Se ripenso alla
mia infanzia, spesso provo sensazioni così emozionanti che mi vien da piangere.
È come se, in quel favoloso e irripetibile periodo, io abbia vissuto in
un'altra realtà; era, il mio, un mondo di favola, dove tutto appare più bello, più
colorato e più emozionante. Quegli anni, ormai lontanissimi, mi sembrano
semplicemente meravigliosi, al di là di ciò che erano veramente (furono
definiti "gli anni di piombo", perché in Italia e non solo, alcuni
gruppi di terroristi portarono a compimento una serie di azioni violente, che
lasciarono sul campo parecchie vittime). Mi succede di pensare a certi momenti
che ho vissuto: dei lampi della mia lontana esistenza che ora, a ricordarli, sembrano
appartenere ad un universo a sé stante, inverosimile, fantastico. Nascono,
questi miei ricordi, da frammenti di tempo, minuti o secondi che si sono
impressi nella mia memoria per non andarsene più; ora, sono diventati come le
apparizioni della Madonna per i credenti: dei veri e propri sogni ad occhi
aperti. Così, quando con la mente rivado a pescare qualcosa di quel mio mitico
periodo, mi sembra che allora, la mia vita così come quella di tutti coloro che
erano vivi in quegli anni, fosse più che mai felice e spensierata; la vedo,
insomma, come un'età dell'oro. Naturalmente, mi rendo ben conto che questa non
è la verità, e che le mie sensazioni erano tali perché stavo vivendo il periodo
più bello della mia vita. Con il passare degli anni, mi sono accorto che,
gradualmente, ho perduto quel modo unico di vedere le cose che appartiene
solamente all'infante; crescendo, sempre più dai miei occhi sono caduti quel
veli che coprivano la vera e dura realtà delle cose. A proposito di ciò, voglio
qui inserire due frammenti tratti da altrettanti libri, in cui a mio parere
viene precisato in modo eccelso, quel concetto di "infanzia mitica"
che, con parole meno forbite ho voluto esprimere in queste poche righe. Il
primo frammento appartiene a Feria
d'agosto di Cesare Pavese, e si trova nel sottocapitolo intitolato: Del mito, del simbolo e d'altro.
Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico.
Ciò s’accompagna all’altro noto fatto che nessun bambino sa nulla del “paradiso
infantile” a cui a suo tempo l’uomo s’accorgerà d’esser vissuto. La ragione è
che negli anni mitici il bambino ha assai di meglio fare che dare un nome al
suo stato. Gli tocca vivere questo stato e conoscere il mondo. Ora, da bambini
il mondo s’impara a conoscerlo non – come parrebbe – con immediato e originario
contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette,
racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a
qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e
ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato,
staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva
e lo conteneva. Al bambino questo segno si fa simbolo, perché naturalmente a
quel tempo la fantasia gli giunge come realtà, come conoscenza oggettiva e non
come invenzione (Che l'infanzia sia poetica è soltanto una fantasia dell'età
matura). Ma questo simbolo, nella sua assolutezza, solleva alla sua atmosfera
la cosa significata, che col tempo diviene nostra forma immaginativa assoluta.
Tale la mitopeia infantile, e in essa si conferma che le cose si scoprono, si
battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. Poiché,
rigorosamente, non esiste un «veder le cose la prima volta»: quella che conta è
sempre una seconda.
Ora, volendo
meditare su questo scritto di Pavese, trovo che, particolarmente nella prima
parte, abbia pienamente centrato il bersaglio; l'inconsapevolezza della propria
felicità è palese nel bambino, preoccupato soltanto di vivere quel tempo seguendo
i suoi istinti, senza pensieri esistenziali che non appartengono a quell'età.
Infatti, io mi ricordo che ebbi, per la prima volta, una vaga sensazione della
mia felicità, quando avevo già compiuto dodici anni: ero quindi quasi al limite
dell'infanzia. Verissimo anche il concetto relativo alla fantasia infantile,
che fa divenire le cose, le persone e tutto ciò che ci capita sotto gli occhi,
qualcosa di stupendamente bello (e anche di irreale).
Ecco, come
secondo frammento, la parte iniziale de Il
fanciullino di Giovanni Pascoli.
È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come
credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi
suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la
nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme
sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare
e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi
accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua
antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa
sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale
tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell'età giovanile forse così come
nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa
della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima d'onde esso risuona. E
anche, egli, l'invisibile fanciullo, si perita vicino al giovane più che
accanto all'uomo fatto e al vecchio, ché più dissimile a sé vede quello che
questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo;
ché ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d'un passato ancor troppo
recente. Ma l'uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e
rispondergli a tono e grave; e l'armonia di quelle voci è assai dolce ad
ascoltare, come d'un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora.
Quindi, il
Pascoli afferma che il bambino (o fanciullino che dir si voglia) rimane in noi
anche dopo la fine dell'infanzia, ma, se durante la giovinezza sembra quasi
assente perché viene rinnegato con una certa vergogna, a mano a mano che gli
anni passano, tende a rifarsi vivo e diventa sempre più fondamentale per l'uomo
maturo, che lo ama e lo ricorda dolcemente. Personalmente, devo dire che non ho
mai rinnegato la mia infanzia, neppure in età giovanile, ma l'ho rimpianta fin
dall'adolescenza, perché già la percepivo quale periodo indiscutibilmente
migliore della mia vita. Oggi, come ho già detto, adoro la mia infanzia come
fosse un Dio.
Termino questa
mia dissertazione con una poesia di Tito Marrone intitolata Un fanciullo; fa parte della raccolta Liriche, pubblicata dall'editore Artero
di Roma nel 1904. In questi ventiquattro versi il poeta racconta una storia che
potrebbe essere un sogno, o un fantasioso, ipotetico mondo che immagina possa
esistere dopo la morte; è, alla fine, un desiderio di ritornare indietro nel
tempo e rivivere l'età infantile.
UN FANCIULLO
Tu che mi guidi
per mano
lungo le gelide
vie,
senza parlarmi,
straniero,
dove mi porti? Io
ti seguo
docile: sono un
fanciullo
docile. Oh,
portami al sole!
Io non so stare
nell'ombra
senza la mamma
vicina.
Quando, la notte,
dormivo,
io non temevo di
niente;
c'era con me la
mia mamma
c'era nell'ombra
la luce.
Ora, non so
perché faccia
questo infinito
viaggio;
sono
stanchissimo: cade
sopra il mio
petto la testa.
Sembrami che di
lontano
vengano voci
infantili.
Per ch'io
sorrida, mi porti
verso i piacevoli
giochi?
Vedo lontani
fanciulli.
Sono i miei
piccoli amici?...
C'è la mia mamma
con loro?...
Sono contento.
Sorrido.
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