domenica 4 ottobre 2020

San Francesco d'Assisi in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Nel giorno  in cui si celebra San Francesco d'Assisi, mi pare opportuno pubblicare un post dedicato al santo patrono d'Italia, ovvero a colui che riuscì a rifondare e riformare la chiesa, indirizzandola di nuovo verso quei valori fondamentali su cui si basava alla sua nascita e che la rendono grande: quei valori che si rifanno alla fraternità, alla povertà, all'umiltà e alla pace. Le 10 poesie che ho selezionato non sono forse tra le più belle, ma certamente tra le meno note. In questi versi vengono riassunti i temi e le opere che hanno caratterizzato maggiormente la vita di S. Francesco: le sue parole indimenticabili che si ritrovano nel Canto delle creature; la sua divina capacità di dialogare con gli animali; la sua rinuncia totale agli agi e alle ricchezze in nome di una fede pura ed estremamente coerente; la sua vicinanza al mondo dei sofferenti e degli ultimi. Non sono assenti talune leggende che rendono ancor più intrigante la vicenda umana di questo santo imparagonabile per eccezionalità e basilare non solo per la religione cristiana, ma per tutta l'umanità che vuole vivere in pace ed in fratellanza. Oggi, abbiamo ancor più da imparare da San Francesco, basterebbe soltanto aprire il nostro cuore e saper percepire fino in fondo il suo importantissimo messaggio.

 

 


 

SAN FRANCESCO D'ASSISI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

 

IL CANTICO DELLE CREATURE

di Graziella Ajmone (pseud. di Grazia Maria Ajmone, Borgo di Terzo 1912 - Gardone 1993)

 

Piagato e dolorante ma felice,

cieco ma aperti gli occhi oltre l'azzurro,

cantava San Francesco tra gli ulivi

la laude nova. Intorno ad ascoltare

stavano intente tutte le creature.

Poi frate vento, tra le fronde, lieve

passò musicalmente. Qualche uccello

s'avvicinò con breve frullo d'ali

e cinguettò lì presso piano piano.

Risposero altre voci da lontano.

L'acqua nella sua fuga trasparente

canzoni mormorò semplici e chiare.

Parve che un'onda d'armonia salisse

dalla terra, dai fiori e dalle siepi,

dagli alberi e dalle acque verso il sole,

verso le stelle, fino a Dio Creatore.

Ed il Santo poeta all'armonia

del creato donava le parole.

 

(da "Mattutino", Vita e Pensiero, Milano 1942, p. 18)

 

 

 

 

LE STIMMATE O IL PICCOLO UCCELLO

E IL GRANDE SPARVIERO

di Elena Bono (Sonnino 1921 - Lavagna 2014)

 

Parlavi nella lingua

misteriosa ed acuta degli uccelli

che noi abbiamo perduta.

T'ascoltavano i passeri e i falchetti

corvi colombe gufi neri

alzàvole verdi-argentate

e tutti tutti i viandanti

del cielo che non ha strade

 

tutti fermissimi attenti

le puntute pupille

fisse su te,

le piume strette

al corpicino spasimoso,

gli impazienti viandanti

del cielo che non ha strade.

 

Lui è piombato su te

Grande Sparviero

nel rombo roteante delle ali,

le sei spade incrociate

di fuoco divampante;

e tu, piccolo uccello,

tenevi strette

le braccia al petto

in ultima difesa

prima di aprirle in resa

alle spade di fuoco

divampante.

 

O forse era pazienza comandata

al cuore spasimoso,

impaziente viandante

del cielo che non ha strade.

 

(da "Poesie. Opera omnia", Le Mani, Recco 2007, p. 452)

 

 

 

 

SANTO FRANCESCO

di Andrea Cason (? - ?)

 

Assunto in pace, Francesco di Dio,

bianco viso d'amante,

cori di luce avventi

al tramontare dei pini.

 

Grembo di stelle, Francesco di Dio,

una letizia abiti arcana:

puro del mondo e povero

t'imparadisi nel riso.

 

Angelo scuro, Francesco di Dio,

le mani doni al cielo:

t'imbianchi alto nel monte

a vie di Paradiso.

 

Carne d'amore, Francesco di Dio,

vivi dagli occhi il sangue,

che rompe il viso chiaro

di Cristo, Dolce Signore.

 

(da «L'Eroica», novembre-dicembre 1941)

 

 

 

 

SAN FRANCESCO DEI MONTI

di Beniamino De Ritis (Ortona a Mare 1888 - Roma 1956)

 

O San Francesco, contro la minaccia

dei venti ed il furor delle tempeste,

propizio sopra le montane creste

veglia il magro profil della tua faccia;

 

mentre d'antiche visioni in traccia,

dischiudi gli occhi a un'estasi celeste,

e tra un largo respiro di foreste

apri, lodando, al tuo Signor le braccia.

