martedì 3 giugno 2025

I ritratti nella poesia italiana decadente e simbolista

 L'importanza dei ritratti nella poesia e nella prosa dei simbolisti è senz'altro indiscutibile, basti pensare al romanzo famosissimo di Oscar Wilde: Il ritratto di Dorian Gray. Da quest'ultimo si può intuire il motivo dominante che determina la simbologia dei ritratti ovvero il carattere e la psiche degli esseri umani; esplicativo a tal proposito è il titolo ed il contenuto di una poesia di Corrado Govoni: La psicologia dei ritratti, che è una delle poesie riportate alla fine di questo post.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Gustavo Brigante-Colonna: "Nella cornice impero" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Luigi Capuana: "Ritratto fotografico" in "Semiritmi" (1888).

Cosimo Giorgieri Contri: "Dietro un ritratto" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Cosimo Giorgieri Contri: "Vecchi album" in «Nuova Antologia», aprile 1907.

Corrado Govoni: "Davanti ad un ritratto" in "Le Fiale" (1903).

Corrado Govoni: "La psicologia dei ritratti" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).

Guido Gozzano: "L'Antenata" in "Il Piemonte", settembre 1904.

Luigi Gualdo: "Ritratto" (3 poesie) in "Le Nostalgie" (1883).

Giuseppe Lipparini: "Ginevra" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).

Remo Mannoni: "X" in «Rivista d'Amore», luglio 1903.

Enzo Marcellusi: "Il ritratto" in "I canti violetti" (1912).

Federigo Tozzi: "Ritratto medioevale" in "La zampogna verde" (1911).

 

 

 

Testi

 

 

DIETRO UN RITRATTO

di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

 

Occhi limpidi e tristi, occhi adorati,

dolce bocca per me senza parole

fronte sottil, forse ad un sogno aperta,

 

io vi riveggo e la tristezza incerta,

come un profumo di fior morti al sole,

si risolleva da' bei dì passati.

 

Non sorrider di me, pia creatura:

amo amarti così: ti sento lunge,

tutta l'anima mia verso te migra.

 

Questa triste di tedio anima pigra,

pigra così che non desìo la punge

di saper se tu sei qual ti figura.

 

Tanto, a che vale? D'ogni folle amore

ch'io nutrii per tanti anni, oh non è questo

il più folle, o mia dolce, è questo il saggio.

 

Io che lo so non fermo il mio viaggio:

ti saluto passando e al cenno mesto

tutti i fior dell'oblio m'empiono il cuore.

 

1891.

 

(da "Il convegno dei cipressi", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1894, p. 77)

 

 

 

 

LA PSICOLOGIA DEI RITRATTI

di Corrado Govoni (1884-1965)

 

Ne le cornici d'ebano, i ritratti

quante storie secrete si raccontano

piano, tra loro, quanti mesti fatti

i cui ricordi friabili già smontano!

 

In un quadro le dagherrotipie

ritraggon tutte de le vecchie dame,

de le dame da le fisionomie

vizze e da le gonnelle col fiorame:

 

de le duchesse con il guardinfante

e i larghi sboffi, e la scriminatura,

qualche riproduzione d'un Infante

biondetto da la torva guardatura.

 

In un altro de le fotografie

moderne mostrano dei neonati

e de le placide fisionomie

d'avole e di defunti dissanguati:

 

una vecchietta porta una sottana

fuori di moda, una pettinatura

di foggia ingenua, un'altra una collana

di coralli di nobile natura;

 

un bel giovine (che sia morto etico?)

perpetua la tristezza del suo sguardo,

una sposa in un suo dito ermetico

tiene un anello d'argento, testardo

 

testimone d'una felicità

seppellita da chissà mai quanto!

(quel corpo fatto per la voluttà

ora è cenere dentro un camposanto...)

 

Pupille ancora vive, labri

come sfogliati, rughe approfondite,

e pomelli digiuni di cinabri,

chiome svanite, mani rattrappite.

