Il neorealismo è
stata una tendenza artistica che ha riguardato la letteratura, la pittura, il
cinema e l'architettura. Si è sviluppata a partire dagli anni '30 del XX
secolo, fin oltre la metà dello stesso. Come molti sapranno, i maggiori e
migliori esiti del neorealismo si ebbero nel settore cinematografico, grazie ai
film di registi come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Luchino Visconti: così
bravi da esportare il cinema italiano in tutto il mondo. Sempre nel nostro
paese, questa tendenza diede ottimi risultati nella prosa letteraria; infatti, scrittori
come Alberto Moravia, Corrado Alvaro e Carlo Bernari ebbero il merito di
rendere noti, nei loro romanzi, i fatti reali di un'Italia molto povera e
oppressa da un regime quale era quello fascista, che, tra l'altro, faceva di
tutto per nascondere certe fastidiose e scomode verità (si parla del terzo
decennio del Novecento). Rimanendo nel campo letterario, per quanto concerne la
poesia - ed è l'argomento di cui maggiormente voglio parlare - si può affermare
che il capostipite della poesia "neorealista" fu Cesare Pavese, in
quanto fu lui il primo poeta, in un periodo in cui dominava l'ermetismo, a
scrivere e pubblicare poesie che trattassero temi sociali. Ciò avvenne, in
particolare, nella raccolta Lavorare
stanca, uscita per la prima volta nel 1936. Ben dieci anni dopo,
praticamente subito dopo la fine della 2° Guerra Mondiale, fu Salvatore Quasimodo,
col volume intitolato Con il piede
straniero sopra il cuore (1946) a riprendere, seppure in modo nettamente
diverso, il discorso di una poesia impegnata che si faccia capire facilmente e
che tratti degli argomenti di attualità più coinvolgenti. Da qui in poi molti
furono i poeti italiani che cominciarono a parlare della guerra, della lotta
partigiana, delle ingiustizie sociali, della politica, della povertà e cose
simili. Furono attratti dalla nuova corrente scrittori anziani (Sibilla Aleramo
e Umberto Saba), ermetici (Alfonso Gatto e Libero De Libero) e giovanissimi (Elio
Pagliarani, Giovanni Arpino e Luigi Di Ruscio). I migliori risultati però, si
ebbero grazie alle prime raccolte di Franco Fortini (1917-1994) e all'unica di
Rocco Scotellaro (1923-1953), che, purtroppo, uscì postuma. Per il resto, il
neorealismo poetico italiano può delinearsi alla stregua di uno stato d'animo
diffuso, che produsse versi di non eccezionale valore, ma che, comunque, ebbero
il merito di dare una svolta alla produzione poetica nostrana, ancora troppo
legata ad un logoro ermetismo. Tra gli altri poeti che si inserirono in questa
tendenza, si ricordano i nomi di Elio Filippo Accrocca (1923-1996), Mario
Cerroni (1921-1957), Luciano Luisi (1924), Franco Matacotta (1916-1978), Giorgio
Piovano (1920-2008) e Cesare Vivaldi (1925-1999).
Chiudo riportando
cinque testi poetici emblematici, dove si noterà più di ogni altra cosa l'uso
comune del "noi", per sottolineare il fatto che, nei suoi versi, il
poeta neorealista dà voce al popolo e ne è parte stessa.
ALLE FRONDE DEI
SALICI
di Salvatore
Quasimodo
E come potevano
noi cantare
Con il piede
straniero sopra il cuore,
fra i morti
abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di
ghiaccio, al lamento
d’agnello dei
fanciulli, all’urlo nero
della madre che
andava incontro al figlio
crocifisso sul
palo del telegrafo?
Alle fronde dei
salici, per voto,
anche le nostre
cetre erano appese,
oscillavano lievi
al triste vento.
(da "Con il
piede straniero sopra il cuore", 1946)
E GUARDEREMO
di Franco Fortini
E guarderemo dai
vetri ancora i fanali e gli scali
Di una stazione
di notte dove una folla tace
Di dormienti e di
morti d'altri inverni.
La mano ha
perduto la mano e la fronte è caduta.
Il cuore ha
lasciato il cuore inerte. Passano
Sulla neve, e
ripassano, le sentinelle.
Lasciaci gli
occhi, sonno, e il loro male nel buio
Finché non cresca
il giorno a riscuotere i visi
E a riconoscere i
morti in quel giorno non gridi
E fiamma e pianto
invada la mano gelata.
(da "Foglio
di via e altri versi", 1946)
CORO DEI REDUCI
di Cesare Vivaldi
E noi gialli di
sete, rotti di stanchezza, pieni
di freddo e di
pidocchi, con tutta la nostra vita
passata a urlare
di fame davanti ai campi di grano,
noi che
partecipammo della natura dei deserti
come la pietra o
come l'arbusto spinoso,
senz'altra casa
che le ruote rorolanti
sotto i vagoni
dove c'ingabbiarono come porci,
senz'altro
conforto che l'odore della pioggia,
e il rumore della
pioggia sui teli della tenda,
potremmo
rileggere le parole dei morti? potremmo
resuscitare dalla
terra quei corpi? Noi
che sempre
patimmo arsura, e che combattemmo
senza sapere
d'essere schiacciati!