 

Talor, salendo dalla valle lieta,

lungo le rupi scintillanti al sole,

dal bianco polverio delle cascate,

 

un vol d'uccelli, innanzi a te s'acqueta

come se fosse per le vie nevate

persuaso da tue dolci parole.

 

(da "Nell'orto degli ulivi", Officine Grafiche, Ortona a Mare 1908, p. 5)

 

 

 

 

SANTA ILLUMINATA

di Giuseppe Fedele (Monreale 1878 - ivi 1941)

 

L'eremo è questo di Francesco? In faccia

al sereno del ciel vivo splendore,

Ei forse qui levò alte le braccia,

gli occhi levò cantando a Dio Signore?

 

Oh, qual l'addusse solitaria traccia,

quali fiamme tra voi s'ebbe il suo cuore,

ditemi, antiche quercie, a cui s'allaccia

l'edera ancor, come un pensier d'amore!

 

Qui dove par che da le rocce aneli,

pei tronchi urgendo e per le rame attorte,

come un'impetuosa anima ai cieli,

 

non sentia de la vita Egli sgorgare

gl'immensi fiumi e conflagrar più forte

l'insaziata volontà d'amare?

 

(da "Vergiliae", Gustavo Travi Editore, Palermo 1930, p. 151)

 

 


 


 

SAN FRANCESCO

di Augusto Garsia (Forlì 1889 - Firenze 1956)

 

Attorno a Te le opposte creature

chiami benedicendo, san Francesco:

nature fosche e limpide nature

tutte raduni a l'amoroso desco.

 

Pascono Tua bontà: nel rio fresco

si dissetano insieme, a l'onde pure,

lupi ed agnelli; e fiorisce il pesco

e splende ne le ghiacce notti oscure.

 

Intorno ciascuna in suo latino

l'aquila e la colomba la Tua lode,

o San Francesco, e Tu nel Tuo divino

 

amplesso questa terra che in Te gode

accogli stringi innalzi oltre il destino

caduco, alle raggianti eccelse prode.

 

(da «Giornale di Politica e di Letteratura», ottobre 1927)

 

 

 

 

FRANCESCO D'ASSISI

di Augusto Gaudenzi (? - ?)

 

Nato negli agi, in cerca d'avventura

vivea, gli amici erano al vizio sprone;

solo pensier d'ogni mondana cura

avea il figliuol di Bernardone.

 

Ma la voce di Dio, per sua ventura,

destò l'alma sopita, una missione

gli diè che nei seguaci suoi perdura.

D'un sacco si coprì, cinse un cordone.

 

Da quel giorno, poeta pellegrino,

per l'Umbria verde andò cantando amore,

nel rozzo saio, con il capo chino.

 

Fu tregua agli odi, il francescano ardore

vinse; trassero, al canto suo divino,

le turbe a Lui, come a Gesù Signore.

 

(da «Frate Francesco», settembre-ottobre 1926)

 

 

 

 

SAN FRANCESCO

di Teresah (pseud. di Corinna Teresa Gray Ubertis, Frassineto Po 1877 - Roma 1964)

 

Francesco disse a Gesù:

— Voglio bene al cielo,

voglio bene al mare,

voglio bene al sole;

voglio bene al cuore

che gode e che si duole;

e a suor Chiara, ed a tutte

le piccole sorelle;

pure alle rondinelle,

ed a tutte le cose,

alle piccole ghirlande

di rose.

E dovrei voler bene

solamente a Dio grande!

Perdonami, Gesù. —

 

Gesù rise cogli angeli

e rispose piano:

— Voglio bene al cielo,

voglio bene al mare,

voglio bene al sole;

voglio bene al cuore

che gode e che si duole;

e a suor Chiara ed a tutte

le piccole sorelle;

pure alle rondinelle,

ed a tutte le cose,

alle piccole ghirlande

di rose.

E voglio bene al santo,

a quel piccolo santo

che mi somiglia tanto...

Perdonati Gesù. —

 

(da «Rivista di Roma», 25 aprile 1908)

 

 


 

PER LA NASCITA DI SAN FRANCESCO

di Federigo Tozzi (Siena 1883 - Roma 1920)

 

Oggi il sole, che è nostro frate, si alza

dell'anima tuo pieno, San Francesco.

E la mattina, poveretta e scalza,

viene a sedersi all'umile tuo desco.

