domenica 16 luglio 2023

Riviste: "Il Marzocco"

 Il Marzocco è il titolo di una rivista artistica nata a Firenze nel 1896, grazie ai fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto; diedero un fondamentale apporto alla nascita e allo sviluppo della rivista, anche amici e sodali dei due fondatori, che, tra l’altro, avevano già collaborato alla nascita di un’altra rivista prestigiosa: Vita Nuova. Fu Gabriele D’Annunzio a suggerirne il titolo e a scrivere, insieme a G. S. Gargano, il Prologo apparso sul primo numero, nel febbraio dell’anno di nascita. I direttori più assidui del Marzocco, furono Enrico Corradini e i due fratelli Orvieto (in particolare Adolfo); la rivista chiuse i battenti nel 1932. Il Marzocco si occupò di arte in generale, ma privilegiò decisamente la letteratura; in questo ambito, tra i suoi collaboratori figurano nomi prestigiosi, come quelli di Giovanni Pascoli, Enrico Annibale Butti, Gabriele D’Annunzio e Luigi Pirandello. Poeticamente parlando, la fase più interessante  della rivista si può intercettare nei primi dieci anni delle sue pubblicazioni; in tale periodo, nelle pagine del Marzocco comparvero versi di Diego Angeli, Diego Garoglio, Pietro Mastri, Marino Marin, Domenico Tumiati, Cosimo Giorgieri Contri e, soprattutto, di Giovanni Pascoli e Luisa Giaconi; tutti questi poeti posero le basi, anche con i testi presenti sul Marzocco, per la nascita di un decadentismo poetico tutto italiano, che certamente si rifaceva a quello francese, ma che comunque possedeva degli elementi originali ben identificabili. Chiudo riportando tre belle poesie che apparvero, per la prima volta, sulla rivista fiorentina.

 

 


 

 

PER SEMPRE!

di Giovanni Pascoli

 

Io t'odio? Non t'amo più, vedi,

non t'amo... Ricordi quel giorno?

Lontano portavano i piedi

un cuor che pensava al ritorno.

E dunque tornai: tu non c'eri.

Per casa era un'eco de l'ieri,

d'un lungo promettere. E meco

di te portai sola quell'eco:

          PER SEMPRE!

 

Non t'odio. Ma l'eco sommessa

di quella infinita promessa

vien meco, e mi batte nel cuore

col palpito trito dell'ore;

mi strilla nel cuore col grido

d'implume caduto dal nido:

          PER SEMPRE!

 

Non t'amo. Io guardai, col sorriso,

nel fiore del molle tuo letto.

Ha tutti i tuoi occhi, ma il viso...

non tuo. E baciai quel visetto

straniero, senz'urto alle vene.

Le dissi: - Ed a me, mi vuoi bene? -

- Sì, molto. - E i tuoi occhi in me fisse.

- Per sempre? - le dissi. Mi disse:

          - PER SEMPRE! -

 

Risposi: - Sei bimba e non sai

"Per sempre" che voglia dir mai! -

Rispose: - Non so che vuol dire?

"Per sempre" vuol dire "Morire";

Sì: addormentarsi la sera:

restare così come s'era,

          PER SEMPRE!

 

(da «Il Marzocco», giugno 1898)

 

 

 


IL TEMPO

di Domenico Tumiati

 

Io non so, come giunsi a quella torre:

mi trovai prigioniero, sui gradini

piede costretto sovra piede a porre,

e la scala parea senza confini.

 

- Perché mai salgo? - Io chiesi, a me rivolto.

M'urgevano le tempie come un'onda:

d'un tratto vidi a me dinanzi un volto,

di chi folta caligine nasconda.

 

Era un piccolo vecchio che scendea

come un'ombra; e mi volse li occhi fissi,

ove un guizzo di luce si spegnea

simile a lampo su profondi abissi.

 

Prestai orecchio al suo discender lento;

e un altro passo udii, che a me davanti

le scale misurava in quel momento,

nel salire celavami i sembianti.

