Esattamente cento
anni fa, l'Italia era coinvolta nella Prima Guerra Mondiale insieme ai più
importanti stati europei. Il conflitto era scoppiato nel 1914, ma la nostra
nazione vi partecipò a partire dall'anno successivo. La cosiddetta "Grande
Guerra" fu sicuramente uno degli eventi più sanguinosi e devastanti di
tutti i tempi; a morire furono soprattutto i soldati, che, troppo spesso e
scriteriatamente, furono mandati all'assalto dalle trincee divenendo facile
bersaglio per le mitragliatrici nemiche. Personalmente, fui molto impressionato
dai fatti che si svolsero durante questa maledetta guerra; questo sentimento
scaturì sia dalla lettura di alcuni romanzi famosi di Erich Maria Remarque e di
Emilio Lussu, sia dalla visione di film come Orizzonti di gloria e Uomini
contro, che mettevano in luce l'incredibile cinismo dei generali di tutti
gli eserciti, i quali usavano gli esseri umani come pedine di un gioco,
condannandoli a morte sicura. Anche nel campo della poesia esistono veri e
propri capolavori che hanno, come tema principale, questa guerra ormai molto
lontana. Ci sono alcune opere di Ungaretti, di Corrado Alvaro, di Piero Jahier
e di altri scrittori meno noti, che contengono numerosi versi dedicati ai fatti
bellici. Ho qui voluto riunire dieci poesie che hanno come tema portante la
Grande Guerra; le ho scelte tra quelle che ponessero più in risalto la
sofferenza umana e le tragedie, conseguenti alle perdite di vite umane, causate
da questo spietato combattimento; alcune le ho selezionate perché evidenziano
in modo a volte grottesco, la disumanità del conflitto. Naturalmente, tutte e
dieci i componimenti sono stati scritti da persone che hanno vissuto la guerra
dal fronte e che, più di una volta, hanno visto la morte in faccia. Inutile
aggiungere che ai tempi d'oggi, per fortuna, una simile guerra non è
praticabile; ma sappiamo di vivere una realtà nuova, dove la guerra è divenuta
subdola, vigliacca, e colpisce quasi sempre i civili nei momenti in cui sono
più indifesi.
IL CONTADINO SOLDATO
di Corrado Alvaro
(1895-1956)
Andate a gridare a un
soldato
baciandolo: Tu sei un
eroe!
Ei non conosce
un’opera perfetta
che non sia ’l solco
del bove.
Ei non conosce un
valore
che non sia quello di
vegliar la notte
presso un suo tino
d’uva che borboglia.
Andate a gridare a un
soldato:
Hai fatto il tuo
dovere!
Non sa di meglio che
stare a vedere
se i mignoli d’ulivo
sono molti
e se c’è l’olio per
tutte le sere.
La sua ragione
d’essere soldato
non è nell’ambizione.
N’ha quanto basta a
volere un covone
che salga fino a’
cieli.
La sua ragione è nel
meraviglioso.
Tutte le donne godono
il riposo
dell’uscio logorato.
Egli, in vece, sa
mettersi in agguato,
sa far convito in un
campo falciato
dove i nemici son
come le messi.
I fanciulli sorridono
sommessi
e si stringon per
prendere coraggio.
E le donne ne sentono
tremore
per quell’immenso
cuore
che, di certo, è il
più forte del villaggio.
Il soldato è soldato
perché treman le
donne solamente,
perché i fanciulli
vogliono esser grandi
e mangiano per
crescere più in fretta,
per poter raccontare
d’aver veduto la
Morte
e d’averla invitata a
desinare
come se fosse una
promessa sposa,
d’averle fatto la
corte,
d’averne avuta una
rosa
che fa il petto
tremando sanguinare.
(Da "Poesie
grigioverdi", Lux, Roma 1917)
PASQUA AL FRONTE
di Angelo Barile
(1888-1967)
Al capitano Enrico Fabi
Queste foglie d'ulivo
benedette,
amico, accetta, è il
mio pasquale dono.
