domenica 9 marzo 2025

La poesia di Libero De Libero

 Lessi per la prima volta alcuni versi di Libero De Libero (Fondi 1903 - Roma 1981) grazie ad un paio di antologie della poesia italiana del XX secolo che, circa trent'anni fa, era facile trovare negli scaffali delle librerie romane. Più complicato fu per me rintracciare almeno una delle raccolte del poeta ciociaro nelle stesse librerie (comprese le più rifornite). Soltanto nel 2011, l'editore Bulzoni di Roma ha pubblicato un volume che contiene l'intera opera poetica di De Libero. 

Un po' tutti i critici più autorevoli inseriscono lo scrittore laziale nel ristretto ambito dell'ermetismo "meridionale", insieme a poeti come Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli e, soprattutto, Salvatore Quasimodo. Proprio Quasimodo e in parte Ungaretti, furono determinanti nella prima fase poetica di De Libero, che è anche la più importante. Ecco, a tal proposito, cosa scrisse il critico Gianni Pozzi nel famoso saggio La poesia italiana del Novecento:


  La poesia di Libero De Libero tenta di recuperare al linguaggio ermetico, ormai ridotto ad inerte rappresentazione lirico-letteraria, ad una libera ma esteriore combinazione sensibile d'immagini, la forza d'invenzione che i primi ermetici vi avevano cercato quando avevano frantumato con arbitraria risolutezza tutte le giunture sintattiche e grammaticali della lingua costituita per poter procedere più speditamente alla costruzione di un universo poetico originale.

  Certo, di fronte alle ambizioni estreme del Quasimodo di Erato e Apollion, questa poesia ha già perso di slancio e pathos cosmico. Tuttavia è ancora riconoscibile l'intenzione rigorosamente poematica che da Solstizio alle Odi a Proverbi, sovraintende alle continue costruzioni di analogie, relazioni, identità tra psiche e natura.

  Se la psiche, in una sequenza ininterrotta di metamorfosi, diventa natura e il paesaggio si scioglie continuamente in sentimento, non è soltanto perché nel clima di totalità lirica e di immediatezza sensibile dell'epigonismo raffinato del Novecento i confini tra esterno ed interno sono infranti; ma anche perché qui riescono ancora ingenuamente a sopravvivere i termini di una interpretazione naturalistica e cosmica dell'universo, che era poi quella del primo ermetismo, da Ungaretti a Quasimodo¹.


Lo stesso Pozzi si dimostra decisamente più severo, commentando la seconda fase poetica di De Libero:


[...] Sollecitata da una ispirazione ormai fuori stagione, la poesia di De Libero non raggiunge la maturità e il distacco della vera poesia. La struttura e l'intenzione poematica che potevano salvarla dalla esterna immediatezza sensistica e lirica non hanno più nemmeno lo slancio e l'abbandono al mistero della parola che giustificava, nel primo Quasimodo, la gratuità dello sforzo linguistico, la tensione orfica del canto².


La conclusione del critico ha toni nettamente negativi:


  Affidandosi ad una poetica in cui defluivano verso una ormai stanca estenuazione soprannaturale del linguaggio le premesse pstsimboliste di Ungaretti, la poesia di De Libero, ridotta a coltivare l'orticello dei residui analogici e cosmici della «parola», ritenta pateticamente in ritardo una strada che, con Quasimodo, aveva ormai concluso il suo ciclo inventivo³. 


Personalmente non sono d'accordo con quest'ultima conclusione di Pozzi, poiché leggendo i versi di De Libero appartenenti al periodo che va dall'immediato dopoguerra all'ultima raccolta pubblicata, pur riconoscendo che non possono essere equiparati a quelli antecedenti - che quindi rappresentano il miglior periodo del poeta laziale - ho trovato un cospicuo numero di liriche per nulla scadenti, anzi, ve ne sono diverse molto belle. Chiudo riportando quattro poesie di De Libero, tratte dal volume che le comprende tutte: le prime tre appartengono agli anni compresi tra il 1930 ed il 1956; l'ultima invece faceva parte della raccolta Di brace in brace, in cui il poeta radunò i versi scritti e pubblicati tra il 1956 ed il 1970. 


Libero De Libero



FRAMMENTO


Per un'estate continua

la mia ombra ricordo

avida dell'ombra tua.

A lente fiamme

portava il nostro amore

la cicala.

Su te un cielo d'occhi,

insidiosa favola.

Andava in polvere il sole

a fare nubi.


(da "Le poesie", Bulzoni, Roma 2011, p. 275)





MORTO MARE


Ascolto alberi marciare

lontano in preda alla collina

e nell'arena è prigioniero il mare,

morto mare di settembre.

In secco splendore

sabbia e luce si accoppiano,

nel cielo le nubi

imitano il morto mare

e la memoria è di sale.

Qualcuno nel bosco canta,

e me ne andrò nel bosco

a cercare chi canta il morto mare.


(da "Le poesie", Bulzoni, Roma 2011, p. 258)





TU ERI AMORE


Guarda chi sono

nel letto iroso d'insonnia.

Ero il giorno infinito allora,

e l'estate e il campo di luna,

ero l'ulivo d'agosto

quando nella voce pativa la voce.

Alla siepe dormente

tu eri amore.


(da "Le poesie", Bulzoni, Roma 2011, p. 244)





A LUME SPENTO


Non puoi contare i miei capelli,

mi carezzi il viso e tagli non vedi

né segni di cupa forbice e credi

che a schivare il tempo io continui

con salti nel vuoto e lunghi raggiri.

Al tuo piacere non voglio togliere

il caro inganno di parlarmi al buio,

e non dormire prima che sia giorno.


(da "Le poesie", Bulzoni, Roma 2011, p. 106)



NOTE

1) Da: Gianni Pozzi, La poesia italiana del Novecento: Da Gozzano agli Ermetici, Einaudi, Torino 1989, p. 281.

2) Ibidem, p. 285.

3) Ibidem, p. 285.

Nessun commento:

Posta un commento