 

Un bambolino, morto, sul suo letto,

pallido, sotto il vetro à il suo mannello

di capelli e sul bianco lenzuoletto

contro il cuore il giocattolo novello.

 

Qualche educanda d'un conservatorio

regge in mano con edificazione

un parrocchiano lucido d'avorio

o il bouquet de la prima comunione.

 

(da "Armonia in grigio et in silenzio" di Corrado Govoni, Lumachi, Firenze 1903, pp. 40-42)

 

 

 

 

X

di Remo Mannoni (1883-1966)

 

Un ritratto sbiadito

m'è venuto tra mano;

pallido volto umano

d'un essere sfinito,

 

semispento, colpito

da un morbo disumano;

pure ha un fascino strano

come un fiore avvizzito.

 

Un pallido sorriso

di Sfinge urge le buone

sembianze di fanciulla,

 

- Chi scolorì quel viso?

quale ardente passione

la diede in braccio al Nulla?

 

(da «Rivista d'Amore», luglio 1903)


Bessie MacNicol, "Self-portrait"
(da questa pagina web)




domenica 25 maggio 2025

Antologie: "Poesia delle Marche. Il Novecento"

 Certamente si potrebbe discutere sul senso o sul valore che possono avere le antologie poetiche dedicate ad una sola regione italiana; è pur vero che ne esistono moltissime, e riguardano quasi tutte le regioni della nostra nazione. In questo preciso post voglio brevemente parlare del volume intitolato La Poesia delle Marche. Il Novecento, pubblicato dalla Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata e dalla Società editrice Il lavoro editoriale nel 1998. Il curatore di quest'antologia è Guido Garufi. Già nel risvolto della copertina, viene citata un'altra opera antologica simile a questa, uscita quasi trentacinque anni prima, e intitolata Poeti delle Marche del '900; tale opera, curata da Carlo Antongini, evidentemente ha avuto un ruolo significativo per Garufi, che praticamente ha apportato degli aggiornamenti necessari - visto che nel frattempo si era quasi concluso il secolo preso in esame - riguardante sia i saggi dedicati ai poeti presenti, sia delle aggiunte di nomi importanti, affinché sia possibile avere una panoramica completa dei cento anni di poesia cui si riferisce il titolo. È però lampante, per chi cominci a sfogliare la parte prettamente antologica, che vi siano delle assenze, riferite in particolar modo ai poeti nati prima del 1892. Per il resto si può affermare che questo libro si presenti assai bene, sia per il formato che per la grafica, che infine per i contenuti. L'opera si divide in tre parti. Nella prima, si trova l'introduzione del curatore, seguita dalla presentazione dei poeti selezionati (sono in tutto ventiquattro, compresi i dialettali), dai testi e da una biobibliografia degli stessi. Nella seconda parte si prendono in considerazione nuove generazioni e ulteriori scuole poetiche; si inizia con La scuola di Urbino, che include solamente cinque poeti; si prosegue con Una nuova generazione, comprendente sette poeti; si conclude con L'attività letteraria, in cui vengono brevemente commentate le opere poetiche di autori più o meno giovani e comunque meno importanti rispetto agli altri. Segue una parte esclusivamente saggistica (intitolata per l'appunto Saggi), con diversi articoli inerenti la poesia e i poeti delle Marche nel XX secolo. Si passa poi ad una parte per metà dedicata alle illustrazioni e per metà saggistica, intitolata Repertorio iconografico delle riviste e materiali critici. Chiude il volume una bibliografia divisa in due settori: il primo si occupa delle opere antologiche e non, che fanno riferimento alla poesia italiana del Novecento, ma che comunque hanno un'attinenza anche con l'attività poetica nelle Marche; la seconda è invece incentrata sul Novecento marchigiano.