Senti, sì dolci al
nostro cuore non sono
le violette.
È il caro ulivo della
mia riviera!
Nato a specchio
dell'onda più turchina
ha il verde-argento
della mia collina
sul mar leggera.
Ben so che la tua
anima pugnace
al duro gioco della
guerra è avvezza,
ma non ti spiaccia
questa carezza
mite, di pace,
che ti riporta,
amico, le lontane
pasque fulgenti della
puerizia
e nei sabati santi,
la letizia
delle campane.
Ne arriva un'eco per
intime strade,
che vince il rombo
del cannone, e tu
vedi il paese, senti
che laggiù
prega tua madre,
senti la tua
fanciulla che ti chiama...
Se oggi almeno -
sarebbe così bello -
giungesse per la
mensa dell'agnello
quegli che l'ama!
I suoi occhi hanno
lacrime e baleni.
Ti aspetta. Certo a
tavola ti ha messo
il posto allato a sé,
guardando spesso
se tu non vieni.
Verrà verrà, non
piangere, vedrai...
Ti recherà l'illesa
giovinezza
cinta di luce e allor
sì piangerai
ma di dolcezza.
Pasqua di pace,
nostra Pasqua santa,
ch'io tornerò agli
ulivi del mio lido,
tu a quello che nel
cuore già ti canta
trepido nido.
Kambresco (Isonzo), Pasqua 1916
(Da
"Poesie", Scheiwiller, Milano 1986)
VITA
di Massimo
Bontempelli (1878-1960)
Uccidere, Vita
Largo alla Vita che
passa
vitamitragliatrice
e falcia le file
degli uomini vivi che cadon giù
floscio moscio sacco bucato
perché la vita
era sull'angolo in agguato.
E sbalzano a grappoli
rossi
dove schianta la vitascheggia
i pezzi di carne le braccia il cervello
pasta lunatica di strazio d'uomini
stroncati dalla vita che si precipitava
fischiando.
Ma con la baionetta
la vita sei tu - là -
la lama è giovane guizza di voglia
tu la stringi e lei si slancia
ti trascina dietro - stop
che è entrata tutta
e il sangue sporco butta
e ti spruzza te.
Oh il ferro non esce più
ma un calcio nella pancia al tuo uomo
e tira - tira lui giù
viva
viva la Vita
la guerravita che passa sugli uomini.
Asciugati il sangue sugli
occhi - sputa -
e guarda se il sole è già alto
Vita.
(Da "Il
Purosangue", Scheiwiller, Milano 1987)
L'UCCISO
di Auro D'Alba (pseud.
di Umberto Bottone, 1888-1965)
Mi son guardato le
mani
che hanno ucciso.
La bocca gelata dei
morti
mi ha sorriso
come una piaga di
fresco detersa.
Mani piccole e
crudeli
di baracca subalpina
calde di saccapelo la
mattina
vogliose di balocchi
mortali.
Non sapevano fare il
male
e le hanno armate
contro un uomo
innocente,
colui che era forse
venuto
per non ripartire.
Colui che veniva a
sedersi sul selciato
in attesa
che s'aprisse la
porta del mattino
e se ne andava
senza osare un
richiamo,
per poi tornare ogni
notte
a rannicchiarsi nel
giardino
come un cane malato.
Cuore di tutti -
giubba di soldato
e un po' di sole
nascosto
nelle tasche
profonde.
Un bastimento perduto
nel ricordo
un saluto nell'anima
cenciosa
una finestra di cielo
blù,
e giù, in fondo al
cuore,
qualche parola
polverosa
che pareva
dimenticata.
Forse l'ha ucciso
quella notte
questa piccola mano
armata.
(Da "Poesie",
Ceschina, Milano 1961)
PRIGIONIA
di Manlio Dazzi (1891-1968)
Per Andrea Pieri
soldato.
