mercoledì 26 dicembre 2012

L'inverno nella poesia italiana decadente e simbolista

Leggendo i versi dei poeti italiani attivi tra il ventennio che precede il XX secolo e quello che lo segue, ovvero nel periodo in cui si svilupparono alcune correnti artistiche e poetiche molto importanti (il simbolismo su tutte) e, cosa fondamentale, tutte collegate tra loro, si notano parecchi riferimenti alla stagione invernale, con molte descrizioni di paesaggi gelidi e spettrali, che assurgono a simboli piuttosto specifici e facilmente identificabili. La morte è quello più evidente. Se però è vero che in inverno si esaurisce il ciclo vitale della natura e molti esseri viventi o muoiono o si addormentano in attesa della rinascita primaverile, non è quasi mai questo il bersaglio dei poeti presi in esame; per costoro infatti la morte è riferita alla loro anima. Il motivo di tale, triste evento è possibile ricercarlo in svariati fatti della vita: una delusione amorosa, la fine delle illusioni giovanili, lutti o gravi eventi personali; ma non è da scartarsi che questa propensione all'aridità spirituale nasca da convincimenti filosofici sul significato (o, meglio, sul non significato) della vita umana; non a caso, una poesia di Guido Gozzano, compresa ne "I colloqui", che s'intitola "Invernale", mostra in maniera inequivocabile il pensiero nichilista del poeta piemontese, anche se la presenza dell'inverno e, specificatamente, del ghiaccio, è solo un pretesto per metterlo in luce. Ecco al dunque una serie di poesie sull'inverno che spaziano più o meno nell'arco di un quarantennio e che rispecchiano le tendenze letterarie di un'epoca irripetibile per originalità e fascino.
 
 
PAESAGGIO
di Luigi Gualdo (Milano 1847 - Parigi 1898)


Senza rumore, immacolata e lieve,
Sovra il ghiaccio del lago smerigliato
In linee lunghe scende ognor la neve
E bianco sembra l'aere rigato.

E fino agli orizzonti indefiniti
Tutto è candore. In sulle opposte rive
Pendono gigantesche stalattiti
Coperte di diamanti e luci vive.

Si disegnano i rami delle piante
In bianco sovra il cielo grigio e smorto.
I fiori son spariti e tutte quante
Le frondi e l'erbe. Ed ecco tutto è morto

Per un tempo e sepolto nell'inverno.
Così tace talora ogni desìo
E sembra spento pure ciò ch'è eterno
Sotto il manto di neve dell'oblìo.

(Da "Le nostalgie", Casanova, Torino 1883)
 
 

 
 

A LORENZO DELLEANI
di Giovanni Camerana (Casal Monferrato 1845 - Torino 1905)


A quest’ora, Lorenzo, il Santuario
Del tuo intelletto e del cor mio, le arcate
Grigie, i calmi cortili e la chiesuola
Sembrano tombe;

Quattro palmi di neve, un ciel di morte,
Chiuso il dì nella bruma orrida, cupe
Più che un abisso le notti, entro i quattro
Palmi di neve;

E per gli intercolunnii del Juvara
Gemon le tube della tramontana
Lugubremente; e son, nel freddo atroce,
Gli atrii deserti.

Così, Lorenzo, nel crescente inverno,
Nella profonda sua conca di monti,
Il Santuario che adoriam sonnecchia
Triste in quest’ora;

Ma nella chiesa, dietro il queto altare,
Tra i fior, tra i lumi della cripta d’oro,
Sovra la gloria degli incensi e sovra
L’onda dei canti,

Versa dal trono il pio grave sorriso
La statua negra; fùlgura il triregno
Imperial, fiammeggia il largo petto
Pien di diamanti;

Gitta fuoco i rubini, gli smeraldi
Paion remoti astri notturni, e splende
Come un tramonto d’autunno, il topazio;
La perla è un’alba;

Così ancor splende, nel crescente inverno
Del duolo mio, la indeprecabil notte
Vincendo, arcano sole, un fascinante
Sguardo di sfinge!

(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)
 
 

 
 
TERRIBIL SIRENA INVERNALE
di Enrico Panzacchi (Ozzano dell'Emilia 1840 - Bologna 1904)


Par dentro alla neve, tra gli alberi,
la piccola casa sepolta.
Tu canti; e non sai nella tenebra
chi fuori, pensoso, t'ascolta;

t'ascolta cantare, cantare
in mesti volubili metri.
Rosseggian riflesse nei vetri
le fiamme del tuo focolare.

