Gran parte di queste
ulteriori poesie "invernali" hanno come protagonista la neve, ovvero
la precipitazione atmosferica che, spesso, caratterizza la stagione; ogni poeta
guarda i paesaggi nuovi, creati dalla caduta della neve, e medita, descrive,
sentenzia... Ma in queste venti poesie c'è posto anche per altro: vecchi
attrezzi obsoleti in abbandono; donne anziane che vegliano in preda al terrore
e al freddo; lunghe e noiose ore trascorse in casa, davanti al focolare, in
attesa che la rigida stagione abbia fine ed altro ancora...
IL PLAUSTRO
di Luigi Orsini
(1875-1954)
Quel che dei campi
l'anima odorosa
recò stridendo per le
bianche strade
plaustro solenne, or
preme l'oziosa
notte invernal che
abbrividendo cade.
Dove i bei soli che
la gloriosa
state fiorivan di
purpuree biade?
Dove le voci effuse
in amorosa
nota a un desìo di
stelle e di rugiade?
Tutto ritorna. Al
sonno anche Boote
su l'aie azzurre
placido accomanda
l'antica forza de le
accese rote;
ma presso Arcturo
sogna una ghirlanda
cui giugno cinga a le
sue bionde gote,
spighe mietendo per
l'eterea landa.
(Da "Le campane
di Ortodonico", L'Eroica, Milano, 1921)
LA VEGLIA D'INVERNO
di Achille Leto
(1870-1963)
Le due vecchiette
vegliano la morta.
Quasi temendo di
destarla, piana-
mente parlano e il
vento urta alla porta.
Trasaliscon talor,
come se arcana
cosa accadesse, e
guardansi negli occhi,
l'ululo udendo della
tramontana.
Ecco si crocesignano
e i ginocchi
tremano. Il fuoco,
nel braciere, è spento
quasi: puranco
povertà di ciocchi!
Hanno freddo e paura.
Ulula il vento:
si spalanca la porta
d'improvviso
e un gran respiro, un
soffio di spavento,
irrompe e spegne le
candele. Fiso,
rosso, nell'ombra, un
occhio che le guarda
c'è, di bragia. Esse
sentono sul viso
il gelo e il buio
della morte... Tarda
è la notte d'inverno
orrida. Strette
al capezzal, la voce
odon beffarda
della vecchia comare,
le vecchiette...
(Da "Piccole
ali", Sandron, Milano 1914)
IL SAPORE GLACIALE DI QUEI PRATI
di Arturo Onofri
(1885-1928)
Il sapore glaciale di
quei prati
ripersuade il
diàpason turchino
del vento a
illanguidirsi sulle ovatte
delle nuvole e a
pendere fra i rami
spogli dell'olmo,
tacitando il frullo
dei pochi uccelli,
mentre l'erba dorme
nel giro familiare
dei suoi sogni,
che le ricorda quando
ell'era sole.
Con un filo di canto
fra le labbra,
ancora un
fanciulletto èduca il mondo
lungo i pascoli
azzurri, e il mio guardarlo,
nel mezzogiorno, ha
brillantii di stella.
(Da "Terrestrità
del sole", Vallecchi, Firenze 1927)
FANTASIA
di Vittoria Aganoor
(1855-1910)
Dalle morte ninfee,
che nella vasca
del vecchio parco il
gelo ha soffocate,
tra poco un fiore
portentoso nasca.
Con la verghetta di
malìe, vogliate
il prodigio compir,
dolce signora
delle mie notti e
delle mie giornate!
Salga lo stelo, e in
bel color d'aurora
s'apra il calice, un
calice d'opale
immenso sopra la
gelata gora;
e intorno effonda
come un boreale
lume, e tra i bossi
il bianco Erote rida,
ridan l'erme al
novissimo natale.
L'Inverno creda April
giunto, alla sfida
superba, e avvolga i
suoi tappeti bianchi,
e fugga, e il grave
carico lo uccida.