 

Da le spalle incurvate, anch'ei mi parve

per anni adusto, ne la luce fioca;

ma interrogare le due chiuse larve

vanamente tentò la voce roca.

 

Così restai su le infinite scale

atomo perso tra i due vecchi lenti

che scandian la quiete, con l'eguale

ritmo dei passi montanti e scendenti.

 

(da «Il Marzocco», luglio 1898)

 

 

 

 

ARMONIA

di Luisa Giaconi

 

Eretta Ella nel lampo del sol morente, cantava

un antico e lento poema suo; fremeva di ritmi

profondi il silenzio de' lauri solenne, come eco,

cantavano i cieli con echi vasti di luce d'oro.

 

Fulgeva la sua chioma di vivo piropo nel sole,

con larghe volute fluendo sovra i non tocchi seni,

stringevano le braccia su i seni una mèsse di fiori,

meravigliosi; poemi dei solchi, ambra dei prati.

 

Diceva Ella il poema suo vasto ed antico dinanzi

a un'ara invisibile ; e faci magiche eran le vite

arboree accese ne l'ora flammea, ed incenso

la errante pei cieli odorosa anima dei fiori.

 

De gli uomini ascoltavano muti, meravigliando

con occhi che animi dopo ciechi anni la luce,

con anime ancor sacre al puro silenzio dei sogni,

che il canto cullava con ritmi di luce e di pianto.

 

Passava Ella col lampo del grande Morente; e più lunge

de gli occhi e più lunge del sogno; velata dai silenzii,

più sacra nel pianto che bagnavale gli occhi divini,

tornante inviolata ai suoi templi lontanissimi d'oro.

 

(da «Il Marzocco», maggio 1899)




domenica 9 luglio 2023

La pioggia nella poesia italiana decadente e simbolista

La simbologia della pioggia è in genere legata a quella dell'acqua, tuttavia si possono evidenziare delle differenze; tra di esse, per esempio, si può pensare alla pioggia come un "pianto del cielo", e quindi accomunarla a sentimenti di tristezza, noia e malinconia (il tutto acuito dal grigiore che domina nelle giornate piovose). Ma le piogge possono divenire anche simbolo di voluttà o di benessere fisico e mentale, specialmente se la precipitazione piovosa avviene durante il periodo estivo (esempio eloquente ne è La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio).



 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Canzonetta della pioggia" in "I cipressi e le sorgenti".

Diego Angeli: "Sera d'inverno ad Acqua Traversa" in "La città di Vita" (1896).

Gustavo Botta: "Balbettìo" in "Alcuni scritti" (1952).

Gustavo Brigante-Colonna: "Piove. Dal ciel discende un velo denso" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Paolo Buzzi: "Sera d'uragano" in "Aeroplani" (1909).

Giovanni Camerana: "Maggio" in "Poesie" (1968).

Enrico Cavacchioli: "Il terrore raccolto" in "L'Incubo Velato" (1906).

Guelfo Civinini: "Pioggia d'ottobre" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Gabriele D'Annunzio: "La pioggia nel pineto" in "Alcyone" (1904).

Adolfo De Bosis: "O nel tardo novembre" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).

Federico De Maria: "Pioggia voluttuosa" in "La leggenda della vita" (1909).

Luigi Donati. "L'acqua" in "Le Ballate d'Amore e di Dolore" (1897).

Corrado Govoni: "La pioggia rugginosa" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).

Corrado Govoni: "Sotto la pioggia" in "Poesie elettriche" (1911).

Marco Lessona: "Piove" e "Parla un'altra donna" in "Versi liberi" (1920).

Tito Marrone: "La pioggia d'estate" in «Cronache della Civiltà Elleno-Latina», settembre 1904.

Nicola Moscardelli: "Pioggia" in "Abbeveratoio" (1915).

Arturo Onofri: "Cade una pioggia soave sull'orto fiorito" in "Canti delle oasi" (1909).

