domenica 5 ottobre 2014

L'Europa in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

LE PANNOCCHIE
di Siro Angeli (1913-1991)

Andando in compagnia di settembre
nel vento dei sobborghi, ad Atene,
mi sorprese a una svolta, scordato
dagli anni, un odore (non sempre
dispiacciono gli agguati). Rividi
i campi di granoturco con vene
di verde nel verde, e al palato
mi rifluiva il succo lattescente,
mentre il contadino al crocevia
tra Grecia e Carnia gettava gridi
freschi per rivendere alla gente
(«Pannocchie a una dracma») la mia
infanzia dentro quel giallo ambrato.

(Da "Il grillo della Suburra", 1975)





DA DOVER A CALAIS
di Piero Bigongiari (1914-1997)

Circoli, non più che circoli, si allargano all'orizzonte
con una tale perfezione.
Il pianto fisionomico dell'uomo
piange sull'orizzonte, lo sorveglia:
strano sorriso che piange, chi sa perché,
sulla differenza che si colma,
sulla frontiera che non esiste: è un centro
che si allontana concentrico per deconcentrarsi
e sorridere piangendo.
                                Se una riva s'allontana
un'altra riva s'avvicina. Un fiore
cade nel vuoto del vulcano in luogo di Empedocle,
ritrova il rosso scuro della fiamma magmatica anche se cade nella Manica
donato a te piccola Europa del grande cosmo che avviene poroso.

(Da "Moses", 1979)





IN BATTELLO SUI LAGHI DELL'HAVEL
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Mappe di verde,
in voi l'anima si tuffa e nuota
come la lingua sitibonda nella coppa di menta,
come la murena ebbra negli acquari della sua felicità.
Grosses Fenster, Frei Bad, cupe di fondiglio smeraldino,
riversatemi una boccia d'assenzio nel cuore!
O Wansee, voglio gustare il tuo filtro,
o Havel, fammi fradicio morto del tuo alcool cilestro!
Si salpa, fra i cigni. Il battello bianchissimo
è, un poco, il più grande fra loro.
Guardo le ombre profonde dei flutti,
l'immane foresta subacquea
che copia l'emerso paese di foglie.
Tutto è brivido liquido che trasporta.
L'anima s'increspa d'onde piccole come una laguna.
Adoro le isole minime a rabeschi verdi
quasi palme su baveri d'accademici di Francia:
e penso ad esilii, a nidi, a talami d'amache in meandri.
Rotano i mulini a vento sul filo dell'aria
orologerie enormi
del tempo e dello spazio che passa.

(Da "Versi liberi", 1913)





TOLEDO
di Raffaele Carrieri (1905-1984)

La testa piena d'icone e spine
Vado con le spade
Fuori Porta della Visagra.
Vado a Santa Maria la Blanca
Vado sul ponte d'Alcàntara.
Vado al fiume coi cani ciechi
Vado con tutte le pietre
E il Conte muore,
Il conte muore in tutte le ore.

(Da "Canzoniere amoroso", 1958)





LIFFEY RIVER
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

La Birra Guinness ha molte porte scure 
sui docks e qualche lume 
sparso in un lento 
regno di chiatte e di vagoni, 
di ruggine vagante lungo il fiume, 
dove il cigno e il gabbiano sono amici 
col petto bianco puntato contro il fango. 
Più avanti, a lato della foce, 
un prato di trifoglio nella pioggia: 
in mezzo vi s'ammucchiano le nostre 
giacche, le anime e i loro 
segreti scoloriti, le belle 
bottiglie tracannate 
da una gola tenera, feroce. 
E Cristo passa, 
astro avvolto di nebbia o nido 
per le stanche farfalle che partono da noi, 
dolce luce d'olio. 

(Da "Partenza da Greenwich", 1955)





SASTAVCI
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Prendi i miei occhi, prendi i miei occhi, Sastavci!
perché ti occorre un occhio umano
per specchiare le tue tenere nebbie,
gli arcobaleni che si levano in volo
come farfalle sul tuo gran fiore d'acqua
dai petali eternamente riversi.

Prendi i miei orecchi, prendi i miei orecchi, Sastavci!
A che pro la tua voce senza ascolto,
tanta invitta ostinazione di musica,
se nessuno conta le tue brezze e i tuoi angeli,
nessuno trema alla tua ira o si esalta
al rintocco delle tue fonde, invisibili campane?

Eppure no, tu non vuoi specchio né conchiglia!
È terribile il vuoto lucente
dal quale non riusciamo a emergere per te.
Ecco, ci allontaniamo, ed è come se mai
occhio né orecchio creato ti fosse passato davanti.

Nulla ha turbato la tua solitudine.
E invece noi ce ne andiamo pensosi,
ravvisando nel nostro stesso cuore
l'abisso e il canto di Sastavci.

(Da "Terra senza orologi", 1973)





LA DOMENICA DI BRUGGIA
di Marino Moretti (1885-1979)

Chinar la testa che vale?
E che val nova fermezza?
Io sento in me la tristezza
del giorno domenicale,

del giorno crepuscolare
nel quale l’anima prova
il bisogno d’una nuova
solitudine, e d’andare...

e di andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia!

Qui nessun ti vuol più bene,
qui nessuno ti vuol più,
e tu, dolce anima, e tu
va pur dove ti conviene:

ti conviene fare un viaggio
per cacciare un poco l’uggia
ed andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio.

          *

Oh dolcezza del mio cuore,
dei miei sensi un poco stanchi!
Vanno i cigni, i cigni bianchi,
van sul pio Lago d’Amore;

van gli uccelli frettolosi
frettolosi sui canali,
vanno insieme, uguali uguali,
sotto cieli freddolosi;

nel mattino che par sera,
tra la nebbia fine fine
vanno insieme le beghine
le beghine alla preghiera;

nel mattino che par sera,
vanno unite unite unite
le romite le romite
le romite alla preghiera,

vanno là presso l’altare
del dolcissimo convento
mentre io sento io sento io sento
un desio folle d’andare...

sì, di andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia.