 

E Santa Chiara, che è di lei più bella,

va sull'uscio per un segno di croce;

poi dice: vieni innanzi, mia sorella!

E tutti gli usignoli han la sua voce.

 

(da "Le poesie", Vallecchi, Firenze 1981, p. 98)

 

 

 

LEGGENDA FRANCESCANA

di Giuseppe Urbani (L'Aquila 1877 - ivi 1946)

 

Non un riso di verde avea la terra

bianca per neve, e il Santo se n'andava,

in quel candore, chino, assai pensoso,

e lo seguiva la sorella Chiara.

A un tratto si levò: Sorella, disse,

è d'uopo che tu segua un'altra strada;

il mondo è tristo e mormora di noi.

Come potrò, fratello, abbandonarti,

Chiara rispose, se mi volle Iddio

sulle tue peste lungo il tuo cammino?

Ah, no! disse Francesco, tornerai

quando la terra sarà tutta in fiore.

Triste nel cuore, la sorella buona

baciò del Santo l'umile capestro,

e, addio, disse, fratello, e se n'andò.

Si rivolse Francesco a riguardarla;

ed ecco un'improvvisa primavera

rider d'intorno e in ogni cespo un fiore

ardere, e ovunque uno sbocciar di rose.

Disse Francesco allor: divino è il segno,

Sorella, tu sarai sempre con me!

 

(da "Poesie", Fratelli Palombi Editori, Roma 1979, p. 88)

 



 

domenica 27 settembre 2020

La poesia di Antonia Pozzi

 Fin dalle primissime poesie, che lessi in una vecchia antologia, mi rimase impresso nella mente il nome di Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938). Certamente furono i suoi versi a piacermi particolarmente, ma non posso negare che mi sorprese anche la sua vicenda umana, conclusasi col suicidio a soli ventisei anni. Dopo aver letto, e amato, le sole cinque poesie che trovai in quel vecchio libro, non esitai a cercare negli scaffali di molte librerie romane il suo nome; per lungo tempo non trovai nulla, a parte delle antologie con, all'interno, altri suoi versi che ancora non conoscevo. Soltanto nel 1998, la Garzanti fece uscire una seconda edizione dell'intera opera poetica di Antonia Pozzi (la prima, data alle stampe nel 1989, andò subito a ruba), e fu soltanto in quell'anno che riuscii, finalmente, a leggere tutte le poesie di questa nostra bravissima e sfortunata poetessa. C'è da dire che la Pozzi, fin quando fu in vita, non pubblicò alcun libro di versi; il primo volume poetico, uscì grazie ai familiari, nel 1939 (un anno circa dopo la sua morte). Un altro, ben più consistente, vide la luce nel 1943, grazie alla Mondadori di Milano; nella terza edizione (1948), le poesie della Pozzi ebbero l'onore di una prefazione firmata da Eugenio Montale. Quindi, nel 1964, uscì una quarta edizione comprendente anche alcuni inediti. Come ho già detto, soltanto nel 1989 è stata stampata l'intera opera poetica di Antonia Pozzi, che include anche altre poesie inedite pubblicate nel frattempo in alcuni volumetti.

Se è vero che la poesia della Pozzi, a volte, è stata definita ingenua o, volendo usare un aggettivo meno offensivo, naive, è altrettanto vero che tali giudizi superficiali e lontani dal vero, si basano semplicemente sul fatto che essa risulta, all'apparenza, semplicissima e totalmente priva di arzigogoli. La poetessa lombarda ha sempre preferito il verso libero a qualsiasi altro tipo di metrica (raro, si riscontra l'uso dell'endecasillabo), e nello stesso tempo, non ha mai abbracciato correnti poetiche di moda ai suoi tempi, come l'ermetismo. Il suo canzoniere o diario poetico che dir si voglia, spicca, oltre che per la semplicità, per la profondità di pensiero, per la sincerità delle diverse emozioni o sensazioni descritte e per la rara capacità di coinvolgere il lettore che si ritrova quasi spiazzato di fronte ai suoi versi delicati, istintivi e a volte commoventi. Considero Antonia Pozzi, malgrado la sua breve esistenza, una delle migliori poetesse italiane ed europee del XX secolo, e non mi meraviglia il fatto che ancora oggi, a distanza di poco meno di un secolo dalla sua scomparsa, l'interesse verso la sua poesia sia ancora vivissimo. Chiudo riportando un elenco di libri che contengono i suoi versi e, di seguito, cinque capolavori poetici nati dalla sua straordinaria inventiva.

 

 

 

 

Opere poetiche

 

"Parole. Liriche", Pozzi, Milano-Verona 1939.

