E in questi giorni
molto rigidi, nel cuore dell'inverno, ho voluto pubblicare altre venti poesie
di altrettanti poeti italiani appartenenti a un tempo ormai remoto. Molti di
loro si soffermano a descrivere paesaggi desolati, a volte lugubri; abbondano
versi in cui compaiono uccelli di ogni tipo: corvi, aquile, passeri, gabbiani, reatini,
cigni... spesso questi poveri pennuti sono sofferenti o morenti. Il mese è
gennaio: il primo dell'anno ma anche, tranne qualche rara eccezione, il numero
uno in quanto a giornate fredde. C'è chi parla di fiori, malgrado la stagione,
che però son fioriti in anticipo, e traggono quindi in inganno, facendo pensare
ad una imminente primavera. C'è chi avverte un profondo senso di solitudine e,
sfogandosi, lo descrive per filo e per segno. C'è infine chi approfitta
dell'atmosfera invernale per fare meditazioni esistenziali o cercare nella
natura nuove "voci misteriose". I poeti sono, più o meno, sconosciuti
o celebri, i soliti: Panzacchi, Graf, Pascoli, Cesareo, Oliva, Thovez,
Lipparini, Pastonchi ecc. Due parole ancora su qualche poeta che oggi nessuno
ricorda più: Guido Menasci, toscano, ha un po' di fama per aver scritto il
libretto dell'opera "Cavalleria rusticana" di Pietro Mascagni; fu
anche autore di versi, che riunì in qualche volume, come l'ottimo "Il
libro dei ricordi". Salvatore Giuliano, ovviamente, non ha nulla a che
vedere col tristemente noto boss siciliano, a parte il fatto che anche lui
nacque in Sicilia; collaborò a varie riviste locali e pubblicò due soli volumi
di versi (semplici e piacevoli) prima di morire a soli ventuno anni, come
Sergio Corazzini.
DANUBIO INVERNALE
di Guido Menasci
(1867-1925)
Oggi il Danubio, in
corsa, nei flutti fulvi e torvi
trascina enormi
ghiacci che passan rumorosi;
su i ghiacci, a
frotte a frotte, stanno gabbiani e corvi
che seguono la corsa
del fiume paurosi.
Gracchiano i gravi
corvi, ma si senton più forti
le strida dei
gabbiani con disperato accento.
Vi siete forse uniti
per un seppellimento,
neri terrestri e
grigi marini beccamorti?
Quale uragano in
collera respinse dalla spiaggia
dove fluttua pallido
un nordico oceano
questi augelli
attristati dall'onda fluviale?
Nella tristezza un
vago presagio gl'incoraggia:
raggiungeran domani
d'un altro mar lontano,
a loro sconosciuto,
la scogliera ospitale?
(Da "Il libro
dei ricordi", Giusti, Livorno 1895)
ATONIA
di Enrico Thovez
(1869-1925)
O falce di luna d'oro
nel cielo chiaro d'inverno!
Langue laggiù in
occidente, sfavilla al vespero, inalba
di un chiaror vago le
nevi sui tetti colmi; alta in cielo
sopra le case, mi
splende in viso, in fondo alle vie.
L'ultima neve si
strugge sopra le putride aiuole,
i fili d'erba
trasalgono al vento freddo, le estreme
fogliuzze secche
stormiscono fra le ramaglie dei platani.
Dall'ombra, io, qui,
la contemplo. In quell'ardore struggente
affiggo gli occhi
miei, l'anima. Son solo: ho orrore di me.
Non vivo più,
l'atonia mi ha tolto insino il soffrire!
O luna, rendimi il
palpito, la mente, il cuore, lo spasimo
del tempo antico!
Ch'io possa essere grande, o morire.
(Da "Il poema
dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)
TENEBRE
di Domenico Oliva
(1860-1917)
Scende la notte, e
pare
Una minaccia, sopra
La terra fredda:
cantano
Il funeral del sole
L'umide, immense
tenebre.
Oh, le notti
primiere,
Oh i primieri
spaventi
Della prima progenie,
Oh dove urlanti,
folli,
Quei martiri
fuggirono!