Ho freddo. Nei sensi, nell'anima
mi filtra un affanno mortale.
Tu evochi le care memorie,
terribil sirena invernale!

Danno echi d'angoscia e di pianti
gli avori del tuo pianoforte;
un tetro pensiero di morte
esala ne' dolci tuoi canti.

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)
 
 
 


 
GIORNO D'INVERNO A LUNGHEZZA
di Diego Angeli (Firenze 1869 - Roma 1937)


Scende sui campi tacita la neve.

Tra gli olmi senza foglie ove gli amanti
non vengon più ridendo a passeggiare,
(quante volte a primavera e quanti
trilli di cince invitano ad amare!)
S'odono i corvi a torme crocidare
sulle rame al riparo della neve.

E la neve discende come un bianco
velo, sui campi dove tutto è muto.
Il cielo è bianco ed il terreno è bianco
morbido come un manto di velluto.
Sembra un grande paese sconosciuto
nel dominio dei ghiacci e della neve.

Io penso una goletta prigioniera
chiusa fra i ghiacci sulla via del Polo;
non un àlbatro giunge per la nera
notte al naviglio abbandonato e solo.
È come un punto sperso entro quel suolo
fragile, nel deserto della neve.

(Da "La Città di Vita", Tip. dell'Umbria, Spoleto 1896)
 

 
 
 
INVERNO
di Vincenzo Morello (Bagnara Calabra 1860 – Roma 1933)


Solo, un albero vive, flagellato,
ne la nivea campagna, e le contorte
braccia dal tronco ne la nebbia avvolto,
come una croce, lunghe e nere espande.
Giganti nubi mostruose il cielo
velocemente corrono, mutando
forme e colori. Su le nubi, un brano
d'arcobaleno. In lontananza, l'eco
di lunghi tuoni, giù, verso ponente.
Io guardo e odo, stupefatto. Ei pare
che fuor di me, ne la tempesta, intorno,
il morto mondo dell'anima mia
riviva ancora. Quelle nubi nere
non son le tristi imagini del cuore
innamorato? Fra le nubi l'eco
lontana, non è l'eco del mio grido
di spavento? Non è quell'infelice
albero rotto il vergin mio pensiero
in un perenne martirio di vita?

Io guardo ed odo. E uno sgomento fiero
mi assale, mentre incalza la tempesta,
nel sentir fuor di me l'anima mia.

(Da "Pulvis et umbra", Forzani, Roma 1897)
 
 
 

 

I SANTI DI GHIACCIO
di Pier Angelo Baratono (Roma 1880 - Trento 1927)


Tre santi, tre signori
di ghiaccio, tre pallori,
dormon, gli occhi socchiusi, dentro grotte
lontane, e solo a notte
sporgono fuori i volti.
Stanno d'attorno accolti
accidiosi e torpono i paesaggi.

Attendono quei saggi
l'inverno per lasciare la dimora.
Poi vanno, ove scolora
la neve in bianco i campi ed i paesi,
a chiedere cortesi
un rifugio alle genti.
Ma dovunque si volgan quegli accenti,
ghiaccian uomini e cose.

Cercano popolose
contrade, e per le ville
lasciano a mille a mille
le vittime. Colpite
di gelo, irrigidite
formano lunghe file sul cammino.
Volgon le piante in pietre: e l'occhio sino
all'estremo confine
scorge solo rovine
di cose già vissute ed ora morte.
Ma quando le sue porte
apre nel cielo primavera, scioglie
il sole dalle spoglie
rigide quei ghiacciati.

Tornano allora i tre agli abbandonati
luoghi e alle grotte,
donde soltanto a notte
sporgono i visi bianchi.
Quivi riposan quei tre corpi stanchi,
sin che li chiami un nuovo
inverno fuori del lontano covo.

(Da "Sparvieri", Montorfano, Genova 1900)
 


 
 
 
INCIPIT VITA NOVA, III
di Pietro Mastri (Firenze 1868 - ivi 1932)


L' alba, una vasta ondata
di luce limacciosa,
tra un fluttuar di nubi senza posa,
ecco, allagava a poco a poco il cielo
di livido chiarore.
L'alba d'inverno, l'alba desolata;
muta, senza colore,
e senza un dolce sussurrar di fronda
e senza un cinguettìo che gli risponda;
sparsa di fiori morti, i fior del gelo!

Pur, come venne il giorno
melanconicamente,
io non mi vidi attorno
se non festosa gente.
Parea che il cuore prono
degli uomini, a siffatto ben non uso
e grato come d'un immenso dono,
levasse in alto, oltre quel cielo chiuso,
l'inno più lieto che levar si può.