Esuli, vinti,
prigionieri, offesi,
non più cose né
anime, e lo stento
ad uno ad uno li
distrugge, come
si schiaccia il capo
ai passeri novelli.
Quando sul tetto
della casa è un passo
un frugar sotto le
tegole smosse,
e sui capini teneri
dei presi
ad uno ad uno entro
la mano, il grande
fosco pollice del
raccoglitore.
Eri in quell'ombra, tu, povero morto,
povero morto dalle
ascelle vuote
come le ascelle d'un
passero implume,
quando alla sposa
lontana chiedevi
non pane, pane, il
disperato pane,
ma il dolciato
chinino, che stordisce
e fa sognare morendo.
(Da "I
Caduti", La Prora, Milano 1935)
MARE
di Piero Jahier
(1884-1966)
Hanno preso il suo
figliolo ànno preso
quello che l’era
appena rilevato
e per andà non può
essere andato
che nel posto più
brutto indifeso.
E per restà non può
esser restato
che dove tronca la
vita le granate
e quando ànno finito
di troncare
scendono le valanghe
a sotterrare.
E se non scrive è che
vuol ritornare
e queste notti è
camminato camminato
per chiedere una muta
alla sua mare.
La muta era ben
pronta al davanzale
e alla finestra mare
l’à aspettato.
L’à aspettato infino
alla mattina
quando squilla la
tromba repentina
e alla sua casa non
può più rivare.
Hanno preso il suo
figliolo alla mare
*
Hanno preso il suo
tosàt ànno preso
quel ch’era così
tanto delicato
e si ritrova lontano
trasportato
nel bastimento sopra
l’acqua acceso.
Di giorno il
bastimento gli cammina
ma nella notte è
sempre arrestato
e tutte l’acque
bussan per entrare
dove il suo tosàtel
sta addormentato.
Hanno preso il suo
tosàt alla mare
*
Hanno preso il suo
omo ànno preso
Quello che la doveva
accompagnare
che avea giurato
davanti all’altare
di non lasciarla sola
a questo peso.
Lui coi suoi bòcia è
contento di andare
non si è quasi
voltato a salutare
Ma ànno preso il suo
òmo alla mare.
*
E la mattina si è
levata a solo
e à messo tutte le
sue filigrane;
à bevarato le sue
armente chiare;
à steso tutti i suoi
panni a asciugare;
à agganciato il più
grande suo paiolo;
à apparecchiato il
più bel fuoco acceso
e dopo si è seduta al
focolare.
Anche se tornano non
si può più alzare.
Hanno preso ànno
preso anche la mare.
(Da "Poesie in
versi e in prosa", Einaudi, Torino 1981)
PERCHÉ NON T'UCCISI
di Fausto Maria
Martini (1886-1930)
Non per viltà — tu
non l'avrai creduto,
tu, che la sera
stessa, sotto un folle
riso di stelle,
fosti, tra le zolle,
zolla di grumi, fatto
inerte e muto —
non per viltà mancai
la giusta impresa
di trapassarti il
cuore: fu perché
sullo sfondo inumano,
vidi te
così biondo, te,
dalla faccia accesa
d'un rossor di
fanciullo, avido, anelo,
con l'empito del
correre nel petto,
umana assurdità sul
parapetto
della trincea, con
due goccie di cielo
per occhi (non più
scorderò quegli occhi
che predaron la mia
trafitta fronte!)...
Aureolato dalla neve
a fiocchi
te vidi, e credei
scorgere le impronte
del viso profilate
sullo smalto
lontano e pur così
miracolosamente
vicino, che di su lo
spalto
terrigno si
trasfigurava in rosa...
Non per viltà, né fu
perch'io pensassi
in un borgo nemico
una sorella
tua dolce e grave,
vigilante i passi
del fratello, se
torni, una sorella
insonne qual'io
m'ebbi e che giungeva
ogni alba, con un suo
bianco nepente,
fino sulla mia
soglia, e suadeva
a un incontro materno
il moriente...
