domenica 15 aprile 2012

Antologie: Poeti minori dell'Ottocento

"Poeti minori dell' Ottocento" è il titolo di un'antologia curata da Giuseppe Petronio e pubblicata dall'Unione Tipografico-Editrice Torinese nel 1958. Nel bel volume, di 680 pagine, si trovano poesie di soli ventuno autori: una scelta quindi molto severa è quella effettuata da Petronio, soprattutto rispetto ad opere che hanno trattato lo stesso argomento (per esempio "I poeti minori dell'Ottocento di Ettore Janni) e che hanno al loro interno un numero assai più cospicuo di nomi selezionati. La severità nasce anche dal fatto di restringere l'arco temporale dell'argomentazione, e l'inizio dell'introduzione è più che mai chiarificatore in tal senso: Petronio parla infatti di anni compresi tra il 1840 ed il 1870, asserendo che furono tre decenni ricchi di avvenimenti straordinari, tali da modificare radicalmente il volto e la vita della penisola Italiana. C'è, quindi, una relazione con la storia (e in parte con la politica) italiana del XIX secolo, nella scelta e nell'approfondimento dei temi trattati dalla poesia che in qualche modo fu condizionata o attratta anche da ciò che di importante stava accadendo in questo specifico periodo nella vita sociale dei cittadini del Bel Paese. Non sorprende allora il fatto che il primo poeta selezionato da Petronio sia Aleardo Aleardi, né che vi siano sezioni dell'antologia intitolate "Canti della patria" e "Ballate", in cui compaiono poesie di scrittori che composero versi ispirati agli aspetti più politici, popolari e tradizionalisti della poesia italiana e che ben fotografano quel preciso arco di tempo che l'opera intende mettere in luce. Coerente all'intento è anche la scelta di concludere la trattazione coi poeti della Scapigliatura: primo e importante movimento letterario nato dopo l'unità d'Italia, che diede il meglio di sé nell'ambito poetico.
Ecco, per concludere, l'elenco dei poeti presenti nell'antologia.
 






POETI MINORI DELL'OTTOCENTO

Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Goffredo Mameli, Alessandro Poerio, Francesco Dall'Ongaro, Luigi Carrer, Giuseppe Bertoldi, Teobaldo Ciconi, Carlo Alberto Bosi, Antonio Gazzoletti, Arnaldo Fusinato, Domenico Carbone, Luigi Mercantini, Nicola Sole, Pietro Paolo Parzanese, Ippolito Nievo, Giacomo Zanella, Emilio Praga, Iginio Tarchetti, Arrigo Boito, Giovanni Camerana.


mercoledì 11 aprile 2012

Spleen

Giorno grigio, tetro, ventoso e freddo. La tristezza m'invade e mi rende pigro, più pessimista del solito. Provo a viaggiare con la mente e vedo un viale di un quartiere periferico di una grande città, completamente deserto, col suolo zuppo di pioggia, le panchine fradice e vuote, gli alberi gocciolanti che sembra stiano piangendo per la tristezza. Il grigiore aumenta sempre più: la tetraggine ha invaso ogni cosa. Ora penso ad una stanza semioscura, dove si veglia un moribondo. Penso ad una chiesa desolata, dove c'è un Cristo crocifisso e sconsolato che malinconicamente gira la testa indietro e chiude gli occhi. Penso ad una casa diroccata, in un luogo deserto e distante, dove un uomo sta seduto sopra un muretto scalcinato con la testa bassa, e piange per la sua povertà, perché non ha più un motivo per rimanere in vita e medita il suo suicidio. Intanto comincia a piovere e l'oscurità si fa più grande. Lo scudo rugginoso si sgretola sotto i colpi tremendi del male; il Cristo, tormentato da mille dolori è quasi giunto in cima al Calvario; gli uccelli che volavano alti nel cielo, sono ormai tutti stramazzati al suolo. È giunta la Fine con il teschio fra le mani.