Oscurità dovunque,
Freddo dovunque: cupi
Ululati facevano
Tremar l'aure ed i
cori,
Le belve immani
udivansi
Vaganti: era l'enorme
Sinfonia del terrore
Ch'irrompeva
nell'ampio
Impero del silenzio
Suprema ed
invincibile —
E le oscure montagne
E i fiumi mormoranti
Inesplicate e lugubri
Cose e i boschi e i
gran boschi
Che fremevan
nerissimi,
Stavan sopra e
d'intorno
Agli estenuati! Oh
notti!
Allor che soli, il
timido
Passo per un sentiero
Che le tenèbre
abbracciano
(Amplesso misterioso)
Avanziamo e il profilo
Degli alberi che
ondeggiano
E l'ignoto susurro
Che per l'aere
vagola,
Ed il serpeggiamento
D'un essere notturno
Di cose strane
parlano,
E n'andiamo cantando
Noi, gl'indomati
ipocriti,
Son quelle notti
ancora,
Quelle notti
infernali
Ch'improvvise
risorgono
E in un sol cor
risorge
Tutto il poema
funebre:
Batte quel core,
inconscio
Di secolar tragedia
E i secolari palpiti
Si seguono siccome
D'un folle carme i
numeri.
Scende la notte, e
pare
Una minaccia, sopra
La terra fredda:
cantano
Il funeral del sole,
L'umide, immense
tenebre.
O antica stirpe, come
Puoi sostener cotanto
Peso? Tu pur continui
A trascinar te stessa
Sulle tue glebe
povere:
Invan ti schiaccia
questa
Eredità a cui freme
Ogni pensier che
indocile
Sfidi volgar catena!
Oh se i morti
sorgessero
Tutti, tutti, dal
primo
Che bagnò del suo
sangue
La terra insino
all'ultimo
Che, mentr'io scrivo,
spira,
Tutti, tutti,
bianchissima
Sterminata falange,
Per l'antico terrore
Un'altra volta
attoniti,
Una seconda morte
Piangendo griderebbero.
Scende la notte, e
pare
Una minaccia, sopra
La terra fredda:
cantano
li fumerai del sole
L'umide immense
tenebre.
(Da "Il
ritorno", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1895)
GHIACCIOLI
di Peleo Bacci
(1869-1950)
Su gli antichi freddi
asili
de la morte, sui
recenti,
dalle nere croci
umili
come frange
ricadenti,
come argento in molli
fili,
in fantastici
ornamenti
brillan penduli,
sottili
i ghiaccioli
iridescenti;
dal cancello del
sagrato,
dal roseto calvo e
solo
del tranquillo
camposanto,
e dal verno lì
fermato
sulle tombe, sembra
il volo
d'una larga ala di
pianto.
(Da "Flatus
vocis", Tip. Cacialli, Pistoia 1894)
DOMENICA
di Filippo Amantea
(1878-1964)
Gelo d'inverno sul
mio cuore e palpita
freddo di gelo l'aere;
Ma per la tenue
purità cristallina
tende il sol la sua porpora,
E la luce ch'è vita e
che letifica
in fronte bacia il piccolo
Tempio sacro a la
Vergine ed effondesi
pel breve spazio candida
Del sacrato che, in
atto liete ed umili,
le fedeli attraversano;
Balzando le campane
le salutano
che per la messa clamano.
Occhi di sole! mentre
Febo Apolline
fredda letizia a l'anima
Versa in obliqui
dardi che si smussano
e senza forza piovono,
Voi vi mostrate,
occhi di sole, e avvampasi
l'anima mia d'un subito:
Tale le cime tocca de
gli alti alberi,
ad incendio, la folgore. -
Candida fronte sotto
chiome d'ebano,
occhi di sole fulgidi,
A salutarle di sua
pompa vestesi
il sole a la domenica,
E il mio povero cuor
sotto le folgori
nere tue che l'accendono,
Brucia e sfavilla
come d'oro cupola
a i tramonti purpurei,
Tu che passi regale -
ahi, solo un attimo! -
del sole ne la gloria,
O Tu che regni su
l'altar de l'anima
com'ostia il suo ciborio!