(Da "Leggenda
eterna", Treves, Milano 1900)
LE VISIONI DEL CIECO,
II
di Emilio De Marchi
(1851-1901)
Fanno nel cielo
bianco i curvi rami
della selva, che
molta neve ingombra,
vani, sottilissimi
ricami.
Per i viali della
terra, sgombra
d'ogni speranza,
passa una mortale
tristezza, che il
candor del suolo adombra.
Lugubri augelli van
sbattendo l'ale
contro i gelidi
tronchi. Io piango. È questa
la morta selva piena
d'ogni male.
Torna la donna in una
verde vesta,
che tiene un molle
ramicello in mano
e vien benedicendo la
foresta.
Non cade, no, la sua
pietade invano
nel rigido dolor, ma
il segno santo
della prudente
piccioletta mano
Alla tristezza
scioglie il duro incanto.
(Da "Vecchie
cadenze e nuove", Agnelli, Milano 1899)
INVERNALE
di Mercurino Sappa
(1853-1926)
E de la morte immagin
veramente
Sei tu, squallido
verno, o quando il gelo
Del trapasso il tuo
gel mi reca a mente,
O quando vo
paragonando il velo
Tuo bianco al lino
che le membra spente
Ultimo fascia; ma
s'io volga al cielo
Gli occhi da questa
candida, eminente
Balza, ne l'ora che
il sol cade, e anelo
Tende l'animo a
l'alto, arcani fiori
Di topazio e rubino e
una riviera
Di perle, tra
smeraldi, apparir vedo.
Allor, spogliato de'
terrestri algori,
Del ciel mi scaldo a
quella primavera,
Né più a la morte, né
più al verno io credo.
(Da "Il Manipolo", Streglio, Torino-Genova 1908)
CREPUSCOLO INVERNALE
di Pietro Mastri
(1868-1932)
O fruscìo di vento
fra quei rami spogli,
che cos'è che, lento,
nel mio cuore
sfogli?...
Tu sei fatto brullo,
cuor, che sogni
fiori:
dormi, o cuor,
fanciullo
anche quando muori.
Non ci son germogli
su quei rami scossi,
or che gli agrifogli
hanno i frutti rossi?
Ma tu ben lo sai:
dormono, o fanciullo
che non posi mai.
Dormi, o cuore
brullo.
Dormi: e su nell'aria
tersa, che t'aggela,
stendi solitaria
la tua nuda tela.
Contro il cielo è
nera:
ma tra i fili sparsi
quante stelle, a
sera,
vengon a impigliarsi!
Luccican lì come
diamantìne stille,
umide pupille
tra spioventi chiome.
(Da "La
meridiana", Taddei, Ferrara 1920)
I FASCINI DEL NORD
di Giovanni Bertacchi
(1869-1942)
Notte d'inverno! — Io
spegnerò la mite
voce del canto in
mormorati accenti,
fin che divenga un
aliar di neve;
sia ch'ella scenda
alle città sopite,
sia ch'ella torni,
per gli oblii tacenti
de le mie valli, a
visitar la pieve.
Vada in neve il mio
canto: e così batta
sommessamente, in un
passaggio d'ali,
ai vetri chiusi delle
stanze umane;
con la bianchezza di
una coltre intatta
copra in soffici
lembi i davanzali,
meraviglia dei bimbi
alla dimane.
Oh, noi forse
fanciulli, in un profondo
lontanissimo giorno,
abbiam veduto
un grande nevicar su
campi immensi:
per gli occhi assorti
quel calar d'un mondo
bianco e sfaldato
penetrò nel muto
essere nostro, ci
durò nei sensi.
Venne la vita, poi;
venne con l'ebbre
concupiscenze, con le
sue parole
tristi di verità,
liete d'inganno;
e noi sorbimmo, come
in una febbre,
le dolcezze
lentissime del sole,
rinnovati di fibra
anno per anno.