In questa mia prosa poetica, si parla di una giornata grigia e piovosa d’autunno. Questa atmosfera stagionale che ho voluto creare, non nasce tanto da esperienze personali, quanto da suggestioni scaturite al seguito di letture o ascolti fatti in anni già lontani. Prima di tutto, molte immagini derivano dai versi di Corrado Govoni che si trovano nella raccolta Armonia in grigio et in silenzio. Questa è la mia opera poetica preferita di gran lunga a tutte le altre dello scrittore emiliano. Ricordo che, non appena ne acquistai una riedizione, lessi le poesie presenti all’interno per intere giornate; tutt’ora, di tanto in tanto, vado a rileggerle. In minor misura, esiste qualche suggestione rintracciabile in alcuni dei testi delle prime canzoni di Francesco De Gregori (tra il 1972 ed il 1976); anche per quanto concerne queste canzoni, rammento che, ragazzo, le ascoltavo praticamente tutti i giorni, così come quelle di altri cantautori italiani come Riccardo Cocciante e Fabrizio De Andrè. Insomma lo ammetto: di veramente mio qui c’è ben poco.


lunedì 9 aprile 2012

Gli arrivi nella poesia italiana decadente e simbolista

Nella poesia decadente e simbolista italiana l'arrivo (inteso come apparizione di qualcosa o qualcuno più o meno aspettato), corrisponde molto spesso ad una svolta, un cambiamento drastico nella vita individuale o collettiva; naturalmente il mutamento più importante e definitivo è rappresentato dall'arrivo della morte, come accade in "Scalpitio" di Giovanni Pascoli, "Aziyadè" di Giuseppe Lipparini, in "Il convegno" di Nicola Moscardelli e in "Diritto d'asilo" di Mario Adobati. L'opposto si verifica in poesie come "Imminente luna" di Giovanni Tecchio, "In una villa lontana" di Diego Angeli e "L'ignota" di Ettore Moschino, dove si percepisce l'attesa di una figura femminile portatrice di eros e quindi di vitalità. Molto originale è invece, nella poesia "La visita" di Gustavo Botta, la Lussuria che si presenta al poeta come una vecchia sogghignante. Interessanti sono le due quartine che compongono "Invito" di Alessandro Giribaldi, in cui il poeta provoca il diavolo invitandolo in maniera quasi minacciosa ad entrare nella sua stanza, pena l'impossibilità, per il povero demone, di uscirne poi. Corrado Govoni, nella poesia "Gli arrivi" fa un inventario di tutte le cose (astratte o meno) che possono giungere all'uomo durante la sua esistenza. Nicola Moscardelli, infine, ne "I cavalieri del silenzio" sceglie l'atmosfera fiabesca e il mistero nella narrazione degli accadimenti che scandiscono i suoi versi.
 
 
Poesie sull'argomento
Mario Adobati: "Diritto d'asilo" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Diego Angeli: "In una villa lontana" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Ugo Betti: "Le notti senza luna" in "Il re pensieroso" (1922).
Gustavo Botta: "Visita" in "Alcuni scritti" (1952).
Enrico Cavacchioli: "Il convito platonico" in "L'Incubo Velato" (1906).
Italo Dalmatico: "La cheta cena" in "Juvenilia" (1903).
Giacomo Gigli: "Aspettando il vento" in "Maggiolata" (1904).
Alessandro Giribaldi: "Invito" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Corrado Govoni: "Gli arrivi" e "Alla sposa che viene" in "Gli aborti" (1907).
Domenico Gnoli: "Arrivo triste" in "Fra terra e astri" (1903).
Giuseppe Lipparini: "Aziyadè" e "L'ospite" in "Le foglie d'alloro" (1916).
Fausto Maria Martini: "Quando venisti..." in "Poesie provinciali" (1910).
Marino Moretti: "La domenica dell'arrivo" in "Poesie scritte col lapis" (1910).
Nicola Moscardelli: "I cavalieri del silenzio" e "Il convegno" in "Abbeveratoio" (1915).
Ettore Moschino: "L'ignota" in "I Lauri" (1908).
Arturo Onofri: "Oggi non usciremo: aspetteremo il frate" in "Canti delle osai" (1909).
Aldo Palazzeschi: "Corinna Spiga" in "Poemi" (1909).
Giovanni Tecchio: "Imminente luna" in "Mysterium" (1894).
Remigio Zena: "Domino grigio" in "Olympia" (1905).
 
