domenica 13 novembre 2022

Poeti dimenticati: Agostino John Sinadinò

 

Nacque a Il Cairo nel 1876 e morì a Milano nel 1956. Poeta italo-egiziano la cui esistenza è avvolta nella leggenda (di lui non si hanno notizie sicure), fu uno dei massimi esponenti del simbolismo poetico nostrano, divenendo punto di riferimento imprescindibile per i cenacoli poetici nati in Sicilia, che comprendevano scrittori più o meno famosi, come Tito Marrone, Enrico Cardile, Umberto Saffiotti ed Angelo Toscano. Fu un altro poeta però, ovvero Gian Pietro Lucini, a porlo in evidenza e a segnalarne l'importanza nell'opera critica e in parte antologica, intitolata Il Verso Libero. Le sue pubblicazioni furono rare e preziose (scomparvero dalla circolazione in brevissimo tempo). Verso la fine del settimo decennio del XX secolo, grazie al critico letterario Glauco Viazzi che lo inserì in diverse antologie da lui stesso curate, il Sinadinò venne riscoperto; fu ancora Viazzi che curò un'antologia esauriente delle sue opere in versi, mentre alcuni anni fa è stato finalmente ristampato il volume più rivoluzionario e oscuro del poeta italo-egiziano: La Festa. Poeticamente, Sinadinò può essere definito un convinto seguace di Mallarmè, ma certamente va ben distinto dal maestro francese, per un timbro del tutto personale che ha permesso la nascita e lo sviluppo di un autentico simbolismo italiano.

 

 

Opere poetiche

 

"Le Presenze invisibili", Cartoleria & Tipografia A. Zoller, Alessandria d'Egitto 1898.

"Melodie", Stamperia del Tessin-Touriste, Lugano 1900.

"La Festa", Tipografia del Tessin-Touriste, Lugano 1901.

"Il Dio dell'Attimo", Stabilimento A. Mourès, Alessandria d'Egitto 1910.

"Il Dio dell'Attimo" (2° ed. ampliata), Bottega di Poesia, Milano 1924.

"Vitae subliminalis Aenigmata", Corbaccio, Milano 1934.

"Poesie", Guida, Napoli 1972.

 



 

Presenze in antologie

 

"Il Verso Libero", a cura di Gian Pietro Lucini, Edizione di Poesia, Milano 1908 (pp. 607-611).

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. I, pp. 178-183; vol II, pp. 231-241; vol. III, pp. 242-250).

"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (Tomo primo, pp. 137-147).

 

 

Testi

 

 

PERSUASIONE ALLE TRISTEZZE IRRIMEDIABILI

 

   Se, d'invisibili corni, flutti di vaporate viole, sogni e preghiere, evanescenze e trame, labilmente, la Sera effonda...

 

   mani di penombre pensose esàgitino in cadenza floreali turiboli...

 

   ali viaggiatrici d'aromi nostagici soavemente melòdino eccessive dolcezze...

 

   silenzi altissimi règnino i luoghi selvaggi mitigati dai muschi e dai mirti...

 

   ho persuaso dolcemente alla pallida anima nove e irrimediabili tristezze:

 

                    _________

 

   Sonorità ebre di campane, tanto stancamente apparse nel dormi-veglia d'una mattina domenicale, mentre che i naufraghi entravan nel porto;..

 

   Dissonanze armoniche d'uma melodia nordica, solcate da gli aròmati dei giardini esausti;..

  

   L'anima di un vedovo assalita dall'odore fiero dell'intònaco, nella stanza della defunta recente;..

 

   Il dono ingenuo d'una vita in uno sguardo troppo lento;..

 

   Un fervore perdutamente solitario;..

 

   E una visitazione di dolcezze senza scampo;..

 

   Una presenza inesplicabile in un sogno sereno;..

 

   E il rimpianto anteriore delle cose che non possederemo mai;..

 

   Delle parole e dei gesti che non esprimeremo mai;..

 

   I mali ignoti d'un destino superiore;..

 

   E tutte le musiche e tutti i poemi e tutti gli universi irrivelati ancòra;..

 

   Il rimpianto di sonorità defunte;..

 

   Una progressione cromàtica interrotta - (senza rimedio);..

 

   La dolente captività d'un fuggitivo amore;..

 

   E tutto l'indicibile d'un'anima che si vela;..

 

   L'attesa misteriosa d'una rivelazione;..

 

   Una monotonia d'acque piangenti senza posa;..

 

   Un remoto stormire di rame patetiche, una notte di stupori e di calme;..

 

   Ed ogni fede ed ogni sogno ed ogni pensiero ed ogni audacia ed ogni smarrimento inutili;..

 

   E le fisionomie strane di certe vecchie cose consunte;..