Ma il caldo sole non
pervenne al chiuso
senso invernale che
la nevicata
del dì lontano in noi
lasciò, che dura
nel fondo delle
nostre anime infuso,
come neve dal sol
dimenticata
sulla montagna, in
una conca oscura.
Passa in frastuoni di
città, si stanca
nei treni in corsa al
piano interminato
l'uomo dell'inquieto
evo moderno:
ma se da lungi
riappar la bianca
linea dei monti,
guarda egli, accorato,
quasi pensando a un
suo perduto inverno.
Bello è l'inverno:
ecco sui cilestrini
piani di ghiaccio
gareggiar la forza
con la bellezza, in
agili volute:
ecco le slitte, in
labili cammini.
solcar le bianche
valli, ove si ammorza
la vita in un oblio
di cose mute.
Ogni foggia viril
reca le traccie
del mondo di lassù:
tessuti rudi,
lavorati corami,
ispidi feltri:
i figli della Neva in
ardue caccie,
su pei laghi gelati,
ai venti crudi,
vanno così coi fidi
alani e i veltri.
Ma un morbido tepore
è nelle vesti
delle nostre gentili,
ove la pigra
dolcezza del morente
anno si serba;
han le tinte dei
prati umidi e mesti
nel tardo autunno, e
dell'uccel che migra
con l'ala grigia tra
di terra e d'erba.
E va pur essa alle
iperboree plaghe
l'anima nostra e, nel
velato giorno,
l'avvolgente, il
fluente aere la porta:
schiudonsi ad essa le
distanze vaghe,
e il paesaggio le si
muta intorno,
in un dubbio mutar di
luce smorta.
Migrano al nord le
Belle affascinate
quando, nel vivo dei
teatri intenti,
passano, in vasti
ritmi, in tenui nenie,
le grandi sinfonie,
navi fatate,
giunte di là per
ricondur le genti
al Verno antico... -
Tale è la progenie
nostra, non paga mai;
che sempre agogna
al luogo ove non è,
pur non lasciando
le tempre sue,
l'atavica dimora;
che muor pel suo
paese e che pur sogna
le patrie altrui;
questa che muove errando
da contrada a
contrada esule ognora.
E la contrada non
sarà raggiunta.
Legge di vita è il
vigile tormento
che ne spinge per via
non mai compiuta;
il pensiero alla meta
invan s'appunta,
sempre innanzi ci
sfugge il compimento,
e posare è morir... —
Così, sperduta
dalla terra natia cui
fu strappata,
erra inqneta Mignon,
quasi a cercarla;
e tutta la sua vita è
in quell'errare.
Quando la bella
patria è ritrovata,
la canzone di lei più
non ci parla;
il destino è
compiuto: ella scompare.
(Da "Alle
sorgenti", Baldini & Castoldi, Milano 1906)
SOGNO INVERNALE
di Diego Garoglio
(1866-1933)
La neve cade cade
e la mulina il vento
per le deserte
strade:
io vo e vo contento.
I nivei fior colora
ecco la fantasìa:
è il tramonto o
l'aurora?
è un sogno, anima
mia?
La pioggia delle rose
dal giardino celeste
scende e di vaporose
parvenze il suol
riveste.
Tra le fiorite sponde
non mormoran
ruscelli?
ascosi tra le fronde
non cantano gli
uccelli?
Ride la terra e trema
voluttuoso il mare;
sento... oh dolcezza estrema!...
l'anima naufragare.
Oh diafano azzurro
intangibile come
un sogno! aulenti
chiome
di siepi in fior,
susurro
di fresche correnti
acque!
Amor mio, vieni (il
sole
s'affretta) ove ti
piacque
già coglier le viole.
Non senti? è
primavera.
D'un ardor folle io
tremo...
Usciamo; ad alta sera
ancor noi sogneremo.
Oh la divina pace
che sul cor mi
discende!
Ma perché il labbro
tace,
né più l'occhio
s'accende?
Il viso si fa bianco;
la mano ecco mi
sfugge...