"Parole. Diario di poesia", Mondadori, Milano 1943, 1948³.

"Parole. Diario di poesia", Mondadori, Milano 1964 (4° ed. con Poesie inedite).

"La vita sognata e altre poesie inedite", Scheiwiller, Milano 1986.

"Parole", Garzanti, Milano 1989, 1998².

"La giovinezza che non trova scampo", Scheiwiller, Milano 1995.

 

 


 

 

Testi

 

AMORE DI LONTANANZA

 

Ricordo che, quand'ero nella casa

della mia mamma, in mezzo alla pianura,

avevo una finestra che guardava

sui prati; in fondo, l'argine boscoso

nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,

c'era una striscia scura di colline.

Io allora non avevo visto il mare

che una sol volta, ma ne conservavo

un'aspra nostalgia da innamorata.

Verso sera fissavo l'orizzonte;

socchiudevo un po' gli occhi; accarezzavo

i contorni e i colori tra le ciglia:

e la striscia dei colli si spianava,

tremula, azzurra: a me pareva il mare

e mi piaceva più del mare vero.

 

Milano, 24 aprile 1929

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 6)

 

 

 

 

LARGO

 

O lasciate lasciate che io sia

una cosa di nessuno

per queste vecchie strade

in cui la sera affonda –

 

O lasciate lasciate ch'io mi perda

ombra nell'ombra –

gli occhi

due coppe alzate

verso l'ultima luce –

 

E non chiedetemi – non chiedetemi

quello che voglio

e quello che sono

se per me nella folla è il vuoto

e nel vuoto l'arcana folla

dei miei fantasmi –

e non cercate – non cercate

quello ch'io cerco

se l'estremo pallore del cielo

m'illumina la porta di una chiesa

e mi sospinge a entrare –

 

Non domandatemi se prego

e chi prego

e perché prego –

 

Io entro soltanto

per avere un po' di tregua

e una panca e il silenzio

in cui parlino le cose sorelle –

Poi ch'io sono una cosa –

una cosa di nessuno

che va per le vecchie vie del suo mondo –

gli occhi

due coppe alzate

verso l'ultima luce –

 

Milano, 18 ottobre 1930

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, pp. 34-35)

 

 

 

 

 

PRESAGIO

 

Esita l'ultima luce

fra le dita congiunte dei pioppi –

l'ombra trema di freddo e d'attesa

dietro di noi

e lenta muove intorno le braccia

per farci più soli –

Cade l'ultima luce

sulle chiome dei tigli –

in cielo le dita dei pioppi

s'inanellano di stelle –

Qualcosa dal cielo discende

verso l'ombra che trema –

qualcosa passa

nella tenebra nostra

come un biancore –

forse qualcosa che ancora

non è –

forse qualcuno che sarà

domani –

forse una creatura

del nostro pianto –

 

Milano, 15 novembre 1930

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 37)

 

 

 

 

LA FORNACE

 

Bambina, nelle sere di novembre

poi che sui monti c'era

la guerra

e la legna costava

assai – come il latte, come il pane –

e la nebbia pesava

gelida sulla terra,

la mamma mi portava

– per scaldarci –

alla fornace.

Riflessi di brace

tingevano l'androne nero:

rossa nel fondo

divampava

la cupola del forno.

Dall'alto un vecchio scagliava

fascine e fascine.

Giù i tegoli in cerchio

sembravano una ruota

immota

a cui fosse mozzo la fiamma.

Si arrossava

la creta al centro:

verde era ancora al margine

dove più lento

arrivava il calore.

Si sgranavano in uno stupore

d'incanto – le pupille bambine.

Il vecchio dall'alto scagliava

fascine e fascine –

Si ritornava

per l'androne nero

con un bruciore di vampa negli occhi.

Fuori, un'immensa fontana

nella nebbia lanciava

il suo getto bianco e faceva

rabbrividire –

La casa pareva

lontana,

la strada sembrava non finire

più. Era notte, era novembre,

sui monti c'era

la guerra –

 

16 settembre 1933

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, pp. 141-142)

 

 

 

 

 

MORTE DI UNA STAGIONE

 

Piovve tutta la notte

sulle memorie dell'estate.

 

A buio uscimmo

entro un tuonare lugubre di pietre,

fermi sull'argine reggemmo lanterne

a esplorare il pericolo dei ponti.

 

All'alba pallidi vedemmo le rondini

sui fili fradice immote

spiare cenni arcani di partenza –

 

e le specchiavano sulla terra

le fontane dai volti disfatti.