          *

Oh dolcezza del mio cuore!
Tra la nebbia fine fine
vagan meste pellegrine
presso il pio Lago d'Amore,

e guardando il bel paese
che di nebbie ancor s'ammanta
pregano pregano Santa
Elisabetta ungherese!

Lenta lenta lenta va
nei canali l'acqua verde
e co' suoi cigni si perde
nella grigia immensità,

nell'eterno mezzo lutto,
mentre il giunco tristemente
s'è chinato a bere il flutto
della placida corrente.

Il tintinno d'una folla
di campane fa tremare
lievemente la corolla
d'uno smorto nenufare;

scioglie il salcio la sua chioma
e il suo pianto nel canale
e diffondesi un aroma
pio d'incenso e di messale;

s'alza il tiglio da una corte
a guardar l'acqua che va
nella grigia immensità,
nelle braccia della morte:

laggiù in fondo, nelle amare
solitudini ove anch'io
sarò un dì col mio desio
implacabile di andare...

sì, di andare fino a Bruggia
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia.

          *

Nel viottolo dai tetti
rossi e azzurri, lustri e bassi
fanno i lor piccoli passi
verso il ponte i zoccoletti;

nella piazza del Trecento
verso il pio Lago d'Amore
i mantelli di due suore
vanno via gonfi di vento;

in stanzette linde e tristi
presso tende di percalle,
sotto mani ossute e gialle
sboccia sboccia il punto mistico,

(i giacinti al balconcino
che s'affaccia sul canale,
i gerani al davanzale,
le candele all'altarino,

e sul tombolo i profili
di Suor Anna e di Suor Rita,
e il passare delle dita
intreccianti ratte i fili);

sotto aguzzi e lustri tetti,
sotto mani ossute e gialle,
sboccian facili i merletti
come i fiori dal percalle,

e han l'odor di sacrestia
della tepida Casina,
sotto un guardo di beghina,
sotto un guardo di Maria.

Ma poiché scende la sera
lascian tacite il lavoro
le beghine, e vanno in coro
vanno in coro alla preghiera;

e poiché scende la sera
vanno unite unite unite
le romite le romite
le romite alla preghiera;

vanno là presso l'altare
del dolcissimo convento
mentre io sento io sento io sento
il desìo d'andare... andare

sì, sì andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia.

          *

O dolcezza del mio cuore,
de' miei sensi un poco stanchi!
Vanno i cigni, i cigni bianchi
sovra il pio Lago d'Amore;

lenta lenta ancora va
nei canali l'acqua verde
e co' suoi cigni si perde
nella grigia immensità:

e sull'umile città
che dal tempo s'allontana
piange piange la campana
dall'alto del Beffroi;

e nell’aria che s’annera
al cader del vecchio giorno
piangon essi tutt’intorno
i "carillons" della sera...

È in questo crepuscolare
giorno che l’anima prova
il bisogno di una nuova
solitudine, e di andare...

e di andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia,

e di far questo viaggio
per cacciare un poco l’uggia,
fino a Bruggia, fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio!

(Da "Poesie 1905-1914", 1919)





TOLLBRIDGE
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

A un sole di salnitro grigio di maestrale
i gabbiani di Tollbridge
urlano sotto l’arco di ferro del Sognefjord
che ripete schemi di fughe
all’aria lanciata sui tralicci
sottili. Il Nord salta sulle isole
di pietra barbara, istiga i suoi mostri
con immagini vere, spreme il succo
dei frutteti di mele nel suo
lungo giorno notturno. Luce
uniforme sui colori delle case di legno
e le siepi di filo a raggi di spine.
Quanto mio futuro posso contare
sullo schermo di sigle
impassibili, di apparenze!
Da questo eterno incontaminato,
in uno spazio di macigni, di alberi
norvegesi, non grido di paura
alla natura che precipita
mentre cerco un tempo senza forma.

(Da "Dare e avere", 1966)





DALL'OLANDA: VOLENDAM
di Vittorio Sereni (1913-1983)

Qui acqua cent’anni fa
- ripeteva la guida Federico -
oggi polder.
                 Vita
tra polder e diga, qui c’è posto
per la proceazione solamente
e la difesa della morte. Questo
dicono le facce arrossate dal freddo
fuori dalla messa cattolica 
a Volendam, la nenia 
del vento volubile tra i terrapieni.
L’amore è di dopo, è dei figli
ed è più grande. Impara.

(Da "Gli strumenti umani", 1965)





DALLA TORRE EIFFEL
di Sergio Solmi (1899-1981)

Nascevi mentre declinava il secolo,
sorgeva la speranza. Era la dolce
Europa. Sterminate
oscure moltitudini discese
in proscenio, tumultuando urgevano
all’avvenire. Gli ingegneri armati
di folgori violavano
la notte millenaria. Ma nei calmi
viali del Campo di Marte frusciavano
brillanti limosine, in bianco e rosa
passava Odette de Crécy. 
                                     Eri sempre
la dolce Europa, eri la speranza.
Oggi è ancora la città enorme a picco
- neri edifici, rosse insegne -, e il chiaro
anello della Senna. Ma, su questo
vertice estremo
di ninnolo gigante, ci sentiamo
gli sconfitti superstiti
raccolti intorno all’ultima bandiera.
Per te, in un campo e l’altro, combattemmo
e ti perdemmo alla fine. Due volte
in sangue faticoso
si volse la speranza. Oggi si spostano
le mire, il fior di fuoco si dirama,
altre isole l’ambiguo mare svela,
altri nomi s’accendono, altri mondi.
Ma noi siamo feriti, e vecchi, e stanchi.

