Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
martedì 2 settembre 2014
Meriggi
MERIGGIO A MARE
di Adolfo Borgognoni (1840-1893)
Muto, senz'onda il mare,
Disteso a l'infinito,
Sembra un acciar brunito
Che ripercuota il sol;
Sopra, d'intorno immoto
È l'aere fiammante;
In fra le rade piante
Non corre un grido, un vol.
Silenziosa ferve
L'ora meridiana;
Il suon d'una campana
Giunge da la città,
Solo. Nel lembo scuro
Che segna la pineta,
Su una capanna cheta
Un fil di fumo sta.
(Da "Rime e versi", 1886)
È UN POMERIGGIO LIVIDO
di Corrado Govoni (1884-1965)
È un pomeriggio livido
di Settembre, rigato
a pena da qualche brivido,
da qualche rumore ovattato.
Ne l'orto un muro un gaggio sopporta
per le sue pietre mucillaginose.
Sghignazzan sui pilastri de la porta
due putti tra un arco di rose.
Un comignolo fuma
una dilegine noia;
la sua rossa schiuma
lava una bassa tettoia.
Una fabbrica fischia
lungamente e poi tace.
Per la quiete nevischia
un arruffio pertinace
di freddolosi uccelli
in un chiuso giardino
senza sedili e senza cancelli.
Apre la bocca un abbaino
in un tetto dai tegoli
di sporco acciaio.
Il cardellino becca i regoli
de la gabbia attaccata al solaio.
Il branco degli uccelli sloggia
da le robinie di smeraldo,
e va per la pioggia
verso un fienile caldo.
La terra avidamente
beve l'acqua da tutti i pori:
sviene l'erba paziente,
s'ubbriacano i fiori.
Ed il vento raccoglie
mesto le sue chiome bionde
scapigliate lungo le soglie,
e le pettina con le monde
mani in un angolo appartato
di qualche recinto,
accanto a un fauno sgretolato
di cui l'edera morde il plinto.
Tutto è uniforme, tutto
è cinereo come
se ogni cosa vestisse il lutto,
fosse ogni cosa senza nome.
E la pioggia continua
a filare la sua lana,
e ne le case s'insinua
una mollezza di lana.
Gli alberi parlano tra loro
de le defunte rose:
il malaticcio decoro
à delle semplicità deliziose.
Un'anatra sguazza crocchiando
in un truogolo intorbidito.
Una cincia saltella cinciando
per il convolvolo fiorito.
(Da "Armonia in grigio et in silenzio", 1903)
UN RICORDO
di Ada Negri (1870-1944)
Un meriggio di luglio, un'afa bassa:
io consunta di febbre, abbandonate
su le lenzuola le braccia stroncate,
e immobil come salma ne la cassa.
Ne l'orrenda stanchezza un solo, acuto
pensier: la bimba. — La sua voce piana
giungeva a me da una stanza lontana,
come ne i sogni: — tutto il resto, muto.
E il suo piccolo passo udii venire,
dopo, sino al mio letto. — Dolcemente
mi prese, mi baciò la mano ardente....
....ed a quel bacio io mi sentii morire.
*
Precipitava i colpi violenti
il cor malato, sino a soffocarmi.
Le tempie, come tizzi, eran roventi;
le membra, fredde come freddi marmi.
Tentavi con le tue di riscaldare
queste povere mani moribonde.
Io mi sentiva l'anima affondare
in un mar senza scampo e senza sponde.
Dissi, come in un soffio: La bambina. —
E vidi ne' tuoi buoni occhi una forte
promessa. — Al buio, come un'assassina,
stava in agguato, dietro a me. la morte.
(Da "Maternità", 1904)
MERIGGIO IN CAMPAGNA
di Giovanni Alfredo Cesareo (1860-1937)
Alto silenzio sta su la pianura
Divampata dal sol meridiano:
Il zefiro su flosce ali s'addorme
Nell'aria immota: qualche raro arbusto
Aggiacca al suolo i polverosi rami
Con ombra tenue: lustra arido il letto
Del petroso ruscello, e un vaporante
Stupor di sogni dalle cose emana.