Corro, ma il piede è
stanco...
È già lontana e
fugge...
. .
. . .
. . . .
Ahi! che s'oscura il
cielo
e il vento i nivei
fiocchi
mulina: un caldo velo
grava sui dolenti
occhi.
(Da "Elena"
Giusti, Livorno 1901)
CAMINO
di Federico De Maria
(1883-1954)
La sonnolenta Spoleto
s'attedia
sotto la neve che
cala, che vortica
ad ogni turbin di
vento improvviso
come vertigin
d'affrante falene.
Ed io la guardo, con
affaticati
occhi, dietro le
vetriate, dove
vengo a seder per
lunghe ore. da sei
giorni: guardo la neve
oltre i ghiacciati
vetri, guardo la mia
ospite sempre
muta nella cucina che
m'accoglie
nel suo tepor
benigno. Aspetteremo,
aspetteremo che la
nevicata
cessi, per andar
fuori, per andare
al camposanto, a
deporre due fiori
su la tomba dei morti
di mia madre.
Io l'aspetto da sei
giorni. — Da sei
giorni? Infiniti.
Furon così brevi
ventiquattr'anni
ch'io ricordo pallidi
e lontani, e son
dunque così eterni
questi ospitali sei
giorni di neve?
Siede sotto la cappa
del camino
fuligginoso la
vecchia signora,
smagliettando una
calza. Ad ogni filza
compiuta leva gli
occhi, a sé tirando
per il filo il
gomitolo che trottola
leggero su i mattoni
netti, volge
uno sguardetto a me e
a la finestra,
esclama : «Che
calduccio !» o: «Sarà buona
la minestra, a
merenda!» rattizzando
il fuoco che
scoppietta, ansa, sfavilla.
Attorno a lei (da
quanti anni?) tranquille
sonnecchiano le
vecchie suppellettili
pulite: il ramaiolo,
la marmitta,
la padella di rame —
a una parete
appese — che di
tratto in tratto accendonsi
d'un riflesso del
mobil fuoco, il tavolo
d'assi schiette, la
madia, gli scannetti
impagliati, e le
snelle lucernette
d'ottone. Da quanti
anni? Da l'infanzia
sua, di suo padre,
de' suoi morti: ed ànno
tutti come una lor
melanconia
di troppe cose, di
troppi ricordi.
La vecchia
Cenerentola, contenta
del suo camino, vive
qui, così,
presso gli alari, con
la calza, forse
da tempo
immemorabile, ma senza
rimpianti, senza
desideri: il suo
mondo non à orizzonti
oltre la chiusa
finestra; arde il suo
sol sotto la cappa
fuligginosa, come per
quel vecchio
soriano ravvolto su
le ceneri
calde, che non
ricorda più amorosi
gennai sui tetti
annevicati e dorme
tutto, con qualche
lento desiderio
di cibo in fondo al
ventre intorpidito.
Ah, non c'è mondo di
là da quel fuoco
nemmen per me: non
ricordo, non penso.
Tepida inerzia! mi
danno fastidio
sol le campane,
incessanti campane;
qualche moscone
ronzante mi canta
la ninna-nanna... E
anch'io mi sento l'anima
d'un gatto, d'un buon
gatto sornione
come quello che
pisola e si grogiola
presso la fiamma.
Presto fumerà
la minestra sul
desco, e poi di nuovo
riposo: e poi
domani... a l'infinito...
(Da "La leggenda
eterna", Ed. di Poesia, Milano 1909)
LA NEVE
di Gabriele
D'Annunzio (1863-1938)
Scende la neve su la
Terra madre,
placidamente. E lei
bianca riceve
la Terra ne' suoi
giusti ozi, da poi
che all'uom copia di
frutti ha partorito.
Guarda il bifolco
splendere a' sudati
campi la neve, mentre
siede al desco;
e a lui dal cuor la
speme e dal bicchiere
sorride la primizia
del vino.