Ecco, nel cielo occiduo balena
la perenne battaglia inesauribile
si fa e sfa la cangiante
geografia dell nubi. A noi ne giunge
solo un lamento vano... o lo stridio
della gabbia che scende lungo i cavi,
lungo gli aerei dedali d’acciaio
incrociato, lungo la curva zampa
scheletrica d’insetto «liberty».

(Da "Poesie complete", 1974)

domenica 28 settembre 2014

Poeti dimenticati: Manlio Dazzi

Tito Manlio Dazzi nacque a Parma nel 1891 e morì a Padova nel 1968. Partecipò alla Grande Guerra come volontario, fu professore e bibliotecario. Svolse anche l'attività di critico letterario, narratore e poeta. Pubblicò varie raccolte di versi che mostrano una iniziale tendenza al crepuscolarismo ed una finale simpatia per la poesia neorealista.




Opere poetiche

"I pensieri", Albrighi e Segati, Roma 1916.
"Le prigioniere", Treves, Milano 1926.
"In grigiorosa", Alpes, Milano 1931.
"I Caduti", La Prora, Milano 1935.
"In riva all'eternità", La Nuova Italia, Firenze 1940.
"Canto e controcanto", Per gli Amici, Firenze 1952.
"Stagioni", Neri Pozza, Venezia 1955.
"Erano già voli di colombe", Cà Diedo, Venezia 1961.





Presenze in antologie

"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp.CCXI-CCXIV).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 713-718).
"Le notti chiare erano tutte un'alba", a cura di Andrea Cortellessa, Bruno Mondadori, Milano 1998 (p. 397).




Testi

MULATTIERA FIN

Discese Fin, sdegnoso della via,
per scorciatoie fra rupi, sonoro
del bastone puntito e delle scarpe
quadrate e imbullettate. E alcuno disse
che la sua promozione era alla fine
d'una strada sicura e propria e buona
dalla Brigata al fondo della valle.
Fin guardò il monte, lo palpò, lo corse
per quella costa, e la strada vi nacque,
come vi fosse stata dentro, in poco.

Bella stradina, lungo una parete
del verde valloncello, e sinuosa
con i seni del monte, e valicante
gli spacchi e i rivi con le pietre a concio
in ripide scarpate, e all'improvviso,
all'improvviso bianca di pietrisco
fra rupi rotte e spaurite, o bruna
di buona terra, che certe radici
dalla spalletta parevan chiamare
scortecciate «ahimè, mamma». E sopra, un'ombra
di nocciuoli selvatici e di spini.

Il Generale fu contento. Allora
in sommo della strada ecco che sorge,
strumento di tortura, un mural bianco
con una bianca tavoletta in cima.
- O Maresciallo, un nome al tuo viale. -
E alcuno offerse un lapis rosso-blu.
S'arrampicò il Maresciallo, e con mano
di bimbo MULATTIERA appena scrisse,
che - un fischio in aria - il poverino cadde,
come una rondine uccisa nel volo,
stecchito a mezzo la sua bella strada,
le gambe aperte e le braccia, per tutta
la sua larghezza. - Oh, non è defilata -
si lamentava alcuno. E il Generale
raccolse la matita, allungò il braccio,
e aggiunse nella tavoletta: FIN.

(Da "I Caduti")


sabato 20 settembre 2014

La prima fase poetica di Giorgio Bassani

Certamente Giorgio Bassani, come scrittore, è diventato famoso per i suoi romanzi e i suoi racconti, non per le sue poesie. Ciò nonostante, a mio parere i suoi versi (che scrisse già dalla sua giovinezza) sono di valore eguale, se non superiore, alle sue prose. Questo vale soprattutto per il primo ventennio (che va grosso modo dal 1942 al 1962) di produzione poetica dello scrittore ferrarese, ovvero da Storie di poveri amanti (Astrolabio, Roma 1945) a L'alba ai vetri (quest'ultimo, pubblicato da Einaudi nel 1963, chiude, riepilogando le precedenti raccolte, la sua prima fase poetica). I versi di Bassani, molto belli e originali, devono non poco anche ad altri poeti che evidentemente lo hanno influenzato ed ispirato. Sulla rivista Paragone, nel 1956, e successivamente come poscritto alla raccolta citata L'alba ai vetri, Bassani parlò delle sue poesie dichiarando quali fossero stati i suoi punti di riferimento; ecco, per meglio chiarire, l'inizio dell'articolo:

"Nel 1942 il primo impulso a scrivere versi mi venne, più che dalla vita e dalla realtà, dall'arte, dalla cultura. Mi avevano colpito le poesie di due vecchi compagni d'università: Francesco Arcangeli e Antonio Rinaldi; e quelle di Pompeo Bettini, che Benedetto Croce aveva ristampato nell'inverno precedente. Da Laterza seguivo, oltre a ciò, i miei amici storici dell'arte - lo stesso Francesco Arcangeli, Giuseppe Raimondi, C. L. Ragghianti, Cesare Gnudi, Giancarlo Cavalli - sulle tracce dei pittori ferraresi e bolognesi del Cinque e Seicento: cosicché la campagna tra Ferrara e Bologna, che il mio treno percorreva quasi quotidianamente, mi mostrava attraverso i colori, intrisi d'una luce come velata, di quelle antiche pitture. La primavera del '42! Stalingrado, El Alamein, e il futuro incerto, oscuro... Eppure, nonostante tutto, la vita non mi è mai più apparsa così bella, così bella e struggente come allora". 