 
Testi
AZIYADÈ
di Giuseppe Lipparini

Troppo fredda è la stanza e troppo grande.
L'abbandonata pensa che la morte,
così, presto verrà: e su le attorte
chiome non sfioriran più le ghirlande.

Non più l'amor tanta dolcezza spande
nel suo cuore; non più lieta è la sorte.
O dimora d'Eyoub dove sì forte
ell'era, udendo le parole blande!

Ella voleva rivedere il sole,
vagare ancora un poco pe 'l giardino,
l'ultima volta prima di morire,

e ascoltar de l'amato le parole.
Ma la morte verrà, poi ch'è destino.
E s'abbandona omai tra le sue spire.

(Da "Lo specchio delle rose")

venerdì 6 aprile 2012

A San Lorenzo in Lucina


Solo con Cristo nella chiesa vuota
e scura di San Lorenzo in Lucina.
Appesa sulla croce la divina
immagine del dolore umano esprime
e compatisce la mia stessa pena

e la mia crocifissa solitudine
che questa sera sanguina più sola,
più sconsolata e schiaffeggiata e affranta.
 
 








Intensissima poesia di Giorgio Vigolo (1894-1983) che esprime un profondo senso di tristezza e solitudine provato dal poeta in un momento assai difficile. Quando si rifugia (forse per dire una preghiera) in una chiesa romana, vi trova un dipinto raffigurante il Cristo in croce; subito si compie una immedesimazione tra il poeta e Gesù, entrambi in uno stato di sofferenza atroce: mentale per il primo e fisica per il secondo. Particolarmente significative sono le espressioni usate da Vigolo quando parla di una "crocifissa solitudine" che "sanguina più sola".
"A San Lorenzo in Lucina" è una poesia di Giorgio Vigolo presente nel volume "Poesie religiose e altre inedite", uscito presso Aracne Editrice in Roma nel 2001.

Poi fu la luce immensa

E allora il Cristo salì al Calvario
piangendo piangendo senza un grido,
e una folla immensa lo seguiva
silenziosa di calzolai,

e di vecchie filatrici
lavandaie e cenciosi
sciancati,
vecchi e bambini e cani
capo basso, e povere meretrici
colle carni a brandelli. E sciancati ancora.

E cani e pecore. Randagi. E cani e pecore.
E tutta una folla immensa e silenziosa,
piangendo piangendo senza un grido,
grigia, senza termine, curva.
E avanti le schiere metalliche dei soldati,
a tre a tre, sino a che non si giunse al sommo
del Calvario, sinché non si giunse
al sommo del monte,
oggi, domani, per secoli di secoli
piangendo piangendo.
...