Non t'uccisi perché
nella stess'ora
noi ci eravamo sporti
sopra il fondo
gorgo del nulla, o
sconosciuto e biondo
nemico, insieme, e,
quello che scolora
nel ricordo, tuo
viso, somigliava
già questo mio, più
macilento e vecchio,
(o l'aria di nessuno
era uno specchio,
non anche frantumato
dalla lava
delle granate?)
insieme sulla morte
noi, vivi, ci
sporgemmo, e tu fanciullo
m'apparisti qual io
m'ero: un trastullo
inconscio nelle mani
della sorte
eguale, trascinato
dal fluire
d'un'istessa onda
fino nell'estrema
avventura... Non fu
dunque per tema,
s'io non t'uccisi: fu
per non morire!
Per non morire in te:
m'eri gemello,
o apparso sulla
gemina trincea,
e fustigato, in vetta
alla nevèa
serenità, così come
un fuscello
dal vento, dal mio
male più tenace...
Or quale forza era
fra noi? L'eguale
necessità, che via
lungo un viale
d'asfodeli adduceva i
senza pace;
due: l'un simile
all'altro, onde non volle
questa mia mano
prenderti alla gola
e soffocarvi l'ultima
parola,
la stessa che fiorì
sulla mia folle
bocca: Amore... Non
volle, o non poteva
(non era nel suo
ritmo!) la mia mano,
ammansita da un
verso, o figlio d'Eva,
essere, allora, il
tuo destino umano!
Non io conobbi, o mio
nemico biondo,
per qual camminamento
fossi sceso
alla trincea dalla
tua tana: appreso
m'ebbi la strada
dalla tana al mondo!
Oh! somigliava alla
via lattea: ed era
tutta tramata
d'un'immateriale
luce, fatta per
battersi con l'ale,
scavata in cuore ad
una primavera
di mandorli: era un
nastro, sulla terra,
di seta: era un
ritaglio d'una gonna
azzurrina, lanciato
da la donna
amante a quella tua
casa di guerra...
Anche pensai d'avere
conosciuto
una tua provinciale
nostalgia
negli occhi, e una,
vivace tuttavia,
anima innamorata nel
tuo muto
cuore... O tu, ch'io
conobbi sol nei chiari
grandi occhi e i
forti tuoi zigomi rossi,
io mi credei, nemico,
che tu fossi
un mendicante di
conviti rari,
mendicante d'azzurro,
impenitente
peccatore, un ramingo
sognatore,
un piccolo cervello,
un grande cuore:
fausto maria martini
d'altra gente!...
E non t'uccisi, o tu
che mi ghermisti
la fronte, non
t'uccisi sol perché
nemico ignoto dai
grandi occhi tristi,
ebbi paura di morire
in te!
(Dalla rivista «Nuova
Antologia», novembre 1917)
VIATICO
di Clemente Rebora
(1885-1957)
O ferito laggiù nel
valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni
interi
cadder per te che
quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento
ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha
fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e nel conforto ti sia
nella demenza che non
sa impazzire,
mentre sosta il
momento
il sonno sul
cervello,
lasciaci in silenzio
grazie, fratello.
(Da "Le
poesie", Garzanti, Milano 1988)
VEGLIA
di Giuseppe Ungaretti
(1888-1970)
Una intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Cima 4 il 23 Dicembre
1915
(Da "Il porto sepolto", Marsilio, Venezia 1990)
NEL SEPOLCRO
DELL'OMBRA
di Vann'Antò (pseud.
di Giovanni Antonio Di Giacomo, 1891-1960)
Calma pace silenzio
ragnatela infinita
nel sepolcro
dell’ombra
Immoto
grave enorme
giaccio dormo
nel vuoto
Triste un po’
sorrido
come un dì
schiudo le mie
palpebre
Nella tomba
via
guizza il sole
come una lucertola
Il poeta Auro D'Alba al fronte durante la Prima Guerra Mondiale |
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