Ecco, infine, i nomi dei poeti antologizzati in Poesia delle Marche. Il Novecento





POESIA DELLE MARCHE. IL NOVECENTO


PRIMA PARTE

Ugo Betti, Luigi Batolini, Arcuto Vitali, Scipione, Plinio Acquabona, Franco Matacotta, Neuro Bonifazi, Alvaro Valentini, Paolo Volponi, Anna Malfaiera, Luigi Di Ruscio, Franco Scataglini, Gabriele Ghiandoni, Massimo Ferreti, Ercole Bellucci, Leonardo Mancino, Umberto Piersanti, Luigi Martellini, Eugenio De Signoribus, Guido Garufi, Marco Ferri, Francesco Scarabicchi, Gianni D'Elia, Remo Pagnanelli.


SECONDA PARTE

Amato Cini, Egidio Mengacci, Adriano Gattucci, Zeno Fortini, Maria Lenti, Tiziana Alberti, Maria Angela Bedini, Luca Cesari, Filippo Davoli, Feliciano Paoli, Roberto Piangatelli, Antonio Santori.

domenica 18 maggio 2025

Poeti dimenticati: Francesco Carchedi

 Nacque a Filadelfia, in provincia di Catanzaro, nel 1909; morì a Roma nel 1987. Pubblicò i suoi versi su alcune riviste - tra le quali Maestrale, La Fiera Letteraria e Dialoghi - e in poche raccolte poetiche che comunque coprono un arco temporale piuttosto lungo (più di quarant'anni). Le poche notizie bibliografiche rintracciabili dicono che, dopo la laurea in Lettere, iniziò ben presto a insegnare presso vari licei della capitale. Le sue liriche, decisamente lontane dall'ermetismo, mostrano evidenti simpatie per diversi prestigiosi poeti del primo Novecento, come Ungaretti, Quasimodo, De Libero, Bertolucci e Caproni. Si nota, in molte delle poesie di Carchedi, una tendenza alla meditazione, un tangibile rimpianto per il periodo dell'infanzia e dell'adolescenza trascorso nei luoghi d'origine così come una ricorrenza dei temi religiosi. 



Opere poetiche


"Buio e sole", Edizioni Michele Bonelli, Vibo Valentia 1934. 

"Vetera et Nova", Ed. Di Religio, Roma 1940. 

"L'uomo e il mare", Il secondo Novecento, Roma 1955. 

"Sono sotto le stelle", Edizioni di Dialoghi, Roma 1963. 

"Io riconobbi te antico mare", Il secondo Novecento, Roma 1978.





Testi


UDII UNA FONTANA...


Io fui nella notte

rinchiuso in cortice scuro.

Battevo

anelavo all'esterno

come il feto

nell'alvo materno

ed era una pena

stringere i denti

per la liberazione

ed era dolcezza

abbandonarsi all'inconscio

verso il regno del nulla.

Poi venne l'alba

udii la fontana parlare

vidi i rondoni volare

gridando

nel cielo di perla.


(da «Maestrale», Anno II, N. 9, Settembre 1941)





IN DIMIDIO


Mi era lietezza la mestizia, o mare,

ora la vita non ha vita alcuna,

semplice attesa di cose venture.

Ma tu ridammi la tristezza antica

oppur la saggezza, vecchio mare.


1945


(da "L'uomo e il mare", Edizioni "Il secondo novecento", Roma 1954, p. 52)





MA DOVE SONO…


L'immagine mia

di quel tempo

non chiedetela: 

è rimasta

sulla calcina dei muri,

tra le spine delle siepi,

panno dimenticato.

Ma dove sono

i monelli miei coetanei?


1951


(da "Sono sotto le stelle", Edizioni di «Dialoghi», Roma 1963, p. 69)


domenica 11 maggio 2025

Regina del giorno

   Invecchia la tua morte

nelle mie notti

ove rotolano sogni

come vuote botti.


  Ma di giorno sempre più giovane

sei e regina, da quando

la tua morte invecchiando

in me ti ha disciolta

in tutte le cose

che amavo una volta.


  Sei le rose

gialle e i cornicioni bruciati a taglio

di luce contro il celeste ottobre,

il barbaglio

del ditale d'oro

nel cesto da lavoro,

sei la mensa serale,

la lagrima e l'allegria,

del morire la dolce profezia.