(Da "Come le
nuvole", Arturo Trippa, Cosenza 1905)
IL CIGNO
di Ettore Moschino
(1867-1941)
II Sol, che per le
vie grigie de l'aria,
il pallido invernale
oro distende,
calando nella gran
selva risplende
come lampada in urna
funeraria.
Non grido o passo ne
la statuaria
calma; non ala il
marsio bosco fende.
Morte, le ninfe: sol
la nebbia scende
grave ne la tristezza
solitaria.
Canta un cigno su 'l
lago: dolcemente
canta, ed invoca la
sua bianca assente;
ma poi che tutto ne
l'ombra soggiacque,
ei, reclinando il
puro collo a l'acque,
e l'ali aprendo a
foggia d'una lira,
stanco, l'armoniosa
anima spira...
(Da "I
lauri", Treves, Milano 1908)
GAROFANI IN GENNAIO
di Salvatore Giuliano
(1888-1909)
Oh cinguettìo di
passeri in amore
fra le rame
intrecciate!
Madre Natura ha preso
un dolce errore
le nevi in bei
garofani ha mutate.
E così questo cespo
ora sorride
a gli occhi tuoi di
bimba,
mentre timido il sol
da l'alto ride
e i tuoi capelli di
folgore annimba.
Qual sogno mai di
lirica gioconda
somiglierebbe il
Vero?
Ed io smarrisco
l'esser in un'onda
di luce, in fantasie
vaghe il pensiero.
I garofani, rossi
come il fuoco
splendono
affascinanti.
Simbolo in cui de'
chiaroscuri il gioco
annuncia un bene
ignoto a i cori amanti.
Che importa se la
nebbia ricoperse
ieri tutta la terra,
e se domani ancora,
ancor, le sperse
nuvole torneranno a
darsi guerra?
Il tempo, il muto dio
che mai non resta
nel volubil cammino,
ci offre a una coppa
iridescente questa
benigna tregua:
l'attimo azzurrino.
Tutto un poema
d'estasi novelle
ci canta la natura:
Ad esse volgi le tue
luci belle,
mia diletta, o mia
sovrana cura.
(Da "Le ore
mattutine", La vita letteraria, Roma 1907)
L'INGANNO DEL
GELSOMINO PERENNE
di Mario Venditti
(1889-1964)
Dieciassette
dell'anno: e mi saluta,
già rifiorito, il
gelsomino. (O forse
dal cielo, stanca
delle veglie scorse,
una stella nel nostro
orto è caduta?)
E pur, quando mi
diede il suo commiato
l'altra fiorita, già
cadea disfatto
su per gli émbrici
tutto lo scarlatto
che la vitalba aveva
ricamato.
Prodigio forse della
mano agreste
che, in ottobre, fa
l'orto più stellante
dei giardini protesi
al sol Levante
e che, di maggio,
rievoca Preneste?
Non so. Capriccio
della millenaria
Sfinge bizzarra che
per occhi ha cieli
di gemme e avvolge i
cento e cento steli
che ha per capelli
nei suoi veli d'aria?
Non so né meno. Ciò
che posso dire
è che mi tende il più
crudele inganno
questa pianta che
quasi tutto l'anno
par non sappia far
altro che fiorire.
M'avea promesso:
"Con i miei virgulti
autunno a primavera
allaccerò".
Ma fra le gronde il
turbine crosciò
con la polifonia dei
suoi singulti.
Ora m'annunzia che
l'inverno già
su la via dell'esilio
si rimette.
Ma il calendario
ghigna: "Dieciassette
dell'anno: inverno
che non se ne va".
(Da "Il cuore al
trapezio", Taddei, Ferrara 1921)
D'INVERNO
di Enrico Panzacchi
Nella gran nebbia
canta un reatino
saltabeccando su pei
nudi rami.
Siam soli soli;
deserto è il cammino:
dimmi, oh dimmi che
m'ami!
O almen che in una
delle tue parole
io senta un lieve
tremito d'amore!
Olezzerà la
primavera, il sole
splenderà sul mio
cuore.