Ma una nota giulia
Pía, pía, scivola via;
Onde a me il cuor con una strinta balza
Subitamente. Pur se nulla in vista
Accenna più, non alito, non orma,
Io rido in me di sovrumana gioja,
Però che mai provassi egual dolcezza
Di questa irrevocabile quiete
Che da' vivi mi separa: dilegua
Ogni senso dell'essere in cotale
Religioso, immemore, sereno
Trasognamento della terra affisa
All'indefatigato occhio del giorno,
E con divina voluttà già credo
Ebbro di luce sciogliermi e vanire
Nella concordia estatica del tutto.
(Da "Le consolatrici", 1905)
MERIGGIO ESTIVO
di Diego Garoglio (1866-1933)
Sdraiato, o quercia, all'ombra capricciosa
delle tue foglie nel meridiano
fulgore estivo,
come in un sovrumano
stupore immoto, intensamente io vivo,
arso pur io dall'infinita arsura,
— quasi assorbito in grembo alla Natura
la vita d'ogni cosa.
Annegan le pupille nel bagliore
biancazzurrino dove impera il sole,
unico Dio;
mi fervono parole
entro di fiamma, d'immortal desìo,
e in ritmo col frinir delle cicale
— pendolo dell'estate — batte, sale
il palpito del cuore!
(Da "Sovra il bel fiume d'Arno", 1912)
AUTUNNALE
di Lionello Fiumi (1894-1973)
Nel consunto meriggio d'ottobre in pensieri
leggeri
di gloria, m'inoltravo pel deserto viale;
lungo il fosso
era un lento funerale
di platani
incappucciati di giallo di ruggine di rosso,
e un sole scarso
fregiava di chiazze violacee
il terreno, sparso
di foglie sanguigne e coriacee
che sotto il piede
cricchiavano cricchiavano: uggiose!
Pensai, rammento, a un tratto,
i monotoni scaffali
di vecchi libri, e quegli eguali
crepiti di cartapecore e di pagine
maculate
ch'ebbero pure, come le coriacee foglie, il loro maggio,
e ch'oggi sol le dita frigide del saggio
sbendano dal pesante oblio e fanno crepitare.
Pensai: ed i mille miei sogni leggeri di gloria
si sfecero vani
in uno de' miei amari sorrisi leopardiani:
"E l'uom d'eternità s'arroga il vanto!..."
(Da "Polline", 1914)
IL POMERIGGIO
di Umberto Saba (1883-1957)
Negli aspetti di questo pomeriggio
troppo bello, ho sofferto i primi fasti
dell’autunno; la voce ammonitrice
della stagione che i rimorsi arreca,
ed il rimpianto al mal fatto misura.
Il cielo è azzurro come il primo cielo
che Dio inarcava sulla terra nuova,
e il mare, appena benedetto, è un liscio
specchio all’azzurro di tutto quel cielo.
Poche foglie sugli alberi hanno il verde
dei vivaci acquarelli dei fanciulli,
mostrano l’altre un rosso di passione.
Casa e campagna, tutto il mondo, è come
creato or ora; e tanto bello attrista,
tanto che agli occhi è soverchio, e non dura.
Chi dai suoi ozi si riposa, e ascolta,
ode il monito grave, ode la voce
che viene dalle cose e dal profondo;
dalle prime speranze che ha deluse,
da un bel principio che più il fine oscura.
(Da "Il Canzoniere", 1921)
MERIGGIO ESTIVO
di Giuseppe Villaroel (1889-1968)
Bianco meriggio dell'està odorosa
che socchiude le porte sulle vie
quando i carri, in penose teorie,
battono la campagna polverosa.
È l'ora in cui il lamento dei mendichi
risuona nei cortili addormentati.
Dormono gli stallieri scamiciati
sotto i portoni dei palazzi antichi.
L'ora in cui il sole è un'alta luminaria
e dietro le socchiuse persiane
luccican gli occhi delle donne; e strane
canzoni si diffondono nell'aria.
S'aprono dalle strade senza vita
lontananze purissime d'azzurro.