  Tutte queste cose e altre:

ma sei tu ancora

tu sola

precisa e loquente perché

sono loro

- le cose le rose il ditale d'oro -

che sono diventate 

te.





COMMENTO

Regina del giorno è il titolo di una poesia di Luigi Santucci (Milano 1918 - ivi 1999), che si trova alle pagine 85 e 86 del volume Di te mi scorderò, pubblicato dalla Mondadori di Milano nel 1969. Santucci scrisse poche poesie, e alcune di esse le dedicò al pubblico infantile; quindi si può dire che il volume del '69 sia un'eccezione nella carriera letteraria dello scrittore milanese; peculiarità della raccolta poetica è che le sessantasette liriche ivi presenti siano incentrate su un unico argomento: la recente scomparsa della madre del poeta. In questi versi Santucci esterna tutta la sua disperazione per la gravissima perdita avuta da poco, ed è facile percepirla, perché in quasi tutte le poesie si nota una drammaticità sconvolgente e una dichiarata incapacità di continuare a vivere senza la presenza preziosissima di una mamma straordinaria. I versi che di sopra ho voluto riportare, però, sembrano superare tale senso di tragedia: qui il poeta riesce a trovare conforto alla definitiva assenza della madre pensando che essa, grazie ad una sorta d'incantesimo, si sia tramutata negli oggetti della casa di famiglia, così come nei fiori del giardino di casa; riesce ad intercettare la sua presenza anche in specifici momenti del giorno, come la abituale cena, e pure nei suoi stati d'animo particolarmente intensi - siano essi dominati dalla tristezza o dalla gioia -; la trova viva perfino ricordando certe sue frasi in cui preannunciava la sua morte. A tal proposito, tra le cose che gli ricordano più la madre, Santucci nomina un ditale d'oro (oggetto che spesso usavano le massaie nell'atto del cucire) e delle rose gialle; tutto ciò mi ha fatto ricordare che anche mia madre usava un ditale - pur se non d'oro -, nei momenti in cui si appropinquava a cucire degli strappi in indumenti come i calzini; ed anche lei amava le rose di tutti i colori possibili ed immaginabili (le piantò nel nostro giardino in gran quantità). Non potendo più avere le rose, sono andato a cercare quel vecchio ditale di mia madre, e l'ho trovato proprio in un cesto - come dice il poeta - da lavoro; la fotografia che precede questo mio commento ritrae i due oggetti della mia mamma che sono ancora qui, malgrado la sua assenza perduri da quasi un decennio; e, rifacendomi alla fantasia del poeta, anch'io oggi, giorno in cui si festeggiano tutte le mamme assenti e presenti, voglio pensare che lei viva in questi e in tanti altri oggetti ancora presenti nella "nostra" casa.    


domenica 4 maggio 2025

Gli addii in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 E nella nostra vita prima o poi, seppure malvolentieri, ci tocca dire addio a qualcosa o a qualcuno. Iniziamo col dare addio ai nostri cari giocattoli: l'orsacchiotto che ci faceva sempre tanta compagnia, e rimaneva accanto a noi anche quando dormivamo; i tanti e tanti soldatini, che per noi erano un esercito di piccoli guerrieri pronti a proteggerci, nel malaugurato caso in cui qualche presenza sgradita avesse voluto entrare nella nostra stanza; e i giornalini di fumetti, che leggevamo appassionatamente, e che ci trasportavano in mondi fantastici, dove accadevano le cose più impossibili. Gli anni passano, e purtroppo dobbiamo dire addio ai nostri nonni, che ci hanno voluto tanto bene, ci hanno cresciuto e coccolato (avremmo avuto bisogno di loro per tanto tempo ancora, ma il tempo se li è portati via troppo presto). E poi diciamo addio ai nostri primi amori, che tanto ci hanno emozionato (provavamo sensazioni così forti!), ma i nostri sentimenti mutarono nel giro di pochi anni, e ciò che appariva come un legame saldo, si rivelò tutt'altra cosa. Quindi diciamo addio alle nostre prime case: lì siamo nati e cresciuti; lì abbiamo trascorso tante e tante ore piacevoli; in quelle stanze rimangono indelebili ricordi delle nostre giovani vite, trascorse insieme ai nostri cari. E diciamo tristemente addio anche ai nostri amici animali: cani, gatti, canarini e altri ancora; anch'essi, nel loro piccolo, hanno rappresentato qualcosa di veramente importante per la nostra esistenza, tant'è vero che quando ci hanno lasciato, abbiamo provato un senso di vuoto indicibile. E poi arriva il momento più tremendo: dire addio ai nostri genitori, coloro che ci hanno fatto nascere e che ci hanno amato come nessuno mai; sapevamo che sarebbe arrivato il momento del definitivo distacco da loro, ma non volevamo pensarci, per l'intenso dolore che tale pensiero ci procurava, però il tempo trascorre spietatamente, e non possiamo far altro che prenderne atto: addio mamma, addio papà, non vi dimenticheremo mai…