— Scendi con pace, o
neve; e le radici
difendi e i germi,
che daranno ancora
erba molta alli
armenti, all'uomo il pane.
Scendi con pace; sì
che al novel tempo
da te nudriti, lungo
il pian ridesto,
corran qual greggia
obedienti i fiumi.
(Da "L'Isotteo.
La Chimera", Treves, Milano 1906)
NEVE
di Augusto Garsia
(1889-1956)
Bianca verginità
silenziosa,
adagi lenta lenta il
tuo gran velo
di ghiaccio ardore
dall'opaco cielo
sulla terra che
stendesi e riposa.
Muta la terra
stendesi: non osa
turbare la quiete
alta del gelo,
turbar te, neve, che
tranquilla ne lo
scorrer del tempo
ardi di fiamma ascosa.
Bianca verginità di
nevicata,
eguale, senza vento,
una in sé porta
ogni fiocco di te
fiamma celata:
il ghiaccio ardore
della vita, morta
un dì alla terra, in
ciel purificata,
dal cielo in fiamme
candide risorta.
(Da "Voci del
mio silenzio", Campitelli, Foligno 1927)
SONETTO DELLA NEVE
di Sergio Corazzini
(1886-1907)
Nulla più triste di
quell’orto era,
nulla più tetro di
quel cielo morto
che disfaceva per il
nudo orto
l’anima sua
bianchissima e leggera.
Maternamente coronò
la sera
l’offerta pura e il
muto cuore assorto
in ricevere il tenero
conforto
quasi nova fiorisse
primavera.
Ma poi che l’alba
insidiò co' 'l lieve
gesto la notte e, per
l’usata via,
sorrisa venne di sua
luce chiara,
parve celato come in
una bara
l’orto sopito di
melanconia
nella tetra dolcezza
della neve.
(Da "Le
aureole", Tip. Operaia Romana, Roma 1905)
HA NEVICATO...
di Nino Oxilia
(1889-1917)
Ha nevicato. Sotto il
bianco guanciale di neve
da l'occhio
giallastro ghignano i fanali
a la città che dorme.
Bianca si snoda la via
lontano. E quel
pallore l'angoscia cela.
Io ti detesto o neve.
Adoro i singhiozzi dell'urbe
e tutti gli insulti
amari che tu copri.
Avido dell'ignoto amo
scrutar da le piaghe aperte
il limaccioso Stige
del cuore umano.
Dolce è vedere la
vita contorcere i fianchi all'amplesso
immondo del tempo,
del male, dell'odio,
nucleo d'ogni cosa, e
in cui ogni cosa quieta,
signore del presente,
pioniere del futuro.
A che sei scesa
livida neve a stendere su di noi
il drappo sentimentale
del tuo sogno?
(Da "Canti
brevi", Spezia, Torino 1909)
SOTTO TRE PALMI DI
NEVE, IL VILLAGGIO
di Giovanni Camerana
(1845-1905)
Sotto tre palmi di
neve, il villaggio
Dorme il pesante suo
sonno invernal;
Foschi abituri,
chiesuola, orto ed alberi
Fanno nel bianco una
macchia spettral.
Anima viva non passa,
la neve
Non ha pedata, è un
immenso candor.
Per l’aria triste non
passa il più lieve
Suono, essa è muta, è
un immenso torpor.
Cerco lo stagno... lo
stagno è di ghiaccio,
E a fior del ghiaccio
anche un gatto gelò.
Era un artista; il
suo dorso nerissimo
Che bella nota in
quel grigio formò!
Sotto tre palmi di
neve, oh se anch’io,
Come il villaggio,
potessi dormir!
Dormir nell’ombra,
dormir nell’oblio,
E lento lento
affondarmi... e sparir!
(Da "Versi",
Streglio, Torino 1907)
ANELITO
di Olinto Dini
(1873-1951)
E neve e neve!... Io
voglio rivolare
rivolare laggiù dove
s'umilia
l'Alpe Apuana in
vaghe onde di clivi.
