Se nell'Ottocento il
malessere causato dalla solitudine trovava conforto in dolci malinconie, nel
Novecento l'essere umano solo prova soltanto spiacevoli sensazioni e non riesce
a percepire vie di fuga, consolazioni o giustificazioni tali da alleviare il proprio
dolore. Un grande poeta quale fu Salvatore Quasimodo riuscì, in soli tre versi,
ad esprimere perfettamente la condizione esistenziale dell'uomo moderno, affetto
da una solitudine cronica causata dal tipo di società in cui è costretto a vivere, dominata dal capitalismo: Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera. E che dire del primo
secolo del secondo millennio? Ai posteri l'ardua sentenza.
SOLITUDINE
di Attilio Bertolucci
(1911-2000)
Io sono solo
Il fiume è grande e
canta
Chi c’è di là?
Pesto gramigne
bruciacchiate.
Tutte le ore sono
uguali
Per chi cammina
Senza perché
Presso l’acqua che
canta.
Non una barca
Solca i flutti grigi
Che come giganti
placati
Passano davanti ai
miei occhi
Cantando.
Nessuno.
(Da "Sirio",
Minardi, Parma 1929)
MEDITAZIONE
di Gustavo Botta
(1880-1948)
Ahi!, cieca
solitudine terrena!
Ciascun vi è solo con
il suo dolore
sempiterno ed alcuna
gioia effimera.
Anche il poeta:
armonioso spirito
che, sperso tra le
genti mute, parla
e in questa cupa
notte accende stelle.
(Da "Alcuni
scritti", Ariel, Milano 1952)
CONDIZIONE
di Giorgio Caproni
(1912-1990)
Un uomo solo,
chiuso nella sua
stanza.
Con tutte le sue
ragioni
tutti i suoi torti.
Solo in una stanza
vuota,
A parlare. Ai morti.
(Da "Poesie
1932-1986", Garzanti, Milano 1989)
SOLITUDINE
di Alfonso Gatto
(1909-1976)
Sogno di fioca riva:
cielo sorto
dal trapelato amore
dell'estreme
solitudini chiuse in
uno smorto
lume tranquillo. Ed
il silenzio teme
di muover foglie, in
alito persuaso
nel declivio già
molle del profondo.
Ora s'adagia
nell'oblio, nel caso
d'una felicità
remota, il mondo.
Dimenticato mi rivela
il vento:
addormentato sul mio
corpo stretto,
penetro in rami di
freschezza il lento
approssimarsi rigido
del petto.
Tutta la terra è nel
presagio attento
del mio silenzio, in
un idillio puro:
sogno di morte
estatica, convento
di selve trattenute
lungo il muro.
(Da "Poesie
1929-1941", Mondadori, Milano 1961)
ASPETTI DELLA
SOLITUDINE
di Aleardo Kutufà
d'Atene (?-?)
Persiane chiuse
vicoletti morti,
chiostri deserti
giardini
addormentati,
pianoforti
strimpellati
da mani di fanciulle
malate di clorosi,
mattini inerti,
meriggi silenziosi;
nel tempo d'estate
pallide tende alzate
su le facciate
infrante;
qualche raro
passante;
sui palagi e su le
chiese
zone accese
di luce di vario
colore,
zone violacee
d'ombra,
vapore
saliente
che il dileguar de
l'ore
sposta lentamente.
Languore
provinciale
dell'aria dolente,
quiete domenicale
delle vie silenziose!
Quanta dolce mestizia
esalano le cose!
Spiar l'ombre
dell'ore
su le meridiane,
ascoltar le maliose
elegie delle campane,
veder salire in cielo
nuvole lontane
e vederle vanire
tra amori di
silenzio!
Sentirsi
come in esilio,
nel lentissimo
giorno!
Guardarsi d'intorno
per essere più solo.
E sentirsi nel duolo
perire
di languore
rimpiangendo l'amore,
la giovinezza, la
fede,
tutto ciò che fu
invano
e che la vita
ha distrutto.
(Dall'antologia
"L'Adunata della poesia", Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo
1929)
L'UOMO COL CANE
di Francesco
Pastonchi (1874-1953)
Ogni sera, quando
rincaso,
lo incontro. È un
signore
molto lindo,
in perpetuo lutto,
solo, con un cane
color tamarindo
sbiadito.
Ha un viso distrutto,
indefinibile, sliso,
vuotato di sguardo,
con un immoto
sorriso,
come domandasse scusa
all'aria
d'ingombrarla con la
sua persona,
delusa.
Non fosse così
persuaso
di essere nulla,
si direbbe ch'è un
servitore
di riguardo
che meni ai quieti
divaghi
il cane della vecchia
padrona.
Ma lui non è che il
suo cane.
Non è nemmeno più
stanco:
questa vita bella
non può fargli più
male.
È il cane che lo fa
camminare,
lo tira con la
cordicella,
un poco di fianco,
dall'orlo del
marciapiede,
come si tira da riva
una zattera lungo un
canale.
Lui non guarda, non
vede:
vive come niente viva
al di là del suo cane
color tamarindo
sbiadito.
Gli occhi non c'è
caso che li alzi:
passi lieve una
fanciulla
bellissima in un
nimbo d'odore,
o passi fragoroso un
traino,
sempre li tiene
bassi:
come uno che appena
s'appaghi
a le briciole del
convito.