(Da
"Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)
VEDESTI GIÀ DI TRA I RAMETTI SECCHI
di Francesco
Pastonchi (1874-1953)
Vedesti già di tra i
rametti secchi,
nel verno, al pigro
sole mattutino,
per le siepi dei
campi, in sullo spino
che così sta di punte
irto e di stecchi,
due passeri svolar,
batter dei becchi,
dare un cinguetto,
via, con un inchino,
tornar, cullarsi,
muovere il capino
di qua di là più che
damine a specchi?
Tutto è silenzio
intorno irrigidito
dal gelo, acerbo di
pruina, tetro
al sole che vi stenta
un roseo lume.
E v'è solo quel volo
a vano invito:
e a tratti quel
"tin" fragile, di vetro
che si spezzi, perduto
fra le brume.
(Da "Il
randagio", Mondadori, Milano 1921)
UCCELLI TETRI
di Arturo Graf
(1848-1913)
Empie la cupola de’
cieli un greve
Vapor cinereo;
Copre gl’intermini
campi un funereo
Lenzuol di neve.
Per l’aria gelida,
sui bianchi e morbidi
Deserti immensi,
Trasvolan nugoli
profondi e densi
D’uccelli torbidi.
Vulturi ed aquile,
nibbii e sparvieri
Sinistri e torvi;
Innumerabili turbe di
corvi
Lugubri e neri.
I vicendevoli odii si
scordano
Volando forte,
E di fameliche strida
di morte
Lo spazio assordano.
Con ali volano sicure
e pronte,
Qual da presaga
Forza travolti verso
una plaga
Dell’orizzonte.
— O lupi aerei, epe
affamate,
Gole stridenti,
Per l’aria gelida,
sfidando i venti,
Ove ne andate? —
— Noi lupi aerei,
ventri affamati,
Stridenti gole,
Verso la plaga voliam
del sole,
Dove su lati
Campi altri lupi che
la natura
Perfezionarono,
Che han nome
d’uomini, ci prepararono
Larga pastura.
(Da "Dopo il
tramonto", Treves, Milano 1893)
SOLITUDINE
di Alfredo Mancini
(?-?)
Vieni da me!...
L'inverno — e tu lo sai —
è tanto triste; ed io
fra queste cupe
gole alpestri mi
sento tanto solo
e tanto sfiduciato.
Vieni da me!... Da
quando m'hai lasciato
a l'improvviso e
senza un sol consuolo,
più freddo è il
casolar, su questa rupe,
e più tetro che mai.
La piccola chiesetta,
là, tra i fondi
montani abissi, a
mezzo diroccata,
più quasi or non si
vede, e la campana
più quasi non si
sente;
poi che la nebbia
fitta ed opprimente
ogni orma avvolge, e,
orribile peana,
del gelido aquilon
l'ira implacata
par le cime
sprofondi.
Ah! se vedessi, se
vedessi tu
il poggio col sedile
ove sovente
insieme, a primavera,
un poco stanchi,
s'andava a riposare!
Sepolto ne la neve,
un grande altare
or sembra che
distenda i vasti fianchi
su la montagna a
guardia del torrente
che non gorgoglia
più.
Un giorno, or son sei
mesi, don Gerola,
il curato ottantenne
— lo rammenti ? —
venne a tenermi un
po' di compagnia.
Tosto di te mi
chiese...;
io tacqui...; ma
quand'egli alfin comprese
che te n'eri, il dì
innanzi, andata via,
ebbe singulti assai
più commoventi
di qualsiasi parola.
Poi prese a
confortarmi, assicurando
che a l'amor mio
saresti ritornata:
— Oh! vedrete — dicea
— vedrete, e presto,
s'ella dovrà
arrivare! —
Ma scorgendo le
lagrime sgorgare
giù dal mio ciglio
sconsolato e mesto,
scotea la bianca
testa addolorata,
anch'egli lagrimando.
Ah! che tristezza!
che tristezza, amore,
tu sapessi, è mai
qui!... Le mie giornate
sembran secoli..., e
mai, quassù, salire
non vedo anima viva.
E la notte?... Ch'io
vegli, o sogni, o scriva,
te vedo ognor nel
lento mio soffrire;
e al rievocar de
l'ore, ahimè! passate,
vie più mi struggo in
cuore.