Nei giardini le vasche hanno un sussurro
querulo e la città sembra sfinita
dal sole, sembra che un languore enorme
snervi la terra; e gli uomini, in un blando
torpore d'oppio, sognino adorando
la splendente bellezza delle forme.
(Da "La Bellezza intravista", 1923)
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
di Eugenio Montale (1896-1981)
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
(Da "Ossi di seppia", 1925)
UN DOLCE POMERIGGIO D'INVERNO
di Carlo Betocchi (1899-1986)
Un dolce pomeriggio d'inverno, dolce
perché la luna non era più che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.
Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre più in alto volavano mai stanche.
Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c'era piu una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d'un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l'angelo che a Te mi conduce.
(Da "Altre poesie", 1939)
IL TARLO
di Franco Fortini (1917-1994)
Stanza di pomeriggio
polvere di fatica
rombo di Milano
nella conca del cortile
palato asciutto
delle fontane
tende del pomeriggio
polvere d'altre sere
gracili al sole
cartilagini degli anni
dietro il capo
le braccia in croce
mia mente informe ripòsati.
*
Poesia vecchio pianto nel sonno
a notte alta mi sveglierai.
*
Ma allora sarà più vicina
l'impercettibile voce
che il giorno non conosce.
Verso il cuore del legno morto
da anni un tarlo lavora.
Voce minima promessa
invisibile verità
scricchiolìo dell'alto tempo
quanta calma sugli occhi lavati.
Confidenza della fine
per udirti quanto silenzio.
(Da "Poesia e errore", 1959)
lunedì 25 agosto 2014
Da "Memorie del tempo presente" di Riccardo Bacchelli
Bisognerebbe ritrovare l'esame, l'emendamento, i precetti.
Dio non è necessariamente sulla via di Damasco, non preferisce la chiamata e l'estasi.
Ma è sempre buona volontà premiata, chiede in ogni caso pazienza.
Bisognerebbe che costruissi il mondo rigorosamente in giudicato e giudicante.
Mi ricostruirei in corpo e in anima.
E la preghiera sarebbe restituita.
L'uomo vano si dimentica di pregare, l'uomo orgoglioso se ne vergogna.
Per recuperare la preghiera occorrono oggetti precisi e che stiano i più a cuore.
La salvezza d'un fratello in guerra, la guarigione da una malattia, il rimorso meglio determinabile in ore e minuti nell'occasione più irrimediabile.
Non ho più che una settimana disponibile.
E stasera ancora non so se domani mi sveglierò finalmente alla giornata, che voglio figurarmi promessa, di riassunto e di getto.
Mi sia concessa una giornata di lavoro.
. . .
Dio numera e si rammenta degli uomini nella discussione e nel transito terreno, la prudenza di Dio nell'attribuire e distribuire è nascosta, è Dio che sceglie.
Adesso ogni dono m'è stato sospeso, ogni indugio m'è inibito. A chi mi rivolgerò? Che risorse mi restano? Che farò?
Percosso di stupefazione, mastico amaro. E son contento di non poterne finalmente più.
Né il mio lavoro increscioso, né l'anima mia sbandata, piena di maligni piaceri contro gli altri e contro sé, costituirebbero decente offerta. Qualcosa, e sempre il più indispensabile, m'è mancato ad ogni incontro, e quanto a me la mia forza propria e nativa l'ho sviata. Ho offeso la grazia.
Ho giudicato troppo. Ora sono senza soccorso e senza speranza. E quando tentai un dialogo pronunciato, sillabare una domanda a Dio, che disdette! È successo di sera, quando l'uomo smette di vergognarsi per rispetto umano, e del male e del bene.