 

Pasturo, 20 settembre 1937

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 301)

 

domenica 20 settembre 2020

Poeti dimenticati: Franco Caracci

 Nacque a Patranna nel 1881 e morì a Mazzara del Vallo nel 1960. Lavorò sempre nel settore scolastico, come docente e come direttore didattico. Poeta, prosatore e drammaturgo, collaborò a varie testate locali, tra le quali il Giornale di Sicilia e L'Ora. Le sue raccolte poetiche, distribuite nell'arco temporale di un trentennio, mostrano una marcata vicinanza al crepuscolarismo e al decadentismo; appartenne ad una generazione di poeti siciliani che possedevano un talento raro, e che andrebbe riesaminata in modo più approfondito, poiché, rileggendo le poesie di Caracci e di altri suoi coetanei e corregionali (tra cui spicca il nome di Tito Marrone), ci si accorge di quanto questi poeti fossero partecipi dei nuovi fermenti e delle moderne correnti poetiche che caratterizzarono la letteratura italiana del primissimo Novecento. Se ciò fosse fatto, emergerebbe anche la centralità di questo poeta, decisamente trascurato dalla critica sia a quei tempi che, tanto più, oggi.

 

 

 

 

Opere poetiche

 

"Ritmi nostalgici", Tip. Asaro e Alessi, Patranna 1907.

"Campane a sera...", Sandron, Palermo 1912.

"Cigno gentile", Sandron, Palermo 1918.

"I canti della mia prigionia", Sandron, Palermo 1923.

"I canti di una piccola vita", Sandron, Palermo 1930.

"Lontananze", Priulla, Palermo 1936.

"Canti del crepuscolo", Priulla, Palermo 1938.

 

 


 

 

Presenze in antologie

 

"La poesia italiana di questo secolo", a cura di Pietro Mignosi, Edizioni del Ciclope, Palermo 1929 (pp. 75-76).

 

 

 

 

Testi

 

 

MOTIVO INCOMPLETO

 

Un'ora è trascorsa

mesta e silenziosa...

È stata una piccola corsa

quasi misteriosa...

È stata una breve rincorsa

triste, nel triste passato

che vibra a volte per poco,

un po' forte, un po' roco,

per ritornare nel nulla!

Oh, tu non intendi, fanciulla...

...ritorna il passato

su l'ali del vento

come un'ondina a la riva...

e parla: d'un lungo tormento,

d'un triste lamento,

d'un sogno, d'un canto

e d'una corsa vana

per i viali de la speranza...

e parla d'un suono

di mesta campana

e d'una piccola tela

ne l'ora dei sogni guardata:

e d'una foglia staccata

in un tramonto di fuoco,

in un tramonto di sangue:

e d'una foglia di rosa,

forse dimenticata

nel piccolo libro di seta:

piccola foglia di rosa

da l'ombra e dal tempo corrosa.

 

(da "Campane a sera...", Sandron, Palermo 1912, pp. 15-16)

 

 

 

 

DALLE MEMORIE

 

Noi ci lasciammo...

(Oh come ricordo quel giorno,

quel giorno triste di pianto!)

Eran cadute le foglie:

tutte, tutte le foglie eran cadute...

Era pallido il sole

come viso di bimba malata,

ed eran tristi i tramonti...

Noi li guardammo, ricordi?

colla morte nel cuore,

e muti stavamo: eran fredde

le anime nostre...

(povere anime morte

col morire de le foglie,

col morire dei fiori!)

 

Noi ci lasciammo...

Veniva dai monti un soffio gelido:

sembrava a volte un lamento,

a volte sembrava un accento,

un sussurrare malato

di cose cadute,

di cose perdute.

 

Noi ci lasciammo: per quanto?

per sempre, per sempre...

Fu lungo l'inverno...

più lungo de gli altri

passati d'accanto...

più lungo, più lungo...

Poi vennero i fiori,

poi vennero i lieti tramonti,

e tutto sorrise per gli altri:

ma nulla sorrise per noi!

 

Più nulla?

Perché non sentimmo

più nulla del vecchio passato?

perché non sorrise più nulla

per noi?

 

(da "Campane a sera...", 1911, Sandron, Palermo 1912, pp. 39-40)

 

 

 

 

CASETTA CHIUSA

 

Sorvolando su tutte le distanze,

al mio pensiero greve di mestizia,

s'affaccia, come tomba gentilizia,

una casetta dalle vuote stanze:

 

casetta bianca su la verde altura,

coll'orticello fra muretti bassi,

dove volgevo i miei rapidi passi,

con un sogno nell'anima sicura!

 

Alone triste, alone de la morte,

vuote le stanze, chiuse le porte!

 

(da "Lontananze", Priulla, Palermo 1936, p. 16)