Ai poeti citati da Bassani, che molto hanno contribuito al fare poetico dello stesso, sarebbero secondo me da aggiungere anche alcuni corregionali come Gaetano Arcangeli, Riccardo Bacchelli, Attilio Bertolucci e, per la presenza di una sottile vena malinconica, Marino Moretti.
Tornando alla raccolta intitolata L'alba ai vetri, si nota una certa severità dell'autore nel selezionare i versi fino ad allora scritti e pubblicati. Vi sono infatti altre poesie che non figurano qui, di indubbio valore. In conclusione voglio trascrivere due poesie che fanno parte di questo volume.





ARS POETICA

E non resti di me che un grido, un grido lento,
senza parole. Nessuna mai parola: ché premio
m'eri, o frana celeste ed intima, tu sola.
Nel cielo senza tremito, quest'onda, quest'accento...

(da "L'alba ai vetri", Einaudi, Torino 1963, p. 66)


***


CANZONE

Tu che un profumo richiami per me
dal nulla tutti i fiori
che negli anni hai sommesse ombre distrutti,

distruggimi, purché
ogni sera, a un'addio d'esuli cori,
io ritorni dal nulla per chi m'amò a rivivere.

Di nulla incoronato, fammi per sempre re
di chi m'ha amato.

(da "L'alba ai vetri", Einaudi, Torino 1963, p. 67)

giovedì 18 settembre 2014

Notti

"La notte è fatta per amare", recita un famoso proverbio; un altro invece dice: "La notte è fatta per sognare". Tutto vero, ma soprattutto la notte, almeno per gli esseri umani, è fatta per dormire. E allora sono poche le notti da ricordare; le poche che lo sono, quasi sempre non hanno nulla di bello.
Con la profonda, misteriosa notte termina la serie di poesie dedicate alle parti del giorno.



NEL GRAN SILENZIO DELLA NOTTE
di Domenico Oliva (1860-1917)

Nel gran silenzio della notte e sotto 
La vasta luce della luna s'odono 
Voci lontane: 
E son voci festose,
Canti d'ebbri, gridii di donne e strane 
D'allegrie rumorose 
Interrotte folate. 
Ma tranquillo è il bastion candido e i candidi 
Abitatori suoi sono tranquilli: 
Le magre piante, grate 
Alla lunar dolcezza, 
Mostrano la bellezza 
Dell'ombre lunghe e le grazie ridenti 
Dei contorni lucenti. 
Sempre sen riede questa 
Fulgida festa 
Di cose e d'orizzonti: 
Per quei folli che cantano lontani 
Ritonerà domani 
La breve ora d'oblio? 
Diman forse nemica 
Li attenderà la sorte 
Ovver la morte: 
E, immaginando tremebondi Iddio, 
Ei, renitenti invan, procomberanno 
Nell'infinito vortice 
Lividi e soli, 
Ove del nulla i voli 
Rapidamente avvolgonsi.

(Da "Poesie", 1896)





NOX 
di Giovanni Cena (1870-1917)

L'anima mia piena di cose oscure 
brancola vagabonda: come un cieco 
in sè guarda, si ascolta e parla seco 
stessa parole a penetrarsi dure.

Sfioranla a volo le capigliature 
buie dei sogni là dov'io la reco 
e fra 'l notturno vento ella ode l'eco 
di sordi passi su le sepolture. 

L'anima mia profondi esseri cova. 
Su lei sovente chino e senza fiato 
li sento nella notte abbrividire.

E senza fine attendo che si mova 
e schiuda il seme in lei dell'avvenire. 
Muta la Morte vigila in aguato. 

(Da "In umbra", 1899)





NOTTE ALLA FIOCINA
di Emilio Agostini (1874-1941)

Preparami una fiòcina dai denti
fini, dall'asta leggera, ma lunga
tanto, che il fondo rapida raggiunga,
quando con braccio robusto io l'avventi.

Verrò stanotte con te per pescare.
Non c'è di luna più che tu non chieda!
Con la fiòcina approntami la tieda,
tremula tieda per alluminare.

Ho bisogno dell'acque a un cielo aperto;
l'anima d'una pace oscura ha voglia.
Ho da scordare un tormento e una soglia,
dove, prono a due fermi occhi, ho sofferto.

Muova a notte la tua barca d'un remo.
Presso le Falsebrache, oltre la villa,
tra le canne sarò. L'ora è tranquilla;
ma sarò triste come quando gemo.

Approderai senza faro, pian piano;
salirò, come un'ombra, sulla barca;
d'un peso oscuro la sentirai carca;
la spingerai, fantasima tuo, strano.

Usciremo dagli argini ai canali,
e dai canali a libere acque lente.
Dall'Argentaro con le sonnolente
nubi, discenderanno ombre e lievi ali.

E in lontananza, oltre boscaglia e duna,
stando le nere folaghe a vegliare,
la voce chiamerà lunga del mare,
e all'orizzonte chiamerà la luna!

Pescatore alla fiòcina, stanotte
portami con la tua barca d'un remo.
Tu non temere, s'io già più non temo,
i singhiozzi di tre lacrime rotte.

Son ritornato tranquillo; nel cuore
libero, un calmo spirito mi suona.
Parti. Se vuoi, remigando, ragiona;
conta del tuo dolore e del tuo amore.

Io son contento che niuno mi ascolti,
sono contento d'un amor perduto;
sono contento di rimaner muto,
se tu canti di cuori arsi e travolti.

Canta. Le tiede alluminano errando,
quali stelle per nebbie umide al giorno.
Vagabondi qua là fanno ritorno,
canti soavi d'un sospirar blando!

Rispondono. Dall'acque ampie è risorto
il palpito che fa l'animo lieto.
Getti l'occhio e la fiòcina, e il segreto
della forza ch'è in te, spande conforto.

Confortano le tue notti serene!
Tacite l'acque e illumina la luna.
Si rinnovella nel cuor la fortuna,
con le speranze, con l'audacie piene...