(Da "L'arcobaleno", Zanichelli, Bologna 1900)
 

 
 

 
SOLE INVERNALE
di Arturo Graf (Atene 1848 - Torino 1913)


Candida e lieve le indurate ajuole
Copre la neve e il nudo poggio e i prati:
Rosseggiando, fra gli alberi sfrondati
Traluce l’occhio del cadente sole.

Il sanguigno fulgor, che incerto e breve
Tra i negri rami intirizziti splende,
Falde d’accesa porpora distende
E lembi d’oro sulla bianca neve.

Terra, il novo saluto e le promesse
Del sol ricevi: ancor rinverdirai;
Ancor, sciolta dal gel, ti coprirai
Di vaghi fiori e di gioconda messe.

Ma tu, mio cor, tu dall’antico lutto
Mai più, mai più non ti sciorrai. Che giova
Il sole a te? mio cor, chi ti rinnova?
Tu non darai mai più fiore né frutto.

(Da "Morgana", Treves, Milano 1901)
 
 
 

 

NOTTE D’INVERNO
di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912)



Il Tempo chiamò dalla torre
lontana... Che strepito! È un treno
là, se non è il fiume che corre.

O notte! Né prima io l’udiva,
lo strepito rapido, il pieno
fragore di treno che arriva;

sì, quando la voce straniera,
di bronzo, me chiese; sì, quando
mi venne a trovare ov’io era,
     squillando squillando
     nell’oscurità.

Il treno s’appressa... Già sento
la querula tromba che geme,
là, se non è l’urlo del vento.

E il vento rintrona rimbomba,
rimbomba rintrona, ed insieme
risuona una querula tromba.

E un’altra, ed un’altra. - Non essa
m’annunzia che giunge? - io domando.
- Quest’altra! - Ed il treno s’appressa
     tremando tremando
     nell’oscurità.

Sei tu che ritorni. Tra poco
ritorni, tu, piccola dama,
sul mostro dagli occhi di fuoco.

Hai freddo? paura? C’è un tetto,
c’è un cuore, c’è il cuore che t’ama
qui! Riameremo. T’aspetto.

Già il treno rallenta, trabalza,
sta... Mia giovinezza, t’attendo!
Già l’ultimo squillo s’inalza
     gemendo gemendo
     nell’oscurità...

E il Tempo lassù dalla torre
mi grida ch’è giorno. Risento
la tromba e la romba che corre.

Il giorno è coperto di brume.
Quel flebile suono è del vento,
quel labile tuono è del fiume.

È il fiume ed è il vento, so bene,
che vengono vengono, intendo,
così come all’anima viene,
     piangendo piangendo,
     ciò che se ne va.

(Da "I canti di Castelvecchio", Zanichelli, Bologna 1903)
 
 

 
 
RIME DELL'INVERNO
di Sergio Corazzini (Roma 1886 - ivi 1907)


Dolce l'autunno tanto
che pensammo un ritorno
al più soave giorno
d'aprile! Quale incanto

diffuse primavera
oltre i tiepidi orti
che la chiudon? ne porti,
autunno, la leggiera

anima nel tuo cuore
vecchio? C'è qualche cosa
di lei che l'angosciosa
morte con te oggi muore.

Non la tenne un'acuta
nostalgia di fiorire,
una voglia di aprire
le porte di ogni muta

villa, i cancelli di ogni
giardino, ormai diserto,
e dopo avere aperto
tutto, ridere in ogni

angolo il fresco riso
della sua giovinezza,
godere la tristezza
del vecchio inverno irriso?

Anima folle! Stanco
il dolce autunno cede.
e l'occhio tuo non vede
un lenzuolo bianco,

immenso come il cielo,
che si stende, si stende?
Non senti in cuore scendere
quasi mortale un gelo?

Come tenne l'inganno
le nostre anime, forte!
Sognavamo alla morte,
il principio dell'anno!

(Da «Gran Mondo», 26 novembre 1904)
 
 
 

 

LA NOTTE D'INVERNO
di Tito Marrone (Trapani 1882 - Roma 1967)


Non s'ode altro rumore nel silenzio
che d'una polla il roco
     gorgoglio. Fioco
lume le stelle mandano.

Vigilano nell'ombra immoti gli alberi,
e non trafiata vento.
     Gemere sento,
come ferita, l'anima.

