Linea della vita di Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983) è una raccolta
poetica che rappresenta uno dei punti più alti mai raggiunti dalla poesia
italiana novecentesca. Il poeta romano, che aveva già alle spalle un altro
libro di versi e alcuni volumi di prose, con questa opera rivelò tutto il suo
smisurato talento, deliziando il pubblico della poesia grazie a composizioni
indimenticabili. Probabilmente non fu abbastanza considerato dalla critica di
allora, e, malgrado venisse elogiato ed inserito nelle migliori antologie, non
ottenne quella consacrazione che ebbero altri poeti bravissimi, ma sicuramente
inferiori.
Il libro,
pubblicato dalla Mondadori di Milano nella collana I poeti dello Specchio nel 1949, è formato da sei sezioni: Conclave dei sogni (che riprende il
titolo e la struttura della prima raccolta poetica di Vigolo); I secoli poeti; Amico di Caronte; L'eremita
di Roma; Parlo con l'eco; Fili d'erba. In totale, qui sono
presenti 135 poesie.
Di Conclave dei sogni spero di potermene
occupare in un futuro prossimo, tenendo però presente la raccolta originale
uscita nel 1935.
Volendo passare
quindi alla seconda sezione, ovvero I
secoli poeti, essa consta di 15 poesie, presumibilmente scritte tra il 1935
ed il 1939; quest'ultimo particolare si può dedurre anche dal forte legame che
c'è nei versi di questa sezione, con quelli di Conclave dei sogni; visioni, sogni, personaggi della mitologia e
della religione caratterizzano un po' tutte le poesie; ancora una volta, la
descrizione di alcuni luoghi nascosti di Roma lascia il segno per la
formidabile capacità di affascinare il lettore: elemento indiscutibile della
migliore poesia di Vigolo; eccone un esempio in questi pochi versi: Avido sole brucia / sul calvo argine i
mucchi / di masserizie, il cranio / d'un cavallo, la paglia / infetta dei
giacigli; / ed è questo il più tetro cimitero della città, / così aperto
all'ardente / luce e dissacrato, / senza pietà di piante che rimboschi / il
disperato campo / delle cose cadute.
La terza sezione
s'intitola Amico di Caronte e si può
considerare un vero e proprio tesoretto, in quanto contiene alcune tra le più
belle poesie dello scrittore romano. qui si nota una svolta nel fare poetico di
Vigolo, come spiegò lui stesso in un'autopresentazione inclusa in una vecchia
antologia, di cui riporto un frammento significativo:
A partire dal 1940, quando l'esperienza della guerra,
patita per la seconda volta nella mia vita, con un ripetuto richiamo alle armi,
immise una violenta irruzione di cose esteriori nella mia interiorità, - lo
stadio onirico della mia poesia venne a cessare: sia perché non ricordavo più i
miei sogni, sia perché i fatti dell'esistenza si iscrissero ormai con nuovo
mordente nel mio testo di veglia; e con essi cominciò un diverso piano della
mia attività poetica.
E in tale
situazione, vengono fuori in modo palese il dolore, la disperazione e la paura
che il poeta prova in determinati momenti: una sorta di fobia dell'esistere,
che lo porta a desiderare il sonno profondo o le fughe verso mondi appartati,
lontani e a volte introvabili. Vigolo qui confessa il suo malessere senza mezzi
termini, come dimostrano questi versi tratti da Quando uno desidera la morte: Quando
uno desidera la morte / diventa la madre buona / di sé, la parte che capisce; /
si stacca dalla persona / e la guarda, ne prova pietà. / Poi quella parte ritorna
/ in lui e gli dice piano: / «Ascolta, finisci di penare: / un gran riposo è il
nulla, tu non sai.»
La quarta
sezione, dal titolo L'eremita di Roma,
è una sorta di diario poetico che parla di alcuni momenti in cui il poeta
immortala la sua amata città e i suoi stati d'animo che scaturiscono dal
trovarsi in un luogo unico, meraviglioso, quale è la capitale d'Italia; grazie
a questi idilliaci momenti, il poeta riesce a trovare un motivo per continuare
a vivere, come spiegano bene questi versi tratti dall'ultima poesia della
sezione: E ti basti una sera / ancora
come questa, / sul fiume, / nel tiepido inverno / che tutte le foglie / ha
lasciato sui platani, / fermi a un immaginario / Ottobre di mosaici; / / ti
basti il calmo fuoco / delle nuvole, ora che il cuore / a poco a poco si fredda
e scende / così cupo l'inverno dell'anima.
Parlo con l'eco, che è il titolo della quinta sezione del libro, non si
discosta poi molto dalla precedente, a parte il fatto che in primo piano, al
posto dei paesaggi e dei luoghi della città eterna, c'è una figura femminile
non ben definita (forse un amore del poeta); in questo contesto, quelle che
primariamente erano esperienze e sensazioni individuali, ora divengono duali,
come si evince dal frequente uso del "noi". Eccone un esempio: Da quella Roma vecchia / con le sue torte
viúcole e chiassuoli / uscimmo una mattina, ti ricordi? / a un improvviso largo
/ di mura; e sopra i tetti / una cupola apparve / levata in alto gorgo.
L'infinito / girava nel finito, / l'eterno nella luce / del mattino di giugno.
/ Ma più splendeva il tuo viso.
L'ultima
sezione ha per titolo Fili d'erba, ed
ha come peculiarità una tendenza alla meditazione; il poeta a volte si sofferma
nell'osservare dei fili d'erba o una giovinetta che legge, altre volte si sente
appagato nel farsi trasportare dagli ingranaggi di un ascensore o dalle ruote
di un tram, e da questi momenti nascono desideri, sogni e constatazioni che è
difficile dimenticare per la loro profondità e la sorprendente fantasia. Ma in
altri versi Vigolo sembra che voglia filosofeggiare sul significato
dell'esistenza, riuscendovi perfettamente; eccone un caso emblematico, che
risulta perfetto per concludere questa dissertazione: L'esistenza / è una fluida / durata di dolore / che condensa talora /
la felicità / in grani d'essenza sublime. / / Consolazioni di attimi, /
scintille discontinue sul filo / della vita / che poi fulmina tutto.
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