Infine, arriva il momento di dire addio alla nostra vita; quest'ultimo addio non sempre è possibile prevederlo e meditarci sopra: a volte si parte senza la possibilità di salutare, all'improvviso; allora io ti do già adesso - non so quanto in anticipo - l'ultimo addio, vita mia, e così sia.




GLI ADDII IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



ADDIO SUL LAGO NEBBIOSO

di Elena Bono (1921-2014)


Addio, amici.

Non sporgetevi troppo

per salutarmi.

Cadono nell'acqua

i fiori

che avete portati per me.

Nulla segue.

Sfugge alla chiusa mano

il calore dell'ultima stretta.

Addio, volti nebbiosi.

Una sponda è perduta

e l'altra non appare,

solo gridanti e vane

ombre

come di uccelli.

Pure

se calmo batte il remo

calmo deve battere il cuore.

Andiamo. Andiamo

dove ci portano

i fiochi gridi

e la lenta corrente

e il remo misterioso.


(da "Poesie. Opera omnia", Le Mani, Recco-Genova 2007, p. 170)





PRO MEMORIA

di Gesualdo Bufalino (1920-1996)


E non vedrò più nessuno,

ho i pugni pieni di peste.

Addio, bivacchi di festa

accesi sotto la luna;


addio, inabili labbra

sorprese un’alba nel vento,

grandi segreti da niente

sepolti dentro la sabbia,


pupille risa disprezzi

scambiati da infame a infame,

giochi di m’ama non m’ama,

miei cuori, mia giovinezza!


Resta di tanta vacanza

solo una pozza di sole

scordata sulle lenzuola

della mia ultima stanza;


e questa rosa che il gelo

del davanzale consuma,

e se ne perde il profumo

verso un inutile cielo.


(da "L'amaro miele", Einaudi, Torino 2021, p. 7)





QUI ERA IL GROVIGLIO

di Dino Buzzati (1906-1972)


Qui era il groviglio delle popolazioni

ciascuno chiudendo in sé le meraviglie

il capolavoro, la cosa indicibile

la gloria le interiora dell'uomo!

E invece in un terribile appartamento condominiale

galera di Dio, con la gabbietta

del canarino al davanzale, dove

le speranze si rattrappiscono

senza neppure dolore, di giorno in giorno,

finché rimane lui, che non sa

che non capisce, che non soffre, che

sprofonda, che solo nell'estremo

attimo, chissà, capirà la sorte, la

dannazione, la condanna (ah il gabardine

di cui era tanto orgoglioso,

la spider, le basette, quella sua

faccia vagamente simile a Friedrich March,

le ombre, le nuvole, gli abissi,

i gorghi giù giù), ah ricordarsi, ah

poter ricordare, addio Golgonda,

addio Milano, addio boschi della vicina brughiera,

addio illusioni del 17 ottobre 1965 la

ti ricordi, all'angolo di viale Papiniano,

era così bello.

E adesso più niente!