Nino Oxilia: "E piove, piove, piove..." e "È notte e piove..." in "Canti brevi" (1909).

Nino Oxilia: "Alla finestra mentre piove" in "Gli orti" (1918).

Guido Ruberti: "Mattino di pioggia" in "Le Evocazioni" (1909).

Diego Valeri: "Pioviggina" in "Umana" (1916).

 

 


Testi

 

PIOGGIA VOLUTTUOSA

di Federico De Maria

 

Piove. Folgora. C'è qualche cosa

nell'aria attristita

che quasi c'invita

al raccoglimento.

E, forse pel freddo, io sento

un brivido, un tremito strano:

è come se una lama voluttuosa

mi pungesse, spingendomi a poco

a poco verso di te.

Perché non vieni tu, o sposa

del mio mistero, a illuminar di gioia

la lasciva noia

di quest'ora tediosa?

Da gran tempo qui tutto t'aspetta

nell'ornata stanzetta.

Per te ò acceso un buon fuoco

che sfriggola e scoppietta

tentando rallegrar tutti gli oggetti

che attorno stan, poveretti,

imbronciati nel lento crepuscolo

che il cielo loro concede

da la finestra. E il tuo poeta siede

presso a quel fuoco, di faccia

a una vuota poltrona

che tiene aperte le braccia

invocandoti. Da le pareti

tutti i ritratti dei cari

mi guardano immobili, ma

sogghignandomi, anche i men lieti.

Ed io vedo la mia persona

ripetuta da l'attaccapanni

ove pare che i miei abiti

cadenti siano la caricatura

della mia dolente figura

abattuta da continui disinganni.

E t'attende pure il letto

bianco, come la castità,

ove crebbi e mai fui solo

fantasticando e sognando...

Oh, lì da gran tempo t'aspetto,

con questa pioggia infingarda

che più dispone ad amare.

Ti sentirei, sul mio petto

allacciata, trasalire, palpitare

per lunghe, lunghissime ore...

E sentiremmo la pioggia scandir la cadenza

del nostro furtivo amore.

picchierellando su i vetri

maliziosa... A ogni tuon rimbombante

balzeremmo, fatti rossi dal pudore...

e soffocheremmo in un bacio

uno scroscio irresistibile di riso.

Quante parole diremmo e poi quante

pazzie faremmo, senza parlar più !...

Poi, tardi, si spegnerebbe

il fuoco, col giorno, e tu

diresti: «Che freddo!» con quella

voce fatta più lunga dal languore, col viso

contro il mio viso, stringendoti a me

più forte, con i capelli arruffati,

gli occhi di nero cerchiati,

discinta nell'inverecondia

divina dell'amor che fa più bella.

— Però non avremmo più legna;

ed io riattizzerei le fiamme

coi versi che scrissi per te

in questi lunghi sei mesi

che attesi...

 

(da "La leggenda della vita", Edizioni di «Poesia», Milano 1909)

 

 

 

 

È NOTTE E PIOVE...

di Nino Oxilia

 

È notte e piove. Ò avanti

il mare che lamenta

coll'onda grigia e lenta

una storia di pianti.

 

Dalla finestra in luce

d'una casa abitata

il vento mi conduce

un suono - una risata -

 

...a tratti - Il canto lieto

di una fanciulla bionda.

Una voce profonda

d'uomo. Un passo sul greto.

 

Le nubi in cielo vanno

tacite, senza rombo,

verso un ignoto affanno,

sotto il cielo di piombo.

 

Il cuore, oggi, mi pesa

come non mai. Mi pare

che tutto, e cielo e mare,

voglia recarmi offesa.

 

E che la terra esali

qualche veleno ignoto

e qualche pianto ignoto

singhiozzi tra i mortali.

 

Vorrei sotto la mesta

pioggia che cade, sulla

spiaggia chinar la testa

come a una dolce culla,

 

e in silenzio ascoltare

tutti i ritmi trasfusi

nell'aria e già confusi

col risucchio del mare.