Silenzio. Più non tremano
stelle nell'alto cielo.
     Profondo gelo
tutte le membra invademi.

Silenzio. Più non brontola
l'acqua. Ogni cosa è morta.
     S'apre una porta,
per me, nell'Ade pallida.

(Da "Liriche", Artero, Roma 1904)
 
 
 

 

MATTINO D'INVERNO
di Augusto Ferrero (Bologna 1866 - 1924)


Il sole sorge dietro la collina,
Destansi al riso luminoso i tetti
dal biancheggiar della notturna brina.
Paiono, nella limpida mattina,
rinnovellarsi i circostanti aspetti:
e fra un tumultuar dolce di affetti
tu emergi: e il cuor, tremando, a te si inchina.
                                                                   
                                                                                     Natale 1894.
(Da «Nuova Antologia», 16 settembre 1906)
 
 
 

 

ALBA D'INVERNO
di Antonino Anile (Pizzo Calabro 1869 - Raiano 1943)


Odo: par che un'ignota pianga
anima sgomenta:
che batta pei morti una vanga,
nel freddo rovaio che venta;

pare che una cetra sonora,
sotto stanche dita,
s'infranga, d'un tratto; che l'ora
suoni di un'angoscia infinita.

Una nebbia opaca diaccia
finge atri fantasmi.
Nudi i rami d'alberi braccia
paiono contorti da spasmi.

Il cielo basso, tra lo strappo
delle nubi grige,
mi sembra un funereo drappo
che serbi del mondo l'effige.

Occhi vitrei, nel dubbio lume,
si guardan tra loro.
Dove, o sole, fluttua il fiume
della tua grande anima d'oro?

A tratti, un gelido torpore
mi pervade i sensi.
O sole, o sole, che il mio cuore
naufraghi nei tuoi flutti immensi!

(Da "La croce e le rose", Ricciardi, Napoli 1909)
 
 

 
 

PELLEGRINAGGIO INVERNALE
di Carlo Chiaves (Torino 1882 - ivi 1919)


L'altro giorno - non so da qual coraggio
l'anima a un tratto mi sentissi invasa -
son tornato a la tua piccola casa
coi miei ricordi, in pio pellegrinaggio.

Sono tornato quasi in sogno: attratto
da quel senso che si compiace e appaga
come di un gioco, di inasprir la piaga,
di ravvivarla, in fondo al cuor disfatto.

Varcato il fiume, presi, lento, lento,
a salir per la via de la collina:
splendeva il sole e tanta era la brina
che ogni ramo parea quasi d'argento.

Ho rivista la panca, tutta verde
di musco; il ponticello; la fontana
ghiacciata: più non canta in voce umana
e solo a goccie giù l'acqua disperde.

Giunsi e varcai la soglia: che deserto,
il giardino! che schianto! le tue rose,
morte! e i gerani! quante morte cose!
Una donna è venuta, che mi ha aperto.

Son salito a la tua camera: nuda
come un sepolcro, tutto chiuso, oscuro!
proprio di fronte al letto, contro al muro
sai che ho trovato? una donnetta nuda!

Quella ch'io t'ho mandato, e su cui c'è
scritto... ma tu lo sai cosa c'è scritto!
io me la son ripresa, zitto, zitto,
se non ti spiace, la terrò con me.

Son ridisceso, errando pel giardino
vivo sol di memorie, quasi un'ora.
La vecchietta mi ha chiesto - E la Signora? -
Non risposi: rimasi a capo chino.

Pure comprese: tentennò la testa,
poi disse piano, ma in tono profondo:
- Come l'estate passa presto al mondo!
Solo l'inverno e la miseria restano! -

Che tristezza, che angoscia, nel ritorno!
Guardava io pei giardini ampi e deserti,
e tutti i luoghi mi pareano esperti
di tradimento e di pietà, quel giorno!

Cadea la sera. In basso, fra le brume,
per le tremule fiamme dei fanali,
si costellava la città di opali.
Qualche bagliore si frangea, nel fiume.

Pur, mentr'io mi sentiva il cor più stretto
da le angoscie de la malinconia,
vidi due amanti, a basso de la via,
salirne verso me, lenti, a bracetto.

Pensai - Forse ridesto da l'eterno
rimpianto, il sogno di qui mi fa ritorno? -
Ma lei diceva - Già declina il giorno:
che peccato che duri ancor l'inverno!

- Ascolta, amico, ascolta! - Ebben, che vuoi? -
- Quanta serenità! che bella sera!
ritorneremo questa Primavera?
- Cara! - ei ripose - E prima, certo! - e poi!