 

   E i molli labri che cedono ad un bacio ambiguo;..

 

   E la glosa tiepida delle piove d'autunno a traverso un sonno debole;..

 

   Ed un amore che sia come il Sogno d'un Sonno senza fine;..

 

   E i giochi infantili d'un mentecatto;..

 

   Fievoli lance di sole su l'origliere d'una malata longànime;..

 

   Ed il tepor de' capelli d'una giovine donna troppo amata;..

 

   Ed una bocca appassita innanzi tempo;..

 

   E tutte le infermità tènere e delicate d'una creatura sensitiva;..

 

   La morbidezza acuta delle sensazioni musicali;..

 

   La nebulosa imprecisione delle sensazioni gaie;..

 

   Ed il presentimento oscuro di più sottili sensi;..

 

   La stupefazione appassionata delle anime semplici;..

 

   E la lassitudine torpida che invade le membra esasperate dei voluttuarî, come un avvertimento e come una persuasione capziosa a morire;..

 

   E tutte le fallaci apparenze;..

  

   Le irrimediabili tristezze mortali;..

 

   La tristezza delle pietre;..

 

   Vivere, dover vivere;..

 

                       ________

 

   ...Come ebbe ascoltate tutte le tristezze, le immemorabili e irrimediabili tristezze della terra; come la giornata fu spenta, ed il mio canto fu spento, ed ogni brama ed ogni speranza furono spente.., l'Anima (a similitudine d'una vergine che si ridesti d'un lungo e innaturale sopore) dolcemente si lasciò trarre alla persuasione...

 

(da "Le presenze invisibili", Zoller, Alessandria d'Egitto 1898, pp. 9-18)

 

 

 

 

LE NUVOLE

 

  Un'orchestra di rose

rompe su da i cipressi

di San Miniato (fasci

di gridi ardui, inespressi).

 

  Una quadriga barbara

fingono ver' lo specchio

biondo lascivo; irrùe

fin sopra il Ponte Vecchio.

 

  Si sfanno. Indi uno stanco

figurano asfodèlio

vòlto d'adolescente

velenato d'aromi.

 

(da "Melodie", Lugano 1900)

 

 

 

 

Da "TEOFANIA"

 

  Rutilando giùbili d'oro,

dai novissimi preludi

dell'Avvento, m'è delicata disciplina

e salutévole il sapore d'una

TRISTEZZA,

           (- modulata gli accordi floreali -) errante

lungh'esse le geometrie de' tuoi giardini,

                                           o Monarca

PENSIERO! -

 

  Legge ella con infinito diletto: Paludes, e va scegliendo

gli àridi viali e la sua tenerezza si duole - senza alimento -

e le sue mani di làgrime fànno

lentamente il gesto di chi volge

le pàgine (deluse) - con fruscìo. -

                             Se la sera s'accasci, s'accascia

ella, come una vuota visione; piange, smarritamente,

come una piova.

    Sopravvéngono allora

le Silenziarie (sogni?...) per comporle un'armònica

morte.

Unànime il mistero

notturno s'accresce, vi discende, di suoni, liquidamente, ma

più nel luogo d'allegoria dove

il suo corpo leggiero si giace.

 

(da "La Festa", Tessin-Touriste, Lugano 1901)

 

 

 

 

SENSUALITÀ

 

  La sensualità del Poeta è un'azzurra fontana di amore tramato, che, a pena tocchi la delicata opacità delle apparenze, di quel toccare solo beata, ivi si frange - riconoscente. -

 

  Tutto che muore vivrà. Tutto che vive morrà.

 

  Tutto che muore è dolce: le foglie; le mani; le tenere pupille delle donne. Con il dolor che le cangia e ferisce, con la sostanza del Dolore puro, il Poeta le foggia immortali.

 

  È nel mistero della Voluttà che bisogna ricercare il senso Dolore-Musica o Vita.

 

  Il Tempo m'apparirebbe sì un malato di «dandysmi» delicati, che più non soffra il verberare duro di asperità e soltanto sopporti le caducità tenere; intermesse gamme semitonate; belletti fascinatori della polvere e di ceneri; dissolvimenti; immoralismi e rovine.

 

  Nel mio soffrire più acuto è non so qual segreta gioia.

  Forse ch'io contemplo, allora, in me trasfigurata e sororale, la divina fugacità delle cose che più amo.