Vieni da me!...
Perchè farmi morire
di spasimi cosi, se
tanto bene
da morirne ti
voglio?... Ah! vieni, vieni...,
ridona a me la vita
che mi manca da quando
sei partita!
Fa che l'anima mia si
rassereni,
e che il mio sangue
torni ne le vene
ancora a rifluire!...
(Da "Dall'urna
dei ricordi", O.P.E.S., Torino 1922)
IL PICCOLO MORTO
di Giovanni Alfredo
Cesareo (1860-1937)
Nel viale immenso e
vacuo
Schiara l'alba di
gennaio:
Semispenti in fila
guizzano
All'impeto del rovaio
I fanali, che
s'alternano
Co' platani
dispogliati:
Trascorre nell' aria
il brivido
Di tutt'i sogni
sognati.
Dietro al pilastro
d'un portico
Giace addossato un
bambino:
(Le campane par che
piangano
Rintoccando a
mattutino)
Ricurvo, stecchito,
immobile,
Con la faccia
paonazza
Fra i ciruffi, che
gli pendono
Molli di gelida
guazza.
Le cenciose braccia
agli omeri
Strettamente egli
convelle,
E dell'unghie
violacee
S'uncina le nude
ascelle:
Spiccia il sangue
dalle tumide
Falangi de' piedi
inerti:
Gli occhi invadono lo
spazio
Bianchi, stranamente
aperti.
Giunge un legno con
lo scalpito
Stracco d'un vecchio
ronzino:
Ne discendono due
guardie
E ne balza il
vetturino.
— Morto? — Morto! —
Su! — Lo portano
E l'adagiano nel
legno:
Guata il vetturino, e
mastica
Sdegno e cicca, cicca
e sdegno.
— Questo e il terzo
che mi capita.
Dico bene, un
vagabondo:
I rampolli de' sustrissimi
Non van mica per il
mondo
Così soli, sbrici e
piccoli!
Hanno troppa
educazione
Per girar di notte, a
risico
Di buscarsi una
flussione.
— Sferza! — Eh via,
che non c'è furia!
Fa il vetturino
montando
In serpe. Scruta il
cadavere,
Si leva il pastrano,
e quando
Gliel'ha steso fino
all'esile
Viso ormai nell'ombra
assorto,
Dice: — Là, che più
non abbia
Freddo, almeno ora
ch'è morto!
(Da
"Poesie", Zanichelli, Bologna 1912)
TRAMONTO DI GENNAIO
di Guido Marta
(1889-1960)
Ecco, che il
campanile, arguto e pronto,
schiude il suo becco
lustro di metallo,
e, rizzandosi dritto
come un gallo,
con la cresta
veimiglia di tramonto,
lancia un baldo
richiamo al suo pollaio
di case bianche
accocolate intorno:
mentre — bimbo di
rosa, ignudo, — il giorno
muor tutto
intirizzito dal rovaio.
(Da "La neve in
giardino", Il Giornale dell'Isola Letterario, Catania 1922)
NOTTE DI GENNAIO
di Romualdo Pantini (1877-1945)
Sfioccasi una cortina
nuvolosa
intorno della luna
all'aureo lago:
ed ella par vi nuoti
quale imago
di bimba dentro l'
acqua sonnacchiosa.
E la mesta campagna
ed ogni cosa
della vita è sì lunge
all'occhio vago
che stranamente
d'essere mi appago
ombra che vive sol
perché non posa.
Poi la brezza
risvegliasi: l'estreme
foglie
rabbrividiscono stormendo
qual ruscello che il
suo corso ripigli.
È la vita, è la vita.
Al cor che geme
e si chiude nel gelo
io non mi arrendo.
Voglio che un fior di
gioia s' invermigli.
(Da
"Antifonario", L'Arte del libro, Vasto 1905)
D'INVERNO
di Vittorio Locchi
(1889-1917)
Tu dove sei, mia
bella? Sul cuore ove un tempo dormii
forse la fata Mab or
ti contesse i sogni?
O framezzo lo stuolo
dell'anatre azzurre, pel cielo
voli in cerca di
sole? O dormi e nulla pensi?
