazione, vengono fuori in modo palese il dolore, la disperazione e la paura che il poeta prova in determinati momenti: una sorta di fobia dell'esistere, che lo porta a desiderare il sonno profondo o le fughe verso mondi appartati, lontani e a volte introvabili. Vigolo qui confessa il suo malessere senza mezzi termini, come dimostrano questi versi tratti da Quando uno desidera la morte: Quando uno desidera la morte / diventa la madre buona / di sé, la parte che capisce; / si stacca dalla persona / e la guarda, ne prova pietà. / Poi quella parte ritorna / in lui e gli dice piano: / «Ascolta, finisci di penare: / un gran riposo è il nulla, tu non sai.»
La quarta sezione, dal titolo L'eremita di Roma, è una sorta di diario poetico che parla di alcuni momenti in cui il poeta immortala la sua amata città e i suoi stati d'animo che scaturiscono dal trovarsi in un luogo unico, meraviglioso, quale è la capitale d'Italia; grazie a questi idilliaci momenti, il poeta riesce a trovare un motivo per continuare a vivere, come spiegano bene questi versi tratti dall'ultima poesia della sezione: E ti basti una sera / ancora come questa, / sul fiume, / nel tiepido inverno / che tutte le foglie / ha lasciato sui platani, / fermi a un immaginario / Ottobre di mosaici; / / ti basti il calmo fuoco / delle nuvole, ora che il cuore / a poco a poco si fredda e scende / così cupo l'inverno dell'anima.
Parlo con l'eco, che è il titolo della quinta sezione del libro, non si discosta poi molto dalla precedente, a parte il fatto che in primo piano, al posto dei paesaggi e dei luoghi della città eterna, c'è una figura femminile non ben definita (forse un amore del poeta); in questo contesto, quelle che primariamente erano esperienze e sensazioni individuali, ora divengono duali, come si evince dal frequente uso del "noi". Eccone un esempio: Da quella Roma vecchia / con le sue torte viúcole e chiassuoli / uscimmo una mattina, ti ricordi? / a un improvviso largo / di mura; e sopra i tetti / una cupola apparve / levata in alto gorgo. L'infinito / girava nel finito, / l'eterno nella luce / del mattino di giugno. / Ma più splendeva il tuo viso.
L'ultima sezione ha per titolo Fili d'erba, ed ha come peculiarità una tendenza alla meditazione; il poeta a volte si sofferma nell'osservare dei fili d'erba o una giovinetta che legge, altre volte si sente appagato nel farsi trasportare dagli ingranaggi di un ascensore o dalle ruote di un tram, e da questi momenti nascono desideri, sogni e constatazioni che è difficile dimenticare per la loro profondità e la sorprendente fantasia. Ma in altri versi Vigolo sembra che voglia filosofeggiare sul significato dell'esistenza, riuscendovi perfettamente; eccone un caso emblematico, che risulta perfetto per concludere questa dissertazione: L'esistenza / è una fluida / durata di dolore / che condensa talora / la felicità / in grani d'essenza sublime. / / Consolazioni di attimi, / scintille discontinue sul filo / della vita / che poi fulmina tutto.

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