 

(da "Il Dio dell'Attimo", Bottega di Poesia, Milano 1924, pp. 16-17)

 

 

 

 

 

 

domenica 6 novembre 2022

Riviste: «La Riviera Ligure»

 

La Riviera Ligure è il titolo di una rivista letteraria che nacque ad Oneglia, e che fu pubblicata tra il 1899 ed il 1919. Sebbene, in realtà sia nata nel 1895, sotto il titolo Riviera di Ponente, nei primi quattro anni della sua vita, che videro la direzione di Angiolo Silvio Novaro,  la rivista si occupò prevalentemente di realtà strettamente legate alla regione Liguria; nel contempo, essa aveva lo scopo di sponsorizzare l’industria olearia Sasso. Dal 1899, con il cambio del direttore (Angiolo Silvio lasciò il posto al fratello minore Mario), la rivista diede alle sue pagine un’impronta esclusivamente letteraria, ospitando i versi e le prose di illustri scrittori; tantissimi sono i nomi che comparvero all’interno della Riviera Ligure con articoli, poesie, prose poetiche e narrative; tra gli altri si ricordano: Giovanni Pascoli, Luigi Pirandello, Giovanni Cena, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Enrico Pea, Guido Gozzano, Umberto Saba, Emilio Cecchi, Corrado Govoni, Piero Jahier, Clemente Rebora, Marino Moretti, Camillo Sbarbaro, Scipio Slataper ecc. Nei vent’anni in cui la Riviera Ligure mantenne la sua costante presenza nelle edicole italiane, fu sempre un esempio di garanzia per i lettori più avveduti, offrendo ad essi un panorama letterario diversificato, che sapeva tenere in conto sia le vecchie che le nuove tendenze, fino a divenire un punto di riferimento imprescindibile per studiare più a fondo la migliore letteratura italiana del primo ventennio del Novecento. Mario Novaro mantenne la direzione sino alla fine delle pubblicazioni, e le uscite della rivista, inizialmente bimestrali, a partire dal 1905 divennero mensili. Infine trascrivo tre famose poesie che apparvero, per la prima volta, sulla Riviere Ligure.

 

 

Prima pagina di un numero della Riviera Ligure

 

 

LA TESSITRICE

di Giovanni Pascoli

 

Mi son seduto ne la panchetta

come una volta... quanti anni fa?

Ella, come una volta, s'è stretta

ne la panchetta.

 

E non il suono d'una parola;

solo un sorriso tutta pietà.

La bianca mano lascia la spola.

 

Piango, e le dico: Come ho potuto,

dolce mio bene, partir da te?

Piange, e mi dice d'un cenno muto:

Come hai potuto?

 

Con un sospiro quindi la cassa

tira del muto pettine a sè.

Muta la spola passa e ripassa.

 

Piango, e le chiedo: Perchè non suona

dunque l'arguto pettine più?

Ella mi fissa timida e buona:

Perchè non suona?

 

E piange, piange - Mio dolce amore,

non t'hanno detto? non lo sai tu?

Io non son viva che nel tuo cuore.

 

Morta! Sì, morta! se tesso, tesso

per te soltanto; come, non so;

in questa tela, sotto il cipresso

accanto alfine ti dormirò.

 

(da La Riviera Ligure n. 27, 1901)

 

 

 

 

TOTÒ MERÙMENI

di Guido Gozzano

 

I.

Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei

balconi secentisti guarniti di verzura,

la villa sembra tolta da certi versi miei,

sembra la villa-tipo del Libro di Lettura.

 

Pensa migliori giorni la casa triste, pensa

gaie brigate sotto gli alberi centenari,

banchetti illustri nella sala da pranzo immensa

e danze nel salone spoglio da gli antiquari.

 

Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,

Casa Rattazzi, Casa d'Azeglio, Casa Oddone,

s'arresta un'automobile fremendo e sobbalzando,

villosi forestieri picchiano la gorgòne.

 

S'ode un latrato e un passo, si schiude cautamente

la porta... In quel silenzio di chiostro e di caserma

vive Totò Merùmeni, con una madre inferma,

una prozia canuta ed uno zio demente.

 

II.

Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,

molta cultura e gusto in opere d'inchiostro,

scarso cervello, scarsa morale, spaventosa

chiaroveggenza… È il vero figlio del tempo nostro.

 

Non ricco, giunta l'ora di «vender parolette»

(il suo Petrarca!) e farsi baratto o gazzettiere,

Totò scelse l'esilio. E in libertà riflette

ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.

 

Non è cattivo. Manda soccorso di danaro

al povero, all'amico un cesto di primizie.

Non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro

pel tema, l'emigrante per le commendatizie.

 

Arido, consapevole di sé e dei suoi torti,

non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche:

«In verità derido l'inetto che si dice

buono, perchè non ha l'ugne abbastanza forti...»

 

Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca

coi suoi dolci compagni sull'erba che l'invita;

i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,

un micio, una bertuccia che ha nome Macakita.

 

III.