In qualche posto,
sotto qualche ignoto cielo
punteggiammo le
sabbie d'iscrizioni: molti portarono
la sete delle
loro bocche dove non ci son più fontane;
radici parlano di
loro. Ma noi
sui vagoni non
nostri, e alla fine del viaggio
per campi
sterminati, duri al piede, guardammo
levarsi la
polvere degli acquazzoni tra le baracche,
e ogni mattina un
sole diverso dal nostro,
e stelle non
nostre la sera, e la terra
fumante di caldo,
e i remoti falò
dei nomadi tra le
stoppie. Era dolce pensare
allora alle cose
che aveva di buono la vita:
la frescura dei
boschi, le ragazze, le stelle di casa,
ritrovarle nel
cielo.
Ora di tutto quel
tempo non resta che un sapore di polvere
secca nelle
nostre gole, come la polvere
dei nostri
cammini d'allora. L'oggi è la sposa
patria che ci sta
accanto, il bambino malato di vermi,
la voglia di
farla finita. I nostri ricordi, le voci
dei vecchi amici
non sono che sbiadite immagini,
o parole che il
rombo degli autotreni
lascia vivere un
attimo. Ma chi ci ridarà
quel sole acceso
sulla nostra giovinezza,
quei sospiri
sugli usci, quelle donne snelle
in corso tra gli
alberi verdi?
Lo sconnesso
gergo
dell'avvenire attendiamo si faccia parola.
(da "Ode
all'Europa ed altre poesie", 1952)
CANTO DI LUCA MORO,
IV
di Franco
Matacotta
Chi siamo noi?
Siamo gente di
ferro, di calce, di fango,
siamo gente di
legno, di spago, di chiodi,
siamo gente
senzatetto, senzaterra, senzarango,
eppure siamo
qualcosa, odi.
Chi ha fatto le
strade di pietra?
Chi ha fatto le
strade d'asfalto?
Chi ha innalzato
le piramidi
al suono di
frustate sulle reni?
Chi ha scoperto
la prima scintilla
strofinando due
selci sul sentiero?
Chi ha scoperto
per primo il battello
dando al vento la
sua camicia di tela?
Chi ha seguito la
strada di Cristo
chi lo ha
accompagnato colle palme alle mura?
Chi ha dato il
primo pilone alle travi
chi ha dato il
tetto all'amore?
Chi ha posato per
la statua di David?
Chi scava la
camera ai morti
e dà all'assenza
un piccolo posto d'ombra e di gerani fioriti?
Chi batte il
martello
sull'architrave
di cemento?
Chi mette il
primo bullone alla carena?
Chi tesse le vene
d'acciaio sulla terra
spingendo la
locomotiva come una nube di tuono?
Chi aggioga la
coppia di buoi?
Chi prende per
mano la rossa folgore del toro
per aprire la
fecondità delle mucche?
Chi pompa il
fiume bianco delle mammelle?
Chi colora giugno
di trifogli?
Chi lancia sulla
pianta le mele?
Chi dà alla luna
lo specchio dei pozzi?
Siamo gente di
sottoterra, di sottoscala, di sottovento,
gente di
sottopioggia, sottofonte, sottopiede,
senza padre e
senza amore
senza fede e
senza patria
senza famiglia e
senza cuore,
eppure, siamo noi
il grande giardino dei bambini,
siamo noi la
grande musica di periferia
che impedisce
alla città di marcire,
siamo noi la
carne delle guerre
siamo noi il
bersaglio delle decimazioni
siamo noi il
fronte che indietreggia, che avanza,
seminando
medaglie nelle retroguardie dei generali,
siamo noi la
grande patria degli alberi e delle messi
siamo noi i padri
delle pallottole future
siamo noi il
muro, il fonte, il piedistallo, l'arco.
(da
"Canzoniere di libertà", 1953)
E CI METTIAMO A
MALEDIRE INSIEME
di Rocco
Scotellaro
La stagione che
alimenta
l’orgasmo tutto
nostro è questa:
dai rosmarini
bianchi di polvere
dai fiaschi delle
rondini ai nidi.
Siamo nel mese
innanzi alla raccolta:
brutto umore
all’uomo sulla piazza
appena al variare
dei venti
e le donne si
muovono dalle case
capitane di
vendetta.
Gridano al Comune
di volere
il tozzo di pane
e una giornata
e scarpe e strade
e tutto.
E ci mettiamo a
maledire insieme,
il sindaco e le
rondini e le donne,
e il nostro urlo
si fa più forte
come quello della
massaia che ha sperso
la gallina e
bandisce alle strade
solitarie il suo
rancore,
come quello di
borea che si sente
soffiando basso
alla fiamma del sole
ora cresce le
molli spighe alla falce.
(da "È fatto
giorno", 1954)
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