(da "Poesie", Neri Pozza, Vicenza 1982, p. 99) 





L’ADDIO

di Sergio Corazzini (1886-1907)


Venne l’ultimo giorno... Con le stelle

si spense ogni speranza, il sole uccise

in me, ogni cosa, ogni delirio, e rise

il cielo azzurro, e le rose sorelle 


nel mio rosario parvero più belle

quel dì... La donna venne, mi sorrise

mi baciò sulla fronte ardente e mise

nelle mie, le sue mani bianche e snelle. 


Era il saluto estremo, allor credetti

di morire e gridai: «Vision fuggente

dimmi, mi hai amato, come io t’amai?!»


Ella un poco annoiata, e a denti stretti 

disse di sì; ma l’eco, che non mente,

lugubremente mi rispose «...mai!»


(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1992, p. 246)





ADDIO

di Olinto Dini (1873-1951)


Come tenace stretta di mano gelida un fiero

  diaccio senso di morte mi signoreggia il cuore.


Penso a un mattino sereno e giocondo: m'è lugubre sera;

  penso a una lieta culla: mi si trasforma in bara.


Vedo innumere torme d'umane vite fuggenti;

  l'anima - addio - mi grida; gridan mille echi - addio!


(da "Poesie", Ed. d'Arte Rassegna, Bergamo 1971, p. 110)





ADDIO

di Leo Ferrero (1903-1933)


Ripartirai senza aver visto in questi

occhi inquieti tanta tenerezza

nascosta. Ed io non vidi in te che voglia

di chiamarmi e fuggire; onde so bene

che ti ritroverò fatta nemica,

come dopo ogni assenza. E dentro i grandi

buoni occhi vedrò nascer, col cauto

riso, la tua nuova finzione e un falso

timore; e intanto andrai cercando in mezzo

al tumulto la pace; e se ridendo,

quasi per gioco negherai l'amore

e la dolcezza agli uomini, nessuno

vedrà come sei triste e quanto hai sete

d'essere amata: la tua casa è vuota

di tenerezza, ed io ben so che in questa

allegria c'è del pianto. Io ti saluto

oggi che il sole maturò nei vasti

giardini colmi di rosai, per me

solo. E pien di tristezza è questo addio.


                                                      Firenze, Luglio 1924.


(da "La catena degli anni", Nuove Edizioni Capolago, Lugano 1939, p. 49)





ADDIO, PASSATO, SOGNI, TENEREZZA

di Nino Oxilia (Angelo Oxilia, 1889-1917)


Addio, passato, sogni, tenerezza!

nulla di voi mi resta. In labirinto

me ne vo senza voi. Dal fato spinto

non cerco più la via della saggezza.


Chi cantò in me ora tace, forse estinto

per sempre. Io non ò più la giovinezza.

Non ò più nulla fuorché la certezza

che non avrò mai nulla. Amen. Son vinto.


O mamma, non mi giova aver vissuto,

o mamma, non mi giova aver sofferto

e neppure mi giova ora morire


se pure l'estro mio s'è fatto muto,

se quello che pensai non lo so dire,

se il mio cuore s'è fatto già deserto.


(da "Poesie", Guida, Napoli 1973, p. 93)





L'ULTIMO GIORNO, L'ULTIMO ADDIO

di Lalla Romano (Graziella Romano, 1906-2001)


L'ultimo giorno, l'ultimo addio

non ha dolcezza

né amore


Forse lo stanco volo

dell'ultima ape

può essere altro che un gioco?


Suggere dai crisantemi

e dalle dalie agonizzanti

per chi, se non per i morti

amaro miele?


(da "Poesie", Einaudi, Torino 2004, p. 61)





COM'ERA BELLO CESARETTI

di Mario Tobino (1910-1991)


Com'era bello Cesaretti

che se ne andava giovane e felice

verso il suo destino.

Nella corsa

si voltò un istante,

e splendevano come camosci

le sue calze bianche:

«Addio» disse

«vado a conquistare il mondo».


(da "L'asso di picche. Veleno e Amore secondo", Mondadori, Milano 1974, p. 104)



Jacques-Louis David, "The Farewell of