(Da "Memorie del tempo presente" di Riccardo Bacchelli, Rizzoli, Milano 1953, pp. 82-83)
Questi due frammenti di Riccardo Bacchelli (Bologna 1891 – Monza 1985), si trovano nel volume Memorie del tempo presente, che, quando uscì, venne presentato come primo della serie destinata a raccogliere tutta l’opera letteraria dello scrittore emiliano. Tornando ai frammenti, entrambi si trovano nella sezione Memorie e riepilogo, e nella sottosezione Memorie. Per i temi e per il tipo di scrittura, molto assomigliano ai Poemi lirici, che in questo libro precedono le Memorie, e che furono pubblicati nel 1914. Anche il periodo temporale in cui le Memorie furono scritte, non è lontano rispetto a quello delle poesie presenti nei Poemi. Penso che Bacchelli, poeticamente parlando, non tornò mai più ai livelli ottimi delle sue prime pubblicazioni.
domenica 24 agosto 2014
Mattini
SPUNTA IL MATTINO E L'ALBA È SCOLORATA
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1969)
Spunta il mattino e l’alba è scolorata,
Sul salice novello
Il passero dall’ale
Si scote indolenzito la brinata,
Tace la valle e tacciono gli steli,
Fischiano i venti e le recenti gemme
Stillan di pioggia al ritornar de’ geli:
E intanto nel cespuglio e nel roveto
Un mesto fior si schiude,
Si schiude una viola.
La viola bruna - il fior di sepolcreto.
Oh che sì mesta fossi
Nel libro di lassù scritto non era,
Oh mattin di natura, o primavera!
Del quinto lustro appena
Dolorando così volo su l’ale,
E una cura profonda,
E un avido desire
Smanioso della tomba il cor mi assale,
Delle deserte stanze
Apro le imposte e miro
La sofferente natura,
E nell’appeso speglio,
Le disfatte sembianze,
Che il gelo del dolor strusse repente.
Pur gioventù mi arride e in ciel non eri
Certo così segnata
Di precoce vecchiezza,
O mattin della vita, o giovinezza!
Qual fato dunque, qual terribil fato
Ha le stabili leggi
Di natura mutato?
Stille di piaggia e gemme disseccate,
Poveri fior recisi,
Vergini volti e guancie giovinette
Di lacrime solcate...
Tale il mondo affatica e mi assecura
Di rapida rovina
Un’arcana sventura;
Né a te fu dato, a te, stagion novella,
D’intatti fiori ornarti;
Né a te di gioie assaporar l’ebbrezza,
O mattin della vita, o giovinezza!
(Da "Disjecta", 1879)
MATTUTINO
di Giovanni Marradi (1852-1922)
Buon giorno, o splendido sole dorato
Che alla mia camera fai capolino:
Sei sempre l'ospite ben arrivato,
Sole magnifico, sole divino!
Finché dagl'incubi vieni a destarmi
Che la fantastica notte m'adduce,
E posso immergermi, purificarmi
In questo tepido bagno di luce,
Finché tu sfolgori sul mar che invano
Sferzan le collere del maestrale,
Finché dell'ampio consorzio umano
Sei democratico re liberale,
Finché sì splendido, sole dorato,
Alla mia camera fai capolino,
Sei sempre l'ospite ben arrivato,
Sole magnifico, sole divino.
(Da "Fantasie marine", 1881)
FIORI D'ARANCIO
di Bruna (Laura Clementina Maiocchi)
Era d'inverno un gelido mattino,
triste; pioveva, nol scorderò mai;
ed ella se ne stava a capo chino,
io fra i capelli i fiori le appuntai.
Poi surse; e mi baciò tutta radiosa,
bella, gentile, nel suo vel di sposa.
Fuori piovea, ma nelle luci care
di mia sorella il sol vidi brillare.
(Da "Pètali e lagrime", 1894)
SVEGLIANDOMI IL MATTINO, A VOLTE IO PROVO
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)
Svegliandomi il mattino, a volte io provo
sì acuta ripugnanza a ritornare
in vita, che di cuore farei patto
in quell'istante stesso di morire.
Il risveglio m'è allora un altro nascere:
ché la mente lavata dall'oblio
e ritornata vergine nel sonno
s'affaccia all'esistenza curiosa.
Ma tosto a lei l'esperienza emerge,
come terra scemando la marea.
E così chiara allora le si scopre
l'irragionevolezza della vita,
che si rifiuta a vivere, vorrebbe
ributtarsi nel limbo dal quale esce.