Le speranze e l'audacie, ecco, dal pianto
brillano ancora e amor triste si affonda.
Splende con l'alba, sull'acqua senz'onda,
nuovo un raggio. Nel cuore agile è un canto!

(Dalla rivista «Nuova Antologia», luglio-agosto 1908)





TORBIDA, LA NOTTE CALA
di Adolfo De Bosis (1863-1924)

Torbida, la Notte cala,
con un brivido, da l'arco
del cielo. - Non odi l'ala
sua rader l'ombra del parco ? 

Non trema vetta né stelo:
e l'anima perchè trema? 
Una tristezza suprema
fluisce dal muto cielo,

simile ad un tardo fiume
che tragga fra cupe rive
senza né rombo né lume
le vite nostre malvive.

E ne la notte silente
taluno (o il Tutto?) a ginocchi,
da' suoi smisurati occhi
piange, inconsolabilmente.

(Da "Amori ac Silentio e Le Rime sparse", 1914)





NOTTI FILTRATE
di Mario Carli (1888-1935)

3
Che m'importa se il cielo m'ha guardato seriamente senza batter ciglio? Che m'importa se anzi quei tre cigli di nerezza sulle sue tre stelle più vistose mi hanno ammonito che bisognava fermarsi sotto una finestra qualunque, tremando con discrezione? Dimostratemi che la Via Lattea non è il principio di un'immensa putrefazione, e in tal caso io seguiterò a tremare fino alla catastrofe. Ma, per ora, ho ragione io. Ho ragione, ho ragione, ho ragione! Dal momento che non è possibile passare ciascuna stella a fil di logica, dal momento che le più giovani e pazzerelle amano i tuffi nel buio, anche se ciò frutti agli uomini insperate fortune, dal momento che la luna è un'ipotesi arabescata dai rifiuti dell'ideale, permettete ch'io zufoli in barba ai poliziotti, e non venitemi a rammentare tutte le rose che ho colto, tutti i profumi che ho versato, tutte le torte che ho sgretolato, perché allora (oh allora sul serio!) sarò costretto a tossire con intenzione.

(Da "Le notti filtrate", 1918)





LA NOTTE
di Ugo Betti (1892-1953)

Mammina, quante
Dolci piccole stelle!
Ma le piante
Sono come belve
Accovacciate! Un'ombra si muove
Piano piano....
Dove sei, mammina?
Prendimi per mano.

Un passo leggero
Ci segue. Uno sconosciuto nero
Muove le fronde....
Si nasconde
Come per farci sgomento!
È il vento,
Non è vero, mammina? È il vento.

Le stelle sono lontane lontane....
Sembrano carovane
Sperdute nell'oscurità....
E si cercano invano!
Di là da le stelle, che ci sarà?
Mammina, prendimi per mano.

(Da "Il re pensieroso", 1922)





NOTTE A CORTINA
di Luigi Fallacara (1890-1963)

Ch'io mi ricordi di questa notte
calmata
dal velo di luce che sorgente luna
tra gli astri posa,
e veda in cima alla Tofana azzurra
splender la neve tra remote stelle.

Ch'io mi ricordi di questa notte
misurata
dall'Orsa che continua, verticale
fulgore, il violetto spigolo
di Punta Fiammes.
E facile e vicino al mio sospiro
senta l'eterno.

(Da "Confidenza", 1935)





NOTTE DI GRAZIA
di Massimo Spiritini (1879-1963)

Da campanili e culmini fuggito è il giorno;
si risucchia la ténebra
le cose intorno.

Tonda la luna naviga
nel ciel d'opale,
fruscia appena qualche alito:
prece che sale?

Non cirro in vista o nuvola;
Dio gli astri accende.
Qualche razzo precipita:
grazia che scende?

Zitti! Veggenti e ciechi,
zitti! Non destiamo echi!

La morte in queste sere
passa senza vedere.

(Da "Poesie proibite", 1948)





LA NOTTE
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Tante notti sono cadute sul mare
che il mare è nero
e sempre passa sul suo passato
e sempre si vede passare,
aria, vento, destino leggero
di quanto profondo non vede.
C'è chi ti crede
come lui passeggero
d'un mondo di fiato,
ma tu sei dentro a annottare
dentro il tuo cuore nero.

(Da "La forza degli occhi", 1954)





NOTTE DI LUGLIO
di Piero Bigongiari (1914-1997)

Stanotte ho udito nell'insonnia
il primo rauco grido della rondine,
filtrava appena cinerina l'alba
come una tempesta limacciosa.
Anni, miei anni, è questa la maturità,
un rigogolo se la ripete sgranocchiandola
in un giardino dietro casa,
più in là subito il gallo ricomincia
sotto una nuvola gonfia a cantare.

Sarà pioggia o la luce solita
che i mozzi veloci assumono
tra il prillare dei raggi delle ruote?
La nostra carrozza ci porterà
ancora verso sera al lento fuoco
delle nuvole sopra le Cascine,
ai lecci, cupo ricordo del tempo,
alle ombre dorate di là, cappe rance
che non muovono sulla terra.

Felicità di piombo che trasali
dagli inferi, ipocrita felicità,
squarcia la tua parvenza solare
mostrati quale sei, ipocrita
felicità, assito tarlato,
grido desolato dell'assiolo nel folto,
vento impietrito all'orizzonte, sassi
della Calvana, e voi attendamenti
andati in fumo dall'azzurro, monti.

Al ritorno le luci sulle orate,
l'odore del pesco tra i vichi,
che libertà di mare tra gli scogli...
Pregate, ultime immagini, per noi,
ora e nell'ora della nostra morte.