 

(da "Poesie", Guida, Napoli 1973)

 

 

Gustave Calilebotte, "Paris street; Rainy day"
(da questa pagina web)

domenica 2 luglio 2023

La poesia di Angelo Barile


 


Prima di pubblicare questo post, ho avuto la tentazione di considerare Angelo Barile (Albisola Marina 1888 – ivi 1967) alla stregua di un “poeta dimenticato”; in effetti, questo grande poeta del Novecento, da almeno un trentennio a questa parte è praticamente caduto nell’oblio, e oggi ben pochi lo ricordano. Eppure, l’unica pecca che si può trovare in Barile, è la sua scarsa prolificità; ma pur avendo scritto poche poesie, ha trovato il modo di lasciare il segno sia nell’ambito della poesia italiana novecentesca, sia nella cosiddetta “linea ligure” – di cui è un esponente di primo piano – che comprende nomi di suoi corregionali assai illustri come Sbarbaro e Montale. Certamente fu un isolato, poiché trascorse l’intera sua esistenza nel paese natale, occupandosi di un’azienda manifatturiera, e dedicandosi alla scrittura soltanto nei momenti liberi; pure, collaborò a diversi giornali, e fondò, insieme ad Adriano Grande, la rivista Circoli, in cui furono pubblicate per la prima volta alcune delle sue migliori poesie. Per meglio comprendere l’essenza della poesia di Barile, trascrivo due brevi frammenti tratti da altrettanti saggi che si sono occupati di lui; il primo è di Gianni Pozzi, e proviene dal volume La poesia italiana del Novecento:

 

La poesia di Angelo Barile nasce e si sviluppa in una zona periferica, ma collaterale alla poesia degli ermetici. Nella sua elegante, limpida e intermittente produzione, partecipa al clima letterario dell’epoca con la esigenza di una purezza esclusiva, tanto importante, ormai, di per se stessa, da esonerare il poeta da un contenuto diverso della solitudine innamorata della sua memoria.

La sua illuminante caratteristica consiste in una aperta e fondamentale assimilazione dei modi stilistici contemporanei, in una sorta di virtuoso e alto dilettantismo. Barile è un cesellatore di elaborati intarsi stilistici, senza protervia: ricostruiti in una specie di ipnotica, spontanea adesione al clima decadente che li determina. […]¹

 

Il secondo è invece estrapolato dall’antologia Poesia italiana del Novecento, a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio; l’autore è Silvio Riolfo Marengo. Quest’ultimo, inizialmente cita parte di una postilla appartenente ad un’opera poetica di Barile, identificando la sua concezione di poesia come “energia vitale dello spirito”; segue un’ulteriore citazione tratta da uno scritto di Giovanni Boine, in cui si pone in risalto l’essenzialità e la pazienza nell’arte dello scrivere, che sono sinonimo di qualità; quindi così prosegue:

 

L’opera quantitativamente selezionata e fedele a pochi tempi essenziali di Barile nasce da questa poetica della necessità: sono momenti, immagini, situazioni della vita e del mondo familiare che la memoria recupera alla luce della poesia solo dopo che sono state a lungo «sepolte nel cuore» e traspone, con metafore balenanti, dal piano dell’esistere a quello dell’essere. Ed è naturale che l’epicedio venga eletto a modello deputato per fissare i caratteri dell’unica certezza metafisica concessa al credente: la morte che è tutt’uno con la vita, anzi ne riassume e ne esalta la pienezza, anche in presenza del dolore e del peccato, due motivi che increspano quasi sempre anche le evocazioni più tenere di Barile. […]²

 

Barile pubblicò soltanto tre raccolte poetiche, sebbene l’ultima non sia altro che una ricapitolazione della sua produzione in versi, con l’aggiunta di un’ulteriore, breve silloge conclusiva. Scrisse anche delle prose di buon valore, che sono per lo più incluse nel volume Risonanze (Quaderni di «Persona», Roma 1966).