Io sono in quel momento come
chi si risvegli sull'orlo d'un burrone,
e con le mani disperatamente
d'arretrare si forzi ma non possa.
Come il burrone m'empie di terrore
la disperata luce del mattino.
(Da "Pianissimo", 1914)
MATTINA
di Ardengo Soffici (1879-1964)
La luce non è che un mazzolino di fiori più sottili;
Un ronzìo di mosche d’oro e verdi il cielo.
Senza questo pardessus parigino si potrebbe ballare;
A tutti i piani c’è la musica come in paradiso.
Una signora vestita del tricolor dell’Italia nelle cromolitografie patriottiche
Evade verso l’oriente:
Jamais je ne voudrais être son chien!
Piuttosto piangere di tenerezza
Sul miracolo della gente che risuscita ogni giorno
In questo enigma universale, che piglia per un almanacco
E passa;
E passa con la tranquillità dei giovenchi,
Ah! noi moriremo per aver troppo adorato le cose da nulla.
L’aria d’anilina mi bagna come una camicia tuffata nel turchinetto.
Vedo tutto:
Il baccalà che esperimenta il Nirvana fiorito di pomodori nelle zangole azzurre;
L'ombre delle grondaie abbassate sugli occhi glauchi delle persiane;
Le ombre degli uomini che si sprofondano
Nella terra trasparente.
E a un tratto capisco questo assioma: Ogni nuova civiltà nasce dal riso dei bambini.
Il timpano del sole batte sullo specchio del parrucchiere
Per farmi sorridere;
Ma non si può che seguire in silenzio la freschezza delle ore.
(I miei capelli sono sinistri!)
(Da "Marsia e Apollo", 1938)
E ORA, IN QUESTE MATTINE
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)
E ora, in queste mattine
così stanche
che ho smesso di chiedere e di sperare,
e tutto il giardino è per me,
per il mio male sontuosamente,
penso agli amici che mai più rivedrò,
alle cose care che sono state,
alle amanti rifiutate,
ai miei giorni di sole...
(Da "Poesie", 1942)
MATTINO D'ESTATE
di Diego Valeri (1887-1976)
Una immensa distesa
di vigne, ondata solo
da emergenti alberelli qua e là.
E, qua e là, la macchia rosso bruna
d’un tetto, accanto a quella
biondiccia d’un pagliaio.
Poi, lontano, una lunga fila d’esili
pioppi frondosi
contro il turchino pallido
delle dolci colline. Il cielo è un bianco
fulgore, appena appena
annebbiato d’azzurro;
il silenzio è spaccato dagli scoppi,
poi solcato dai lunghi rombi tremuli
di due campane gravi.
Io da questo balcone alto contemplo
lento passare il mattino d'estate
sul piano aperto e per il vano cielo;
e da tutte le cose a me venire
mi par non so che pianto,
non so che nuovo senso del morire.
Sento, come non mai,
che si stempra nel nulla la mia vita,
a giorno a giorno, inesorabilmente;
sento che tu mi manchi
ad ogni istante un poco,
o giovinezza, e che sarai domani
un pugnetto di cenere
dentro il mio cuore fioco.
Sento che allora la tristezza mia
sarà fatta più triste
dal ricordo di te, come più muto
fatto è questo silenzio dalla scia
lunga, di suono, delle due campane
che non cantano più.
(Da "Poesie vecchie e nuove", 1952)
MATTINO D’AUTUNNO
di Attilio Bertolucci (1911-2000)
Un pallido sole che scotta
Come se avesse la febbre
E fa sternutire quando
La gioia d’esser giovani
E di passeggiare di mattina
Per i viali quasi deserti
È al colmo, illumina l’erba
Bagnata e la facciata rosa
Di un palazzo. Tutto è gioviale
Buongiorno e sereno, raffreddore
E mezza stagione. E Goethe
In mezzo alla piazza sorride.
(Da "Sirio", 1929)
I MATTINI PASSANO CHIARI
di Cesare Pavese (1908-1950)
I mattini passano chiari
e deserti. Così i tuoi occhi
s'aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d'immobile luce. Taceva.