(Da "Il corvo bianco", 1955)





LA NOTTE VIENE COL CANTO
di Mario Luzi (1914-2005)

La notte viene col canto
prolungato dell'assiuolo,
semina le sue luci nella conca,
sale per le pendici umide, trema
un poco. La forza in lunghi anni
acquistata a soffrire viene meno
e la piccola scienza si disarma,
il sorriso virile
non ha più la sua calma.

Tu chi sei 
che aspettavi invisibile, appostata
a una svolta dell’età
finché fosse la tua ora? Ti devo
questo tempo di gratitudine
e d’altrettanto dolore.

Ed ora l'inquietudine s’insinua, 
penetra queste prime notti estive,
invade il muro ancora caldo, segue
il volo delle lucciole sulle aie,
s’inselva nelle viottole ove a un tratto
nell’abbaglio dei fari la lepre saetta.

Cara, come ho potuto non intendere?
La vita era sospesa
tutta come questa veglia.
C’è da piangere a pensare
come ho sciupato questa lunga attesa
con tante parole inadeguate,
con tanti atti inconsulti, irreparabili,
e ora ferito dico non importa
purché il supplizio abbia fine.

«La salvezza sperata così non si conviene
né a te, né ad altri come te. La pace,
se verrà, ti verrà per altre vie
più lucide di questa, più sofferte;
quando soffrire non ti parrà vano
ché anche la pena esiste e deve vivere
e trasformarsi in bene tuo ed altrui.
La fede è in te, la fede è una persona.»

Questa canzone non ha più parole. 

(Da "Il giusto della vita", 1960)





NOTTE CHE INGIGANTISCI IL TERRORE
di Angelo Maria Ripellino (1923-1978)

Notte che ingigantisci il terrore,
notte che mi togli il fiato,
notte che mi sòffochi, notte beghina
per troppo spavento, cestello di gelse more,
madornale patibolo alzato
dalle frasi spavalde del giorno,
carro funebre, horrido palco,
su cui balletta la morte, sfoggiando
la sua bellezza glaciale, il suo torvo,
clownesco biancore.
Notte che inàlberi torte d'anniversario
con lunghi ceri di chiesa: sognare
buccellati e pastiere porta male.
C'è sempre un coro di scialli neri,
che mi trascino dal fondo di un'isola.
Chicchi di lacrime su un catafalco,
botte da orbi su un teatro,
sconcezze di garzoni fornai.
Io non faccio il gradasso, io sono modesto,
levigato come uno charmeur di colombe,
non sono una frasca e nemmeno una civetta
e nemmeno un fracassa né un sangre-y-fuego,
mingherlini è il mio nome, io ricevo
con riverenze umilissime e senza sussiego,
io non dò feste, non fumo, non bevo,
mi sforzo di non attirarla con troppo rumore,
di non provocarne il rancore, ma lei
verrà di notte come un ladro,
senza dire nemmeno: «Chi è di scena?»
Ogni gesto è il mio ultimo gesto,
un sì sì sì da fraccurado,
un continuo partire di treni.

(Da "Sifonietta", 1972)

giovedì 11 settembre 2014

L'esoterismo nella poesia italiana decadente e simbolista

Le dottrine esoteriche (che comprendono la magia, la religione e l'alchimia) sono al centro di svariate composizioni poetiche dei simbolisti; d'altronde se si pensa che il simbolismo poetico nasce come ricerca del "linguaggio di rapporti simbolici" e della "magia verbale", e il poeta, stando al pensiero dei simbolisti, è l'unico essere in grado di decifrare i misteri presenti nel segreto linguaggio della natura, la pratica esoterica diviene una conseguenza inevitabile. Leggendo i versi dei nostri poeti che si potrebbero definire "esoterici" o "tendenti all'esoterismo", ci si accorge di quanto risultino ostici alla comprensione. È come se il poeta, divenuto vero e proprio iniziato, scriva con un linguaggio ermetico, che soltanto pochi prescelti possono capire. Si tratta, alla fine, del poeta-sacerdote che si rivolge ad altri poeti-sacerdoti o comunque a poeti-discepoli, escludendo quindi tutti gli altri lettori di poesia. Anche i riti esoterici, più raramente descritti da questi poeti, non possono essere compresi dalla massa, ma soltanto dagli adepti.



Poesie sull'argomento 

Carlo Basilici: "Il Canto Nuziale" in "Dai poemi" (1904).
Ricciotto Canudo: "La Metamorfosi" in «Poesia», febbraio 1906.
Enrico Cardile: "Il canestro" in "Sintesi" (1923).
Girolamo Comi: "Luce di lettere..." in "Poesie (1918-1928)" (1929).
Raoul Dal Molin Ferenzona: "Entreremo tra poco a mani congiunte" in "Ave Maria!" (1929).
Alessandro Giribaldi: "La Evocata" in «Il Secolo XX», dicembre 1897.
Arturo Graf: "L'elisire della vita" in "Medusa" (1990).
Gian Pietro Lucini: "L'ora morbida" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).
Mario Morasso: "Il varco" in "I Prodigi" (1894).
Arturo Onofri: "Osanna al corpo portentoso, aperto" in "Terrestrità del sole" (1927).
Aldo Palazzeschi: "Tempio serrato" in "Lanterna" (1907).
G. A. Sanguineti: "Messa nera" in "Canzoni perverse" (1913).
Emanuele Sella: "Excelsa visio" in "L'ospite della sera" (1922).
Agostino John Sinadinò: "L'Ara d'Apolline" in "Il Dio dell'attimo" (1924).
Domenico Tumiati: "L'idolo" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Teofilo Valenti: "Estasi e Trasfigurazione" in "Lo Specchio e la Rosa" (1921).
Mornor Yadolphe: "Fosforescenza" in "I Nauti del Sogno" (1929).
Remigio Zena: "Domino bianco" in "Olympia" (1905).