Me non il sonno
accoglie sull'omero pigro, o mia bella,
nelle squallide
notti, solo d'inverno. Ed ora
che nel manto
stillante, dai fumidi stagni si leva
freddo, cinereo il
giorno: con gli occhi stanchi guardo
una fila di pioppi
che tremano ignudi, una gazza
che via passa
gracchiando. Guardo dai gioghi scendere
nuvole nere, tacite;
sì come nei foschi mantelli,
preti che vanno al
piano da' lor covi de i monti.
(Da "Elegie del
sereno", L'Eroica, Milano 1921)
SERA D'INVERNO
di Luigi Grilli
(1858-1939)
Su l'ampia distesa di
nevi recenti
profonde il tramonto
viole;
lontano, tra i
picchi, nel cielo taglienti,
discende magnifico il
sole.
Ed ecco la valle
s'infosca; riflessi
metallici han l'acque
del fiume;
il mar si solleva dai
cupi recessi
e d'iridi ingemma le
spume.
La cuspide aurata
dell'agile torre
s'accende d'un vivo
bagliore,
e l'ultimo riso di
luce trascorre
nel vespero, palpita
e muore.
Salute, o divino
benefico sole,
del mondo sei
l'anima, tu!
Per te degli umani
s'allieta la prole,
tu abbelli ogni cosa quaggiù.
Ma se per breve ora
vien meno il tuo raggio,
la vita è una trepida
ambascia;
il suolo diventa
deserto, salvaggio,
se, gelida, l'ombra
lo fascia.
E l'ombra dispiega
già i negri suoi veli;
nell'aere piange una
squilla;
regina dei mesti, nei
limpidi cieli
già placida Venere
brilla.
(Da "Lauri e
mirti", Giusti, Livorno 1908)
PRIAPO
di Giuseppe Lipparini
(1877-1951)
Quando verdeggerà ne'
solchi il grano
ancora a la novella
primavera,
verran gli amanti in
gaudiosa schiera,
a te porgendo
supplici la mano.
A te di lor fecondità
guardiano
alzeranno di fiori
una lettiera,
onde tu possa a la
vegnente sera
mescer baci a le
ninfe e amore sano.
Or l'erma tua pallida
e nuda giace
ne l'invernal
rigidità, Priapo;
l'arguto ceffo sembra
domandare:
"O quando
cesserà questa mia pace?
Ora la brina
m'inghirlanda il capo
e non mi noia con il
suo pregare ..."
(Da "Le foglie
dell'alloro", Zanichelli, Bologna 1916)
VEGLIA DI PENSIERO
di Olindo Malagodi
(1870-1934)
Notte d'inverno: cupa
sfavillante
di un freddo polverio
di diamante;
che a gli stanchi
veglianti occhi disveli
ignoti abissi e nuovi
astri ne' cieli;
notte che affacci al
nostro breve lito
le uranie immensità
de l'infinito;
svolgi avanti al
nostro essere fuggente
la cupa eternità
tutta fluente
d'astri innumeri in
loro antiche frotte;
notte siderea, muta
immensa notte,
erma notte del vigile
pensiero!
Sotto il raggiante,
immobile mistero
io veglio, io vado
fra le cose assorte
in un'estasi rigida
di morte;
e sotto il passo mio
la intirizzita
zolla che chiude in
sé l'estrema vita,
l'eterna morte,
lugubre rimbomba
con l'eco vuota di
un'antica tomba;
eco, lamento del
sepolto mondo,
che nei silenzi
gelidi, dal fondo
dei mille morti
secoli risale
interrogando l'erma
notte astrale,
sperduto, errante per
l'immenso vano,
poi si rifugia dentro
il cuore umano...
E stretta ne le fibre
aride, chiusa
in larve immote, in
pigre vene infusa,
sospinta ormai su la
frontiera estrema
de l'esser suo la
vita esita, trema
fuggitiva... La
fonte, ecco, s'arresta
in sua fuga sospesa;
la foresta
stecchita avventa immobile
le braccia
contro ad una
invisibile minaccia;
più lunge, sovra i
lividi orizzonti,
vedette antiche de la
morte i monti
mantengon la lor
veglia millenaria;
senza un ronzìo,
senza un alito l'aria
giace: soltanto nel
silenzio inane
s'odon cupe,
perpetue, lontane
le cateratte tue.