Tu viva tacevi; le cose
vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)
come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest'ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.
(Da "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", 1951)
MATTINO A ONEGLIA
di Cesare Vivaldi (1925-1999)
Stamattina a buonora mi risvegliano
le grida dei ragazzi entusiasmati
dai tuffi lungo il molo. Tutta Oneglia
sventola una marina di bucati
stesa avanti ai miei piedi, ed è ben sveglia
nel sole ogni finestra, insaponati
visi specchia; qualcuno unge una teglia
e vi dispone pesci infarinati.
Felicità d’esser vivi, e allegri
nel vento cogliere tutti gli odori
della città e del porto, la frittura,
il catrame che bolle. L’occhio ai negri
scafi dei lontanissimi vapori
si fissa. Come una nuova avventura.
(Da "Il cuore d'una volta", 1956)
LE SEI DEL MATTINO
di Vittorio Sereni (1913-1983)
Tutto, si sa, la morte dissigilla.
E infatti, tornavo,
malchiusa era la porta
appena accostato il battente.
E spento infatti ero da poco,
disfatto in poche ore.
Ma quello vidi che certo
non vedono i defunti:
la casa visitata dalla mia fresca morte,
solo un poco smarrita
calda ancora di me che più non ero,
spezzata la sbarra
inane il chiavistello
e grande un'aria e popolosa attorno
a me piccino nella morte,
i corsi l'uno dopo l'altro desti
di Milano dentro tutto quel vento.
(Da "Gli strumenti umani", 1965)
sabato 16 agosto 2014
Albe
Oggi, dicevo, l'alba non ha più un significato per me, e non rappresenta nulla, se non l'inizio di un nuovo, vuoto, squallido giorno.
ALBA FESTIVA
di Giovanni Pascoli (1855-1912)
Che hanno le campane,
che squillano vicine,
che ronzano lontane?
È un inno senza fine,
or d’oro, ora d’argento,
nell’ombre mattutine.
Con un dondolìo lento
implori, o voce d’oro,
nel cielo sonnolento.
Tra il cantico sonoro
il tuo tintinno squilla,
voce argentina — Adoro,
adoro — Dilla, dilla,
la nota d’oro — L’onda
pende dal ciel, tranquilla.
Ma voce più profonda
sotto l’amor rimbomba,
par che al desìo risponda:
la voce della tomba.
(Da "Myricae", 1900)
ALL'ALBA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)
All’alba ritrovai l’orma sul posto,
selvatica qual pesta di cerbiatto;
ma v’era il segno delle cinque dita.
Era il pollice alquanto più discosto
dall’altre dita e il mignolo rattratto
come ugnello di gàzzera marina.
La foce ingombra di tritume negro
odorava di sale e di ginepro.
Seguitai l’orma esigua, come bracco
che tracci e fiuti il baio capriuolo.
Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.
Livido si fuggì pel folto il biacco.
Si levarono due tre quattro a volo
migliarini già tinti di gialliccio.
Vidi un che bianco; e un velo era dell’alba.
Per guatar l’alba dismarrii la traccia.
(Da "Alcyone", 1904)
L'ALBA
di Luisa Giaconi (1870-1908)
S'apre una pagina d'ambra
nel cielo, all'orlo del monte;
fioca sul nero orizzonte
l'ultima stella sparì.
E già per l'erto pineto
brucando il gregge si sperde,
piccoli punti fra il verde,
fiocchi di bianco qua e là...
Fremiti di foglie e d'acque
par che si sveglino a pena,
via via la luce s'insena
lenta nel bosco la giù.
L'ombra riprese i fantasmi
e riaccostò le sue porte;
di là, il silenzio, la morte,
il giorno dolce di qua;
il giorno, ch'è fra due notti,
come la vita nel nulla
che nel mistero ci culla;
un sogno anch'esso e non più.
(Da "Tebaide", 1912)
SU L'ALBA
di Alessandro Giribaldi (1874-1928)
Stanotte – su l'alba – dormivo
una fiorita di sogni...
Un sonno leggero; e sentivo
battere su la finestra.