Per lui non c'è più
cose nuove.
Curvo, come sotto uno
zaino,
muove le sue gambe
flosce:
i suoi piedi paiono
scalzi
come i piedi dei
morti
che non fanno rumore.
Ho chiesto a tutti i
vicini:
nessuno lo conosce.
Certo è di un altro
quartiere,
e vien qui a
passeggiare
questa via solitaria
tutta villette e
giardini
pieni di uccelli.
C'è tanto riposo
dalla città
furibonda,
e il cane ha tanti
cancelli
da odorare.
Vorrei fermarlo, e
non oso.
Un giorno, che mi son
mosso
risoluto a sapere
chi fosse, è svanito
(ma dove? ma dove?).
Vorrei parlargli, e
non posso.
Ho terrore che sia...
ho terrore che mi
risponda
con la voce mia.
(Da "I
versetti", Mondadori, Milano 1931)
LAVORARE STANCA
di Cesare Pavese
(1908-1950)
Traversare una strada
per scappare di casa
lo fa solo un
ragazzo, ma quest'uomo che gira
tutto il giorno le
strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d'estate
pomeriggi che fino le
piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta
per calare, e quest'uomo, che giunge
per un viale
d'inutili piante, si ferma.
Val la pena esser
solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le
piazze e le strade
sono vuote. Bisogna
fermare una donna
e parlarle e
deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla
da solo. È per questo che a volte
c'è lo sbronzo
notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti
di tutta la vita.
Non è certo
attendendo nella piazza deserta
che s'incontra
qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni
tanto. Se fossero in due,
anche andando per
strada, la casa sarebbe
dove c'è quella donna
e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza
ritorna deserta
e quest'uomo, che
passa, non vede le case
tra le inutili luci,
non leva più gli occhi:
sente solo il
selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite,
come sono le sue.
Non è giusto restare
sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente
quella donna per strada
che, pregata,
vorrebbe dar mano alla casa.
(Da "Lavorare
stanca", Einaudi, Torino 1943)
SOLITUDINI
di Salvatore
Quasimodo (1901-1968)
Una sera nebbia,
vento,
mi pensai solo: io e
il buio.
Né donne, e quella
che sola poteva
donarmi
senza prendere che
altro silenzio,
era già senza viso
come ogni cosa ch'è
morta
e non si può
ricomporre.
Lontana la casa, ogni
casa
che ha lumi di veglia
e spole che picchiano
all’alba
quadrelli di rozzi
tinelli.
Da allora
ascolto canzoni di
ultima volta.
Qualcuno è tornato, è
partito distratto
lasciandomi occhi di
bimbi stranieri,
alberi morti su prode
di strade
che non m’è dato
d’amare.
(Da "Acque e
terre", Ediz. di «Solaria», Firenze 1930)
LAOCOONTE
di Giorgio Vigolo
(1894-1983)
La peggio solitudine
dipende
da un amore smodato
di sé.
Sei così solo perché
dentro sempre
un amico geloso hai
che non vuole
vicino altro
compagno,
ma esserti, lui solo,
il solo amico,
ed è questa metà non
divisibile
che in mille divieti
ci lega.
La sua furente
gelosia ci addensa
una nuvola intorno
di paure, di ambasce
appena un'altra
compagnia ci attira.
Subito lui si sente
tradito, come serpe
ci stringe intorno al
collo la sua spira.
(Da "I fantasmi
di pietra", Mondadori, Milano 1977)
AMARA SOLITUDINE
di Giuseppe Villaroel
(1889-1968)
Amara solitudine, la
vita
trascorre
inutilmente. E questa folla
mi trascina per le
vecchie strade.
Così sospinge a galla
il mare un naufrago.
Anche tu sei
scomparso, amore. E il tempo
cancellò la tua bocca
e il tuo sorriso.
Arido cuore senza
pace. E pure,
se dal giardino della
villa antica,
ove sostammo nelle
notti estive
smemorati dai baci e
dalle lacrime,
si leva il vento e
porta la tua voce
tra le foglie e i
ricami della luna,
il sangue mi si
scioglie; e il canto fermo
dei grilli a valle e
il sonno dei cipressi
oh, come tristi
tornano al pensiero!
Nebbia che scende
lenta alle pianure
quando arriva
l'autunno e il sole è spento.
(Da "Quasi vento
d'aprile", Mondadori, Milano 1956)
Edvard Munch, "Despair"
Sono una piu'bella dell'altra. Credo si debbano udire leggerdole ad alta voce.
RispondiEliminaCredo anch'io, purché siano lette in modo adeguato.
EliminaIo ho tenuto letture pubbliche in diverse occasioni, ma diversi anni fa.
RispondiEliminaBene, chi ha recitato poesie in pubblico, anche se in tempi non recenti, sa quanto sia importante saper interpretare le parole di un determinato poeta. Devo dire che, in questo campo, l'Italia ha avuto ed ha interpreti veramente bravi; per citarne solo alcuni ricordo Vittorio Gassman, Arnoldo Foà, Nando Gazzolo, Carmelo Bene, Anna Proclemer, Giorgio Albertazzi, Vittorio Sermonti e Pamela Villoresi.
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