venerdì 5 gennaio 2018

Le false identità di Domenico Gnoli

Domenico Gnoli (Roma 1838 - ivi 1915) è stato un poeta anomalo nel panorama della nostra letteratura ottocentesca e non solo. Infatti, fin dalla sua prima raccolta di versi, uscita nel 1871, ebbe l'idea di modificare la propria identità, assumendo un altro nome. La cosa non si ripeté sempre, ma in altri, ulteriori momenti in cui si ripeté, questa falsificazione d'identità divenne un caso letterario; e fu proprio alle soglie del Novecento, quando lo Gnoli, ultra sessantenne, fece pubblicare una raccolta di poesie intitolata Fra terra ed astri, con lo pseudonimo di Giulio Orsini. Molti insigni uomini di lettere furono ancora una volta ingannati dal poeta romano e, poiché i versi di quest'ultimo si dimostravano più che mai validi e innovativi, inneggiarono al "nuovo poeta": il giovane Giulio Orsini che, finalmente, superava la soglia del XX secolo con un'opera fuori dal comune per le tematiche e per l'arditezza della forma. Questa illusione durò ben poco; presto, infatti, si scoprì che dietro quel giovane e baldo poeta si nascondeva l'anziano Gnoli, il quale, pur essendo già identificato, volle firmarsi col medesimo, falso nome, anche nella successiva raccolta poetica: Jacovella, che uscì due anni dopo e che rinnova e approfondisce i modi e gli argomenti della precedente. Soltanto nel 1907, in occasione dell'uscita di un volume che ricapitolasse la sua produzione poetica più significativa, Domenico Gnoli ritornò alla sua vera identità. Da ricordare che, precedentemente a Fra terra ed astri, il poeta romano aveva dato alle stampe un altro libriccino facendosi spacciare addirittura per una donna: Gina D'Arco. Malgrado non sia da annoverare tra i più interessanti e innovativi poeti del Novecento, lo Gnoli va ricordato, così come altri poeti attempati che nei primissimi anni del nuovo secolo andavano pubblicando le loro ultime raccolte (Vittorio Betteloni, Olindo Guerrini e Arturo Graf), per aver contribuito al rinnovamento della poesia italiana, già da anni in una fase di stallo, che vedeva all'orizzonte soltanto imitatori ed epigoni delle cosiddette "tre corone" (Carducci, Pascoli e D'Annunzio). Fu anche grazie allo Gnoli se, in quei tempi così sterili, si fece lentamente strada un nuovo modo di far poesia, che presto sarebbe esploso con i poeti crepuscolari e, un po' di tempo dopo, coi futuristi. Per quel che concerne il resto della produzione poetica, c'è da dire che Gnoli iniziò sulla falsa riga della Scuola romana, per poi avvicinarsi, come dimostrano le Odi tiberine, al Carducci; tracce di D'Annunzio si ravvisano nell'esile raccolta Eros, in cui si firmò, come già detto, con lo pseudonimo di Gina D'Arco. Ricordo infine che recentemente, la casa editrice Nuova S1 ha pubblicato una ristampa del libro più importante di Domenico Gnoli: Fra terra e astri.  Dopo le notizie bibliografiche, riporto quattro poesie che, grosso modo, rappresentano le fasi poetiche dello scrittore romano.



Opere poetiche

"Versi di Dario Gaddi", Galeati, Imola 1871.
"Odi tiberine", Loescher, Torino 1879.
"Nuove odi tiberine", Loescher, Roma 1885.
"Eros" (con lo pseud. di Gina D'Arco), Forzani, Roma 1896.
"Vecchie e nuove odi tiberine", Zanichelli, Bologna 1898.
"Fra terra e astri" (con lo pseud. di Giulio Orsini), Roux & Viarengo, Roma-Torino 1903.
"Jacovella" (con lo pseud. di Giulio Orsini), Roux & Viarengo, Roma-Torino 1905.
"Poesie edite ed inedite", Società Tipografico-editrice Nazionale, Torino-Roma 1907.
"I canti del Palatino. Nuove solitudini", Treves, Milano 1923.





Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 194-199; pp. 282-284).
"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (pp. 1179-1184).
"I poeti della scuola romana (1850-1870)", a cura di Domenico Gnoli, Laterza, Bari 1913 (pp. 147-175).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 206-207).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 97-102).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 82-91).
"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 342-347).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 140-153).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 115-118).
"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp. 1195-1215).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 11-17).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 677-700).
"I poeti della scuola romana dell'Ottocento", a cura di Ferruccio Ulivi, Cappelli, Bologna 1964 (pp. 139-163).
"Secondo Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Zanichelli, Bologna 1969 (pp. 1214-1223).
"Poeti italiani del XX secolo", a cura di Alberto Frattini e Pasquale Tuscano, La Scuola, Brescia 1974 (pp. 69-74).
"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 323-334).
"Bizantini e decadenti nell'Italia umbertina", a cura di Elsa Sormani, Laterza, Bari 1981 (pp. 248-257).