Testi

EXCELSA VISIO
di Emanuele Sella

(A torno a Sé quell'Una una corona
di nove lucentezze liliali
umile aduna... Ella ha le braccia†in†croce:
nove candidi gigli verginali
cantan laudi aromali a viva voce.
Son nove stelle che alla sua Persona
un giubilo d'aromi ìnnan così
tremebondi che sembrano lamenti...
...Tacete, o stelle! ed anche voi, silenti
profumi che i vènti alitano, ...sss...

Con un'alterna musica d'idee
a tre per tre recingono Colei...
...Tacete, o stelle! o muti astri, silenzio!...
...Colei che adoro. «In Dio tu certo sei»,
spirai, tacendo, «sei nel Suo Silenzio».
...O Simboli, svanite!... «Nove Dee,
sacri aròmati cantano per Te.
O mia Dolcezza! ecco, in un balbettio
d'astri si frange il grido mio... o Dio...
L'Ineffabile spira su di Te».

...E non sapevo che la mia Dolcezza
- miele di speciosissime parole
fiorite nel giardino delle stelle
all'intima carezza di quel Sole
che ingemma i gigli della luce e svelle
dall'ideale talamo l'ebbrezza
paradisìaca della Sua Virtù -
non sapevo che quella Leggiadria
aveva eletto, a Madre Sua, Maria
per divenir sorella di Gesù).

(...Vertigine! dilegua in un fluidico
delirio il grido mio e attinge i culmini
che nove volte obnùbila l'austero
Silenzio Angelicale: umile tanto
che, con la più veloce ala del canto,
a pena lambe i gradi del Mistero
ov'Egli regna: Santo Santo Santo).

(Da "L'ospite della sera")



martedì 9 settembre 2014

Sere

Quante sere passate in casa davanti alla TV! Quante altre trascorse sul posto di lavoro! Ma per ricordare le sere migliori occorre una volta di più andare a cercare nei tempi lontani. Allora tornano alla mente quelle sere trascorse in famiglia (quando esisteva ancora), quelle con i pochi veri amici, quelle con la fidanzata (quante promesse e quanti progetti costruiti insieme!) e, soprattutto, quelle dell'infanzia, quando la comparsa in cielo della luna e delle prime stelle facevano immaginare altri mondi, altra vita (quanto diversa da quella reale!)



PREGHIERA DELLA SERA 
di Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini, 1845-1916)

De’ miei semplici padri antico Iddio, 
        Se vana ombra non sei, 
Dio di mia madre in cui fanciullo, anch’io 
        Innocente credei: 

Se pur tu scruti col pensiero augusto 
        De’ nostri cori il fondo, 
Se menzogna non è che tu sia giusto 
        Con chi fu giusto al mondo,

Guarda: dell’agonia patir gli orrori 
        Ogni giorno mi tocca: 
Guarda l’anima mia di che dolori 
        E di che fiel trabocca! 

Abbrevia tu, se puoi, le maledette 
        Ore del mio soffrire, 
Avventami, mio Dio, le tue saette: 
        Mio Dio, fammi morire! 

(Da "Postuma", 1877)





SERA DELLA DOMENICA
di Sergio Corazzini (1886-1907)

Ora che li organi
di Barberia singhiozzano al Crepuscolo
li ultimi balli e le ultime canzoni
anche una volta, quasi una paura
folle di rimanere
soli nell’imminente ombra li tenga;

ora che i poveri
amanti hanno sepolta
nel cuore, senza piangere, la piccola
loro felicità domenicale,
e vanno muti
per il noto viale
al convegno dell’ultima tristezza;

ora che il pianto in maschera
di Sorriso
affetta ancora un’aria disinvolta
prima che scada il facile noleggio
dell’abito di gala;

ora che ne’ conventi e ne’ collegi
abbassano le lampade,
asciugano le lagrime,
e s’imagina che nel Paradiso
ogni giorno sarà
domenica;

ora che nei postriboli
le femine si lasciano baciare
cantando
il breve elogio funebre
della verginità;

il Poeta, ebro di morte,
viene a patti
con la Disperazione
che gli offre il domani con tutte
le sue piccole ire sorde,
le sue facili rassegnazioni,
mentre gli ride in faccia
perché non seppe ancora
morire di fame!

(Da "Libro per la sera della domenica", 1906)





SERA
di Arturo Graf (1848-1913)

Dalla chiesetta alpestre
Giunge il clamor dell’ora:
Al ciel che si scolora
Olezzan le ginestre.

Una quïete stanca
Scende implorata ai vivi:
La luce ai campi, ai clivi
Gradatamente manca.

Un vertice selvaggio,
Scabra, sassosa mole,
Riceve ancor del sole
Il moribondo raggio;

E sul pendio, raccolti
Dentro un recinto breve,
Sotto la terra greve
Riposano i sepolti.

Un divino silenzio
Tutte le cose ammanta,
E l’anime rincanta
Beverate d’assenzio.

Solo, tra l’erbe, il grillo,
Salutando la sera,
Scande la tiritera
Del suo gracile trillo;

Mentre dall’erme lande
Il mite odor del fieno
Sotto il cielo sereno
Lento s’eleva e spande.

Immortale favilla,
Nitida gemma ardente,
Espero in occidente,
Là, sulla selva, brilla.

In quell’innamorato
Lume il mio sguardo mira;
L’anima mia delira
Risognando il passato.

(Da "Rime della selva", 1906)





SERA D'INVERNO
di Mario Novaro (1868-1944)

Nell'aria fredda sottile
è un sentore d'arancio
che punge il cuore;
il mare nell'aria lieve invernale
à un suono più chiaro
più prossimo all'anima.

Un fuoco arde languido lontano,
là donde il sole,
oltre il mare,
s'è dileguato:
e sopra il rosso e giallo fulgore
stendonsi larghe fasce livide.