La Vita si ritolse tutte le sue promesse:

egli sognò per anni l'Amore che non venne,

sognò pel suo martirio attrici e principesse,

ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

 

Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,

fresca come una prugna al gelo mattutino,

giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza

su lui che la possiede, beato e resupino.

 

IV.

Totò non può sentire. Un lento male indomo

inaridì le fonti prime del sentimento.

L'analisi e il sofisma fecero di quest'uomo

ciò che le fiamme fanno d'un edificio al vento.

 

Ma come le ruine che già seppero il fuoco

esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,

quell'anima riarsa esprime a poco a poco

una fiorita d'esili versi consolatori.

 

V.

Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende

quasi è felice. Alterna l'indagine e la rima.

Chiuso in se stesso vigila, s'accresce, esplora, intende

la vita dello spirito che non intese prima.

 

Perchè la voce è poca, e l'arte prediletta

immensa, perché il Tempo - mentre ch'io parlo - va,

Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.

E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.

 

   Agliè (canavese) 20 Ottobre 1910.

 

(da La Riviera Ligure n. 133, 1911)

 

 

 

 

PAUSA

di Camillo Sbarbaro

 

Taci, anima stanca di godere

e di soffrire (all'uno e all'altro vai

rassegnata).

Nessuna voce tua odo se ascolto.

Non di rimpianto per la miserabile

giovinezza, non d'ira o di speranza,

e neppure di tedio.

                            Giaci come

il corpo, ammutolita tutta piena

d'una rassegnazione disperata.

Noi non ci stupiremmo

non è vero mia anima, se il cuore

si fermasse, sospeso se ci fosse

il fiato...

                      Invece camminiamo.

camminiamo io e te come sonnambuli.

E gli alberi son alberi, le case

sono case, le donne

che passano son donne e tutto è quello

che è, soltanto quel che è.

La vicenda di gioia e di dolore

non ci tocca. Perduta ha la sua voce

la Sirena del mondo, e il mondo è un grande

deserto.

                               Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.

 

(da La Riviera Ligure n. 146, 1913)

 

martedì 1 novembre 2022

Pavana

 

Al ritmo lento, instancabile, di una triste pavana

sfiorivi. Nella stanza non c'eri che tu fra morte,

cieche cose. Smettevi. Filtrando dalla persiana

il sole un po' ti abbagliava. Basta col pianoforte.

 

Ma eccoti poi già tornata solitaria e insistente

a suonare, a suonare. Oh la noia, il novembre

della tua noia... Però infine era sempre

di nuovo notte. E ti alzavi ormai indifferente.

 


 


COMMENTO

Pavana è il titolo di una poesia di Giorgio Bassani (Bologna 1916 – Roma 2000) che fa parte del primo volume di versi dello scrittore emiliano, intitolato Storie di poveri amanti e altri versi (edito da Astrolabio, in Roma nel 1945). Fu esclusa da Bassani, nella sua severa selezione presente nella raccolta ricapitolativa L’alba ai vetri (Einaudi, Torino 1963); al contrario, la si può di nuovo leggere sia nel Meridiano della Mondadori Opere (1998) - che comprende anche gran parte delle prose di Bassani -, sia nel recente volume Poesie complete (Feltrinelli, Milano 2021). Io la lessi per la prima volta in un’antologia della poesia italiana del Novecento di circa trent’anni fa, e subito mi piacque, per quell’atmosfera crepuscolare che la caratterizza. Negli otto versi di Pavana, infatti, si parla di una donna, probabilmente sola e attempata, che trascorre intere giornate in casa. Per vincere la noia, che inevitabilmente la tormenta, essa si diletta a suonare un pianoforte situato in una delle stanze della sua dimora (forse la sala da pranzo); fin dalle prime ore del mattino, ella ama ripetere le note di una pavana, che evidentemente rientra nei suoi pezzi preferiti, e che ha un andamento blando e triste. Questo passatempo la fa stancare, anche perché, dalla finestra vicina filtrano i raggi del sole che la abbagliano e la disturbano. Ma dopo una pausa più o meno lunga, la donna, forse perché non riesce a fare altro o forse perché la solitudine diviene insopportabile, torna al suo amato pianoforte, e ricomincia a suonare le note di quella danza antica. Negli ultimi tre versi, il poeta sembra compatire questa figura femminile che viene sovrastata dalla noia e passa le giornate in casa, suonando e risuonando le medesime note fino a che non giunge la notte e il conseguente sonno. L’ultimo verso, invece, pone in primo piano la rassegnazione che, ormai, la donna prova per tutto ciò che la circonda. Ogni mattina, al risveglio, essa fa le solite cose, non chiedendosi più il motivo dei suoi ripetuti comportamenti, e neppure spera più in un cambiamento nella sua vita quanto mai monotona.