 
Grande poesia di Umberto Bellintani che descrive la Via Crucis di Gesù in chiave sociale. Il Cristo è un uomo triste che soffre e piange per l'umanità vilipesa. Mentre sale verso il Calvario, dietro di lui si forma una folla immensa di esseri umani e di animali, accomunata dal dolore e dalla sofferenza, rappresentata principalmente da poveri, umili lavoratori, portatori di handicap. Tra gli animali si nominano i cani e le pecore, ovvero quelli più propensi a fidarsi dell'uomo e che simboleggiano la fedeltà e la mansuetudine. Vi si trovano, identificabili come parte più debole del genere umano, anche i vecchi, i bambini e le donne; quest'ultime rappresentate principalmente dalle prostitute con la pelle ormai consumata e quindi in condizioni pietose. La folla che segue il Cristo è interminabile, perché tale è la quantità di esseri viventi che si sono trovati in una situazione di dolore e di sofferenza profonda e interminabile. Il colore grigio della folla stessa sta a simboleggiare questo stato di tristezza perenne; il capo basso e lo stare curvi, oltre che la sudditanza verso coloro i quali tengono in scacco questi poveri esseri (nella poesia possono essere identificabili nelle "schiere metalliche dei soldati"), indica la loro infinita umiltà. La scena della Via Crucis si è ripetuta per millenni, e si ripete, e si ripeterà per millenni ancora, perché i poveri sono sempre poveri, perché a sofferenza si aggiunge ogni anno sofferenza e a dolore si aggiunge dolore. Così Gesù continuerà per un tempo infinito a salire verso il Calvario piangendo, seguito da un numero sempre maggiore di anime tristi. Il titolo sembra però indicare la fine dell'interminabile tunnel: quella luce immensa che, dopo la fine della vita sulla Terra, annuncerà il Regno dei Cieli, dove, come ha detto Gesù nelle "Beatitudini", chi ha più sofferto troverà la sua contropartita.
La poesia "Poi fu la luce immensa" fa parte della raccolta "E tu che m'ascolti" (1963), che è stata riproposta per intero da Bellintani in un volume uscito pochi anni prima della sua morte, intitolato "Nella grande pianura" (1998).

giovedì 5 aprile 2012

Da "Notturno" di Gabriele D'Annunzio

È il giovedì santo.
Una giornata torbida. Spio le vicissitudini della luce nello specchio di contro.
Una nuvola passa. Una nuvola si dirada in boccoli come un vello tra le mani di uno scardassatore.
Il sole vien meno, e pare che tutto si freddi. Lo specchio si congela come una pozza quadrangolare.
Sotto le lane la mia pelle rabbrividisce.
Il silenzio ha la qualità del silenzio antelucano.
I campanili non hanno più voce. I bronzi, affaticati dalle vibrazioni, riposano con la bocca in giù piena d'ombra. Le corde penzolano lisciate e unte in due luoghi dalle pugna del campanaio.
Quanta tristezza sparsero su ogni ora dei miei giorni passati!
Tuttavia questo silenzio insolito non mi dà pace. La tristezza non mi viene più per l'aria, non più mi viene dall'alto. Oggi è accosciata ai miei piedi, senz'ali. Dorme, e nel sonno sussulta.

(Da "Notturno" di Gabriele D'Annunzio, Treves, Milano 1921, pp. 448-449)

mercoledì 4 aprile 2012

I sepolcri

Ardono i ceri al piede dell'altare
nelle tenebre gravi, umide, intente,
dove pur s'ode continuamente
frusciare, sgonnellare, stacchettare.

Il sol muore. Oh! non qui venni a pregare
quel nuovo Dio tra i ceri sanguinente;
io, salutando il Dio di nostra gente,
tendo le braccia all'infinito mare:

dove la vampa del suo rogo annera
fumando e il vento piange, e lo seconda
l'ululo d'accorrenti onde marine.

Stelle tu versi ad una ad una, o Sera.
Largo il pianto rampolla a la profonda
Sera, disfavillando senza fine.
 

 
Questo sonetto di Giovanni Pascoli fa parte del volume "Poesie varie", pubblicato postumo a cura della sorella del poeta, Maria, nel 1912, per le edizioni della Zanichelli. Inizialmente inserito nella prima edizione di "Myricae" (1891), ne fu escluso dal Pascoli nelle successive, compresa la definitiva. A tal proposito, è interessante leggere la nota presente in "Poesie varie", che fornisce altri dettagli sconosciuti riguardo all'origine del componimento che porta in calce la data: "Massa, 1885".

«È l'eco di una visita fatta con le sorelle alla chiesa dei cappuccini a Massa nel giovedì santo. Fu stampato in una Strenna, poi nella prima ediz. di Myricae. In seguito lo tralasciò per quel saporetto pagano contrario al suo sentimento».
(Da: "Poesie" di Giovanni Pascoli, volume quarto, Mondadori, Milano 1998, p. 158)