Chi batte? Chi batte? Sei tu?
Sei tu, mia pensosa?
Sei tu (le tue dita di rosa?)
che vieni a trovarmi quassù?
Discesi - con gli occhi nel sogno –
dal letto, cercando su i vetri
l'amore... e il tuo volto.
Non c'eri. Mi posi in ascolto.
Ancora? Chi batte? Non c'eri...
Ma c'era un verdone, sperduto
anch'esso nell'ombra. – Che cerchi?
Rispose: ti porto un saluto.
Ti porto un sospiro, da lungi,
ti porto una lacrima, un bacio.
La vidi: guardava sul mare...
diceva: non giungi, non giungi?
(Da "I canti del prigioniero e altre liriche", 1940)
IMPRESSIONE DI SONNO
di Arturo Onofri (1885-1928)
Bere il tuo riposo fiorito, quando l'alba insinua per le imposte chiuse i suoi sottili coltelli di luce, assorbire il molle respiro della tua carne di rosa, il profumo degli abbandoni goduti, che all'angolo delle tue palpebre, come due petali stanchi, s'inumidiscono ancora della rugiada del sonno, esalato sulle tue ciglia dalla ninnananna del mare.
(Da "Orchestrine", 1917)
IO UN'ALBA GUARDAI IN CIELO
di Carlo Betocchi (1899-1986)
Io un'alba guardai il cielo e vidi
uno spazioso aere sulla terra perduta;
negletta cosa stava tra i suoi lidi,
tra gli spenti smeraldi oscura e muta.
Innumerevoli angioli neri vidi
volanti insieme ad una plaga sconosciuta
recando seco trasparenti e vivi
diamanti d'ombra eternamente muta.
Andava questo furioso stuolo
estenuandosi verso il fil d'occidente
e io seguìa un intenerito volo
di cerulee colombe alte e lente.
E apparvero, con le puntute ali
di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti
gli angioli dalle vallate orientali,
le estreme piume rosee e languenti.
In un immenso lago alto e candido
nascean singolari fronde meravigliose,
le rovesce vallate un lume madido
di rugiade correa, fonde e muschiose.
E dentro i nostri cuori era come
dentro valli ripiene di nebbie e di sonno
un lento ascendere dello splendore
che poscia illuminò i monti del mondo.
(Da "Realtà vince il sogno", 1932)
LUCE BIANCA
di Antonia Pozzi (1912-1938)
All'alba entrai
in un piccolo cimitero.
Fu in un paese lontano
ai piedi di una torre grigia
senza più voce alcuna
di campane –
mentre ancora le nebbia
inargentava
le querce oscure,
le siepi alte,
l'erica
viola –
Nel piccolo cimitero
le pietre
volte all'Oriente
come in un riso
bianco
parevano visi di ciechi
che allineati marciassero
incontro al sole.
(Da "Parole", 1964)
ERANO GIORNI DIVINI
di Libero De Libero (1906-1981)
Con l'alba giungevi e me vecchio
d'attesa in giovane amore mutavi,
tanto orgoglio era d'intorno
quasi l'ombra d'un albero grande.
Erano giorni divini, e noi anche
divini per dolce consenso
dei prati davamo ragione
di canto alla gente. Ma il tempo
geloso di noi rapida sabbia
versò nel deserto crescente.
(Da "Romanzo", 1965)
COME È FORTE IL RUMORE DELL'ALBA
di Sandro Penna (1906-1977)
Come è forte il rumore dell'alba!
Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.
(Da "Poesie", 1957)
L'ALBA AI VETRI
di Giorgio Bassani (1916-2000)
L'alba ai vetri, e la musica d'un piffero e un tamburo
udivo, là, la sua opaca, un po' ebbra allegria.
Non eri tu che tornavi, vita, tu, vita mia,
tu che sopravvenivi, innocente futuro.
«Empio evo venuto che premi alle porte»
dicevo io, con lacrime più soavi che amare,
«dimentica il mio nome! Dicevo. E la tua, morte,
ebbra ancor m'assonnava melodia militare.
(Da "L'alba ai vetri", 1964)