La poesia, ai
giorni d'oggi, ha un'importanza irrisoria. Il drastico cambiamento della nostra
società, avvenuto soprattutto nel secolo scorso, l'ha relegata in un angolo
piccolo piccolo. Certamente colpevoli di ciò sono sia il progresso scientifico
che quello tecnologico insieme al progressivo avanzare di un capitalismo
senz'anima, che ha reso molte (troppe) persone indifferenti a qualsiasi forma
d'arte, perché troppo soggiogate da un benessere arido, tutto concentrato nel
consumo dei beni materiali e nel sopravvalutare il lato edonistico
dell'esistenza. Anche la magia e la bellezza della parola scritta è venuta
ormai meno; se è vero che cento anni fa ancora si scrivevano poesie, prose,
lettere e quant'altro su semplici fogli di carta, è altrettanto certo che oggi
quasi nessuno lo fa (io compreso), poiché, prima la macchina da scrivere e poi
il computer hanno totalmente abolito i vecchi modi con cui era in uso comunicare
tra esseri umani. Oggi, addirittura, lo si fa tramite i telefoni, in un
linguaggio troppo spesso sgrammaticato e puerile. In futuro, molto
probabilmente, quei pochissimi che vorranno ancora dedicarsi all'arte poetica,
lo faranno dettando i loro versi ai robot. Eppure, anche se ha un ruolo marginale,
quasi insignificante, oggi esiste ancora la poesia; in parte è cambiata la
concezione di questa parola, visto che in tanti sono a ritenere poesie alcuni testi delle canzoni di musica pop. Non voglio dire
che questo sia ingiusto, ma certo è che, se si abbina una buona musica ad un
testo poetico, è normale che quest'ultimo risalti maggiormente, ingannando
l'ascoltatore che, in virtù delle note musicali, apprezza in modo spropositato
le parole della canzone. Ma esiste ancora la poesia pura: quella
scritta sulle pagine dei libri; questi vengono pubblicati in forme diverse
dalle tradizionali (si pensi agli gli "ebook") e quasi sempre trovano
un pubblico esiguo, sempre meno disposto a farsi ammaliare dal fascino dei
versi. Ma soprattutto, per chi riesce, come me, ad appassionarsi alla poesia
del passato, esistono i vecchi e i nuovi libri che riportano le liriche dei più
grandi poeti della storia; allo stesso modo, sono tutt'ora reperibili alcuni
libri di poeti ormai del tutto dimenticati, che, ingiustamente, non hanno mai
trovato chi li valorizzasse.
Chiudo riportando
una poesia di Carlo Chiaves, poeta crepuscolare che, in questi precisi versi, circa
cento anni or sono mostrò tutto il suo pessimismo riguardo al futuro della poesia.
Qui s'immaginano un padre ed un figlio davanti al caminetto, durante una sera
invernale del secolo Duemilatrecento. Non si sa come, il bimbo trova un vecchio
libro di poesie e, non avendone mai visto uno, chiede al padre cosa esso sia
mai. Il padre gli risponde che si tratta di un oggetto frusto, obsoleto,
scritto da un uomo bizzarro, intento a fantasticare e a scrivere i suoi inutili
vagheggiamenti su carta: insomma un inetto. Quest'uomo, così come tutti quelli
che si definivano "poeti", è ormai scomparso da tantissimi anni, e le
sue stupide fantasticherie non servono più a nulla. Il bambino, che di tutto
quello che ha detto il padre ha capito poco o niente, usa quel logoro oggetto
per giocare col gatto, distruggendolo a poco a poco; l'ultima utilità della
poesia è insomma quella di far divertire per pochi minuti un bambino ed un
gatto. Svolto questo compito, essa scomparirà per sempre.
NEL SECOLO DUEMILA
TRECENTO
di Carlo Chiaves
Nel secolo duemila
trecento (suppongo non sia
per anco rovinata,
dispersa la crosta del mondo)
chi sa che un
turbolento bambino, frugando nel fondo
di una allormai
diserta, inutile libreria,
Non trovi, o libro, o
labile indizio de' palpiti miei,
il tuo esemplare
estremo, un poco corroso dal tarlo;
non corra irrequieto,
incuriosito, a mostrarlo
al padre - O cos'è
questo, babbo? - Mah! non lo saprei!
- O dove l'hai
trovato? fra quelli più grandi? Chi sa
non sia questo lo
scritto più raro d'un qualche poeta!
- Che vuol mai dire?
- O figlio, vuol dire una razza inquieta
di gente, che è
scomparsa da quasi un'eternità!
Di gente che campava,
ma fantasticando, e che poi,
quanto sentiva
fervere in fondo al bizzarro pensiero,
fermava su le carte,
con ritmo o grave o leggero,
con voci uguali e
quasi del tutto ignorate fra noi.-
Allora il bimbo che
certo nulla, ma nulla affatto
ne avrà compreso,
senza pensare o cercare più in là,
ti infilzerà a uno
spago, mio libro, e ti adoprerà
un qualche istante
ancora, per trastullarsi col gatto.
Indi, dispersi,
laceri, i fogli, e calpesti, nel foco
consumerai, più
presto di quanto saremo già noi
in terra consumati,
poeti inutili o eroi,
tu che un istante
almeno avrai servito ad un gioco.
(da "Tutte le poesie edite e inedite", IPL, Milano 1971)
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