Tempo, che vai
oltre ogni sorte, e
non t'arresti mai!
Sotto noi la tua
tomba, o morta terra,
che i tuoi spenti
destini cupa serra;
su noi, lugubre
sfavillante, il gelo
de l'infinito, ed il
mister del cielo.
Spirito umano, o tu
scolta perduta
entro la immensa
indifferenza muta!
O cuore umano, triste
pellegrino,
col solitario tuo
breve destino,
solo ne l'infinite
compagnie
de l'essere per
l'erme erranti vie!
Tu superstite
estremo, o stanco cuore,
oltre la vita che
quaggiù ti muore,
quali al tuo sogno
nuove traccie indaghi
entro l'immenso
ignoto, ove s'appaghi,
o spirto, o cuore che
non vuoi morire,
la implacata tua
ansia d'avvenire?
Quale ultimo responso
a questi grandi
cieli che ti
ravvolgono domandi,
che al tuo destino ti
consoli? O quale
dal profondo del tuo
dolor mortale,
dal tuo fiammante
vertice d'amore,
messaggio estremo
vuoi gettare, o cuore,
che ne l'immensa
notte si rinfranga
d'eco in eco, e
perpetuo rimanga
dietro il tuo solco
labile vanente?
Piegan, scendono cupi
a l'occidente,
nel lor destin, con
l'immortal fatica
gli astri giganti su
la traccia antica;
e travolgendo l'atomo
che pensa,
tacita scorre la
corrente immensa
e passa e va; ma nel
presentimento
del fuggente supremo
suo momento,
lo spirito s'affaccia
su le soglie
de gli abissi
inscrutabili; raccoglie
entro l'essere suo
tutto il mistero,
e mutandolo in lucido
pensiero,
lo leva al ciel,
meteora che fenda
improvvisa la immota
ombra, ed accenda
del suo raggio
l'attonito minuto:
splende, e chiamando
fulgida il saluto
d'astri, di sguardi,
di cuori fraterni
passa, e s'immerge
nei silenzi eterni.
(Da "Un libro di
versi", S.T.E.N., Torino 1908)
VOCI MISTERIOSE
di Giovanni Pascoli
(1855-1912)
La nebbia gemica,
tira una buffa
ch’empie di foglie
stridule il fosso;
lieve nell’arida
siepe si tuffa
il pettirosso;
sotto la nebbia vibra
il vocale
canneto un brivido
quasi febbrile;
sopra la nebbia
lontano sale
il campanile;
passo, e precedemi
sul limo un gaio
stormo di passeri
quasi irridendo,
mentr’io nel plumbeo
ciel di gennaio
l’orecchio tendo.
Tendo l’orecchio nel
faticato
di pensier torbido
cielo d’inverno,
in cui forse Eschilo
meditò il fato,
Dante, l’inferno,
in cui la pallida
strega — e i ghiacciai
con rombe assidue
rompeansi a tratti —
dubitò il termine
venuto omai
scritto ne’ patti.
Come la pallida
strega, l’orecchio
tendo, anch’io,
pallido, d’antichi eventi
a voci e strepiti,
che il mondo vecchio
canta tra i venti.
Non è la nebbia che
per la piana
via le pozzanghere
trepida batte,
ma là tra l’aere
dubbio una strana
voce combatte:
pari d’Eolie lire al
concento
nell’Apollinee
splendide gare,
nuova Olimpiade sui
monti sento
rumoreggiare.
Un grido fervido,
lungo, echeggiante
Pan manda il postumo,
Pan che non muore,
Pan per le cedue
boscaglie errante
Dio vincitore.
(Da "Poesie
varie", Zanichelli, Bologna 1912)
John Henry Twachtman, "An Early Winter" |
Solo la poesia può mitigare un po'questa stagione crudele!
RispondiEliminaCrudele come non mai... speriamo che duri poco, la primavera non è così lontana.
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