Perché rumorose strade dorate,
fioretti di bimbi con lor giuochi e gridi,
perché mi arridono ora?

Sulla trama degli odori
come pronti
rifioriscono i ricordi!

È più bella la vita vissuta
o più bella è
nel ricordo o nel sogno?

Oh questo sentore d'arancio
nell'aria pungente del vespro,
come ricerca l'anima!

L'anima che vorrebbe
struggersi a un desio che non cada,
e chiede se non vi sono
dolori più grandi più degni nel mondo,
e se à dunque la pena e il dolore un fondo?

Per un bene certo e vero
tu non daresti la vita?
ma v'è dunque nel mondo
questo polo dell'anima,
questo cielo dello spirito?

O perché l'anima umana
dentro la ruvida scorza
cela l'indomito ardore
che pronto, se raro, divampi?

Qui, qui, a noi accanto, amore,
pronto è il cómpito:
brucia e rivivi!

Pure, pure (osi dirlo?)
dolce la notte senza ombra di sogno,
dolce dormire, nel gran silenzio vanire,
non essere più,
non essere nulla,
non essere mai stato:
non ànno i savi sentito così
nei tempi lontani?

Ma come spegner potrebbesi
l'occhio insonne dell'essere,
o svellere la radice
dell'eterno desio?

(Da "Murmuri ed echi", 1912)





COME CENERE
di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

Come cenere viola
La sera monotona cade
Lungo l'abbandonate strade.

Dai seni de' cieli ove l'anima vola
Sperduta,
Una tremula stella sola
Ti saluta
Ti consola.

(Da "Il cuore nascosto", 1920)





SERA SUL PO
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Quell'uomo che pesca, intento,
nel Po, non s'avvede
che tutto intorno gli cede
frana, si disfà, lento?...
il ponte, la riva, il colle...
Superga, come un fiore, là,
su un cumulo molle
d'azzurro!... E il fiume, che va,
se la porta via, senza
un murmure, senza
un'onda, così, allo sfacelo,
intorno a quel filo di lenza,
superstite, fra l'acqua d'argento
e l'immenso cielo.

(Da "Versetti", 1930)





ROSSO DI SERA
di Gherardo Del Colle (1920-1978)

Rosso di sera:
e tu bel tempo speri, anima mia!

Chiusi messaggi portano le nubi
da lontane riviere alla tua cella,
chiusi messaggi porteran le stelle
lungo la notte, e le fioche rugiade.
Ma, dalla strada, un po' di vento reca
al cuore, attento nella primasera,
il clamore festoso e i gridi acuti
dei ragazzi giocanti a moscacieca.

Gioia di bimbi, nella rossa sera:
come ti rassereni, vita mia!

(Da "Rosso di sera", 1946)






SERA D'AGOSTO
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Son qui stasera
dietro la ragnatela
che difende il Tuo trono:
ogni stella è meno di niente,
una mosca lucana lucente.

(Da "I nuovi Campi Elisi", 1947)





HO PAURA, LA SERA
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

Ho paura la sera
solo all’imbrunire
quando s’aggrava
sulla mia anima il peso
della tristezza, ho paura
di traversare la strada,

che non s’allenti in quell’attimo
la mia ultima presa
alla vita; e una volontà
di sonno, più forte
di tutto, mi stenda
sul letto d’asfalto.

(Da "Linea della vita", 1949)





SERA DI GORGO
di Umberto Bellintani (1914-1999)

Ancora opache innanzi a questa
sera ed umane.
Ora sono delle anime viola
le figure d’intorno al carretto
di chi grida il bel rosso dell’anguria.
E l’asino è un’ombra che sogna
e mastica biada.

Là il cielo è un verde di giada;
una rondine vi si tuffa,
esce, si perde:
è quasi ora di accendere lucerne.

(Da "Forse un viso tra mille", 1953)





SERA D'ESTATE
di Antonio Rinaldi (1914-1982)

Fu lungo il giorno: ardeva
ai limiti dell'ombra; or nella sera
di nuovo fresca la casa fiorisce
e alla quiete del sonno si desta
mentre per acque profonde vanisce
brusìo diffuso, rumore di festa.

(Da "Poesie", 1958)





TABULA RASA?
di Luciano Erba (1922-2010)

È sera qualunque
traversata da tram semivuoti
in corsa a dissetarsi di vento.
Mi vedi avanzare come sai
nei quartieri senza ricordo?
Ho una cravatta crema, un vecchio peso
di desideri
attendo solo la morte
di ogni cosa che doveva toccarmi.

(Da "Il male minore", 1960)





SERA D’AVVENTURA
di Roberto Roversi (1923-2012)

Non puoi sempre cadere sul letto
come un animale abbattuto.
Questa sera camminerò lungo il fiume
dove l’aria è fresca
e il cipresso sbadiglia
accarezzando il cielo;
questa sera con Monica andrò
verso la città alta.
Là giunti, nel silenzio profondo,
rovesciata sul tenero boccio dell’erba,
io su lei riverso,
non ci sarà altro fuoco
che il fuoco del mio cuore
né altro cielo
che l’azzurro dei suoi occhi coperti di ombra.

Bianco corpo fra il verde.
Persi la memoria dei miei anni felici
e degli anni più tristi;
quiete tempesta lottavano
sopraffacendosi.
La nostra solitudine era meravigliosa.
Quando allentai le briglia
già un lungo cammino era percorso;
la creatura giaceva, fragile,
pallida
e nel suo labbro fioriva
un sorriso che non ho mai veduto.
L’alba avanzava
calpestando i fiori e le stelle del cielo;
io riemersi dai flutti
come l’eroe antico dopo la lotta col mare.

(Da "La raccolta del fieno", 1960)