(Da "Sogno e ironia", Lattes, Torino 1910)
 
 

 
 

UNA SERA D'INVERNO ALLA FINESTRA
di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (Ortonovo 1871 - Genova 1919)


                               ... Una divina
malinconia mi bacia, e di sua ombra
mi ravvolge. Io sospiro. E il mar, intanto,
già irrequieto, sotto il pallor lento
de l'occaso sereno illividisce
e il gemer cresce. Quel mutar del giorno
ne la notte, io pendendo a la finestra
immobil seguo e una tristezza eterna
con disperata illusion ne libo.
Alcun forse, guardando, mi potrebbe
creder un sasso, così giunto io sono
al davanzale; o forse un vaso spoglio
di rametti e fiori, o forse un'ombra,
ma non un uomo: né pensier né cuore.
E il Tirreno s'infosca, e giù da monti
il vento con garrir lungo vi spazia;
e già la notte, i promontori, e i golfi
e le riviere oscuramente addensa
a l'orizzonte che s'appressa; e un astro
piange su quel deserto. Ahi! Che più vasta
solitudine è il cuor; né vi risplende
balen di stella; sol dubbi e ricordi
vi rimescon lor ansia con un lento
urlo di fiotti su deserto lido,
una sera d'inverno...

               una sera d'inverno, Lavagna, 1907

(Da "Sonetti e poemi", Traversari, Empoli 1910)
 
 

 
 

INVERNI DI PROVINCIA
di Arturo Foà (Cuneo 1877 - 1944)


Oggi vi penso, inverni di provincia,
nelle tepide stanze, sulle strade
ove la neve a larghi mucchi gela.

Melanconia dei brevi giorni, e cara
dolcezza delle taciturne sere
fra il camino e la tavola, nel raggio
della centenne lampada custode!

Parton dal fuoco piccole parole,
onde, chi veglia, dal suo mover d'aghi,
o dal suo studio a brevi tratti sosta,
ed ascoltando, ad occhi aperti, sogna.

(Da "Le vie dell'anima", Lattes, Torino 1912)
 
 

 
 
LA VILLA D'INVERNO
di Diego Garoglio (Montafia 1866 - Asti 1933)


                                                          a Pier Lodovico Occhini

Chiusa, muta la villa solitaria
che guarda la città, la valle, i poggi
al vespero nell'aria
frigidamente adamantina roggi.

Irrigiditi gli alberi del parco
a guisa di cadaveri, la fonte
irrigidita, il varco
d'ogni recesso aperto a l'orizzonte.

Quanta tristezza! E memori del sole
i fiori nella vitrea tepente
prigione: le viole,
i mughetti, una rosa invano aulente

nella prigione per sfiorire invano!
Ma gaudiosamente, amico, il viso
tuo disse: "Per la mano
di lei son tutti per un suo sorriso!"

E il cuore a te fiorìa come un giardino
olezzante, nel sogno dell'amore,
e il vespero un mattino
ti parea, l'aria frigida un tepore

di primavera Ma triste la villa
pareva a me nella fredda agonìa
del giorno, una pupilla
trasognata ne la malinconìa!

Arezzo-Firenze, gennaio 1899.
(Da "Sovra il bel fiume d'Arno", Zanichelli, Bologna 1913)
 


 
 
 
SOLE D'INVERNO
di Arturo Onofri (Roma 1885 - ivi 1928)


Solicello d'inverno, al cui tepore
escono le vecchiette dalle tane,
e sognano gl'infermi sulle altane,
trepitando in un intimo stupore;

solicello invernale, o meraviglia
di colori, di musiche e di feste,
per tutti, ovunque, dopo le tempeste
e il freddo e il grigio tedio e la fanghiglia;

solicello d'inverno, ognun dà fede
oggi alla vita, e beve alla sua fonte
liete speranze, come chi non vede
le nuove nubi in fondo all'orizzonte.

Solicello giulìo, come sui tetti
si riscaldano i gatti sonnecchiando,
voglio anch'io fra i miei sogni prediletti
oggi poltrire in un languore blando.

(Da "Liriche", Ricciardi, Milano-Napoli 1914)
 
 
 
 

IMPRESSIONE INVERNALE
di Sandro Baganzani (Verona 1889 - ivi 1950)


Di là della strada fangosa
nel bosco di pini
che cupo dentella i confini
del'orizzonte,
sta sepolto un villaggio.
Non si senton cantare
campane: anima viva
non si vede camminare:
è il villaggio della favola?