Io voglio l'inquieta
alma placare
ancor tra' colli
tuoi, dolce Versilia,
bianca di marmi e
pallida d'olivi.
E neve e neve!... È
vano ogni desìo!
(Da "Alcune
poesie", F. Mariotti, Pisa 1900)
LA BIANCA NOTTE
di Domenico Tumiati
(1874-1943)
Una verginità nuova
occupa la piazza
vasta:
cammino sopra la
neve.
Ne la notte alta, chi
trova
l'orma? solo la
riceve
quella neve umile e
casta.
Io non so perché il
mio piede
affondare vuole
l'orma
nel velluto che si
frange;
io non so che cosa
vede
il mio cuore, quale
forma
ne la notte alta, che
piange.
Dal palagio scuro,
bianca
pei cristalli vien la
luce:
v'entra, v'arde la
mia vista.
Forse ancora non sei
stanca,
ma nel libro ti
seduce
una luce bianca e
trista.
Forse parli,
piccolina
bocca, di vedute
cose,
di ascoltata melodia.
La messa del
Palestrina
di stamani, ovver le
rose
pallide, corolla pia?
Io non so che pensi,
né
so che penso io pure;
vedo solo a me
d'intorno
de la neve le ombre
pure;
ed è come un chiaro
giorno
celestiale su te.
(Da "Musica
antica per chitarra", Tip. Landi, Firenze 1897)
NEVICATA
di Antonino Anile
(1869-1943)
Piani, piani allo
sguardo, e una catena
laggiù d'alte
montagne. Un freddo greve
le cose involge,
mentre, a fiocchi, piena,
da un cinereo ciel
scende la neve.
Qualche trillo
d'augello rompe appena
il silenzio che
incombe. Il bacio lieve
di tanti fiocchi
tacita, serena
la campagna,
d'intorno ampia, riceve.
Le mandrie,
nell'ovile, a volta a volta
contro al nevischio
scuotono le lane,
e vigile, uggiolando,
il can si lagna.
Candido è il piano e
le cime lontane,
e nella neve, che la
tien sepolta,
caldi meriggi sogna
la campagna.
(Da "Intermezzo
di sonetti", Tip. Landi, Firenze 1893)
NEVE
di Giuliano Donati
Petteni (1894-1930)
Nevicò sulla terra. I
bianchi fiocchi
volteggiaron
nell'aria a sciami eguali
di farfalle, chiamate
dai rintocchi
delle dolci campane
dei mortali.
Nevicò. Le farfalle,
messaggere
del segreto dei
cieli, sulle cose
posarono e fioriron
silenziose
le piante come a
nuove primavere.
Quasi un mistico
incanto fu nell'aria,
e l'aspetto dei sogni
più leggeri
e più giocondi prese
la natura.
Anima dolorosa e
solitaria,
come soavi allora i
suoi pensieri!
Non fu il ritorno ad
un'infanzia pura?
(Da
"Intimità", Zanichelli, Bologna 1926)
NEVICATA STIRIANA
di Giuseppe Sabalich
(1856-1928)
Mentre la stufa
brontola
e le ofridee
profumano
la stanza riscaldata,
io guardo muta
stendersi
la neve su la povera
campagna assiderata.
* *
Declina il giorno.
Pallido
tramonta il sol di
Stiria,
semispenta ecatombe;
e sovra i rami
stendesi
la nebbia uggiosa e
in nugolo
su le montagne
incombe.
* *
Lontan, s'un
clavicembalo
le dita incerte e
deboli
giocan d'una bambina;
e i contadini danzano
al suono d'una citara
ne l'osteria vicina.
* *
Oh, come è freddo e
lugubre
questo stanzone
nordico,
resto del
cinquecento!
io, sovra un vecchio
codice,
strozzando uno
sbadiglio,
m'annoio e
m'addormento!
(Dalla rivista
«Cronaca d'Arte», maggio 1891)
Robert Henri, "Snow in New York" |
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