Dopo aver elencato i volumi in versi del poeta di Albisola, trascrivo tre indimenticabili poesie dello stesso, tratte dalla nuova edizione di Poesie (1930-1963), pubblicata da Scheiwiller in Milano nel 1986.

 

NOTE

1)     Da: Gianni Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1995, p. 286)

2)     Da: Poesia italiana del Novecento, Garzanti, Milano 1980, pp. 263-264.

 


 

Opere poetiche

 

“Primasera”, Edizioni di «Circoli», Genova 1933.

“Quasi sereno”, Neri Pozza, Venezia 1957.

“Poesie (1930-1963)”, Scheiwiller, Milano 1965.

 


 

Testi

 

USCIRE DALLA VITA

 

Uscire dalla vita come quando

s’esce di chiesa

in un finale d’organo: s’avventa

l’anima a scale prodigiose, trova

il piede sulla soglia

un bianco che vi palpita: e la luce

è nuova.

 

Ma uscire non è dato in rapimento.

Ch’io possa almeno

lasciarmi dietro la mia stanza, un poco

volgendo il capo a riguardarla, alfine

pulita, sgombra

d’ogni discordia, in ordine sereno

come la chiesa ora vuota: le croci

fanno una chiara ombra

sul pavimento.

 

(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, p. 69)

 

 

 

 

OSTERIA DELLA BELLA BREZZA

 

Padre, finita la giornata uscivi

le belle sere

a prendere l’aria di mare. Sedevi

fuori dell’osteria che non c’è più;

che aveva un nome così fresco, pinto

in azzurro di lettere leggere

sulla bianca maiolica. Hanno stinto

il tempo ed il salino

tante in me cose e non quel nome: spira

dal tuo celeste ancora

la bella brezza.

 

Discendevi su l’ora

che il nostro mare è una cara contrada

con tesi teli e fumo di comignoli.

Tra poco, e ancora è giorno,

treman sull’acque lumi e nelle case.

Cantan, su' remi, amanti.

Navi fanno ritorno,

escono navi dal prossimo porto,

van per quieta strada

all’orizzonte che il vespro avvicina.

 

Andavano, per te, sul mare grande.

Andavano distante

anche i piccoli barchi, e tu con loro.

I capitani della Bella Brezza

rifanno a gara

la traversata, toccano le Americhe.

Tempi di vela! Un palpito di nomi

i più marini di Liguria... Ognuno

passava al vostro tavolo, beveva

venti severi -

e il goccio d’oro al fiato vespertino.

 

Veniva alla tua frasca

l’umana brezza,

sotto il cielo benevolo il brusìo

che fa il paese conciliato a riva.

I cerchi delle donne

che giocavano a tombola con i sassi

tolti alla rena; i cerchi delle rondini

che stridevano basse

toccavano la testa dei ragazzi,

tutto animava la tua sera. E l’Ave

sul riposo di un popolo che scioglie

la sua gravezza ai margini turchini.

 

Ora respiri la brezza infinita.

 

(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, pp. 77-78)

 

 

 

 

A TARDA SERA

 

A tarda sera quando

prego pace ai miei morti,

ad una ad una vi chiamo per nome,

mie sensibili anime. In un lampo

a ciascun nome mi risponde il viso

desiderato,

e il sangue vi ripalpita vi segna

i suoi segreti.

 

Odono il mio susurro anche gli anziani

che in grembo alla memoria

già posano quieti

e forse ancora anelano in cammino

per i valichi estremi al loro Cielo.

Un poco, andando, si volgono e alcuno

lontanamente sorride...

                       

                        Ma questi,

al mio cuore i più mesti,

che ieri appena spezzavano il pane

con noi sotto la lampada e nell’ombra

son passati tenendosi per mano,

lo sguardo al focolare:

questi quando la sera

chiamo per nome i miei morti, li vedo

ancora fermi, ancora

trepidi e tesi di là della porta

non richiusa, che geme.

 

Ecco mi fate cenno, anime care,

d’incamminarci insieme.

 

(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, pp. 146-147)