Solo talvolta cigola
un carro:
(qual mano esangue
regge l'ànsima
dei cavalli decrepiti?)
Solo talvolta un cane
randagio, il naso all'aria,
viene dal villaggio
via per la campagna
solitaria.

Branchi di corvi
indolenti
spiegano allora il volo stanco
come uno sgorbio nero
nella sinfonia
del bianco.

E non si senton cantare
campane: anima viva
non si vede camminare.
È il villaggio della Morte?

(Da "Arie paesane", Taddei, Ferrara 1920)
 
 

 

 
INVERNO
di Francesco Cazzamini Mussi (Milano 1888 - Baveno 1952)


Nel mattino,
muovo per la campagna
deserta,
e ben che piana, un'erta
mi sembra o di montagna
faticoso cammino.

Pochi alberi spogli
per la terra crepata
dal gelo...
Nell'aria, non un belo;
ogni fonte seccata...
Mediti, Inverno, la tua nevicata?
Solo per quel silenzio,
cosa triste a vedere,
un vecchio che un braciere
prepara. E ha freddo, il vecchio!
Un immobile specchio
gli fa dintorno il ghiaccio.
E a lui sembran le dita
morte, e la mano stanca:
uno straccio.
Per la campagna bianca
non un soffio di vita.

O tu, grigio spazzino
che copri le lordure
e raduni le spoglie
dell'autunno, non basta
abbruciarle nel fumido mattino
denso di nebbie impure.
C'è qualcuno che aspetta,
affretta, affretta!

Oh, l'enorme catasta!

Poi, senza dir parola,
dar fuoco a rami e a foglie,
ché l'allegra fiammata racconsola.
È la vita o una selva?
Amici, non lo so,
ma quello ch'ora brucia,
lingueggiante falò,
è un abisso di porpora,
è una marea di fuoco
che rugge come belva...
Il nome conta poco...

Più tardi,
o mio vecchio spazzino,
senza tanti riguardi
tua moglie arriverà...
La tua dolce moglietta,
magra, tutt'ossa,
che aspetta aspetta aspetta,
e accende il lumicino,
dalla fiammella rossa,
oppur scende dal monte
per riderti sul muso,
vecchiettino camuso;
e poi ti bacia in fronte,
e poi ti stringe forte...
È tua moglie? Chissà, forse è la morte...

(Da "Il cuore e l'urna", Treves, Milano 1923)
 
 
 

 

MATTINO D'INVERNO
di Gian Pietro Lucini (Milano 1867 - Breglia 1914)


Sul monte un manto d’oro
S’infrangia di porpora:
massiccio e bizzarro tesoro.
Il lago s’invermiglia.

Conca di prato:
sopra il suolo gelato
l’erba è rossa.

Conca di valle:
il Cimitero è brullo come il prato
immobile e ghiacciato.
Ma i morti non patiscon le pruine.

Il muricciuolo del Cimitero
è breve, è candido,
si riscalda al sole.
Dei vecchi fra poco verranno
ad appoggiarvi le terga:
balbetteranno come fanciulli,
avran parole vane, strambe e lente,
sono dei mesti pezzenti
sdrusciti dalla lunga fatica della vita:
e si riscalderanno.

L’alberi si riveston di giojelli:
i più belli e i più smaglianti
sono i più caduchi.

Sul monte d’oro
si ricama il lavoro
delle preziosità del sole.

Le fanciulle si riguardano in volto
coll’occhio aperto:
una sincera speranza sfavilla.

E quei vecchi balbettano.

Questa notte
passò nel Cimitero
una processione.
Un Cristo crocefisso avea schiodato
le membra e s’era alzato sanguinoso.
Un mantello di neve ingiojellato
imperialmente lo ricopriva.
Molti bambini traeva con lui.
Il Cimitero non si è turbato,
e non l’ha udito, non l’ha sentito;
l’ossa dei morti non l’han riconosciuto.

A mezzanotte la processione passò;
ritornerà timida e imbarazzata.
Le fanciulle hanno l’occhi nel sole.

Vedi, sacerdotalmente, la Cima pontificare
nella limpidità fredda del cielo,
vestita a festa d’una dalmatica
ingiojellata di stalattiti.
A mezzo un cingolo di nebbie la fascia,
trine leggere di velo.
Il lago brilla verd’oro e rosso
tra l’uno e l’altro dosso
d’oscure e insanguinate malachiti.

(Da "Le Antitesi e le Perversità", Guanda, Parma 1970)

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