Testi

IL PASSEGGIO

È un verde colle aperto
Con fonti chiare e fiori e piante elette
E amorosi garzoni e giovinetti
Che pare un paradiso.

Quando presso a la sera
Soglion l'aure portar nova freschezza
Salgon le belle giovinette a schiera
Mostrando agli atti amore e gentilezza,
Sì che il colle ne olezza.
I garzoni si narran lor novelle,
Vengono e vanno e pure alle più belle
Tengon lo sguardo fiso.

Ha questa occhio d’amore,
Van dicendo, e quell’ha guancia rosata,
E quella ha un nuviletto di dolore
Sul bel viso che pare innamorata.
Taluno intorno guata,
Qual sotto un oleandro si riposa,
E quale in bianco vel tutta gioiosa
Raggia d’un gaio riso.

E poi suon di stormenti
Che dolcemente fan l’aria tremare,
E le belle dagli occhi rilucenti
Quasi tratte dal suon paion volare.
E dopo il sol calare
Pel ciel di rosa oltre ad un picciol monte.
Più d’uno allor, com’e’ dimostra in fronte,
Parte d’amor conquiso.

O giovinette al volto,
Belle e amorose e al cor false o spietate,
Quante bellezze ha il cielo in voi raccolte
A’ nostri danni par ve l’abbia date.
De la vostra beltate
Qual alma è dura si che non s’invoglie?
Ma poi null’altro che dolor si coglie,
Donne, dal vostro viso.

(da "Versi" di Dario Gaddi)





LO SGOMBERO

È tuo quel carro che torreggia avanti?
E che pensi? che fai? —
Quel carro è mio: seguo i penati erranti.
Muto casa, non sai? —

E muti in meglio? — Non lo so: che quella
Casa onde vengo via
Me la faceva stranamente bella
La matta fantasia.

Dico matta: per noi, uomini gravi,
Il giardin, la casetta
Dove passeggia il ricordo degli avi,
E dove ogni stanzetta

Ha una storia, e l'ascoltano i nepoti
Cheti, levando il mento,
Per noi son frasche, baie da idioti,
Ubbie del sentimento.

Noi gente seria ce ne andiam vagando
Dove il vento ci porti,
Per le case degli altri seminando
Andiamo i nostri morti.

(da "Odi tiberine")




VEGLIA

Saliva dai tetti, recinta di pallido nimbo,
con tacito passo la luna,
con passo di madre che mova a spiare se il bimbo
riposi a la tepida cuna.

Ed io sul balcone vegliavo, che il sonno da' stanchi
miei occhi è bandito :i pensieri
novelli d'amor senza posa l'inseguono a' fianchi,
qual muta d'alati levrieri.

Un'alta fenestra, sui tetti, splendeva lontano
lontano. Chi veglia a quest'ora?
È forse una povera madre cui stanca la mano
si piega sui lini, e lavora

lavora pel pane de' figli? È un convegno d'amanti?
Là dentro è un infermo? un morente?
Si trama là dentro un delitto? son risa? son pianti?
Ascolto, ma nulla si sente.

Sui tetti dormenti, recinta d'un nimbo leggero,
la pallida luna salìa:
confuso vegliava de l'alta fenestra il mistero
con quello de l'anima mia.

(da "Eros")




LA BASILICA

Ho nell'anima una deserta
Basilica: è umida e odora
Di vecchio. Lo spazio colora
La luce del vespero incerta

Che scende dai vetri appannati.
Vecchia pur essa, indolente
Stende le tinte sonnolente
E si perde tra i colonnati.

Entro il sacro silenzio dorme
Lo spirito degli anni grave;
Sorreggono il lungo architrave.
Varie di giro e di forme,

Le colonne, antichi frammenti
Di vaste moli ruinate,
Visioni pietrificate
Di macabri congiungimenti.

Le volute sui capitelli,
Le logore foglie d'acanto
Come un desiderio di pianto,
Si ripiegano sui listelli.

Sono frammenti d'antiche
Terme, di lieti triclini.
Di portici intorno a giardini
Ora coperti d'ortiche,

Di curvi teatri, di sale;
Sono frammenti di danze,
Sono memorie di speranze,
Sono ruderi d'ideale!

È lastricato il pavimento
Di morti: hanno levigate
Le faccie, le mani incrociate
Sul ventre, nell'atteggiamento

Ultimo. Qui nessuna arriva,
Tra i brividi del passato, nessuna
Aura del presente: nella bruna
Lontananza d'ogni cosa viva,

Non un suono, non una voce.
In fondo, sotto l'abside d'oro
Dove ritti a concistoro
Stanno gli apostoli, una croce

Nuda, nera, sul solitario
Altare le braccia spande.
È forse, o Umanità, la grande
Croce del tuo Calvario?

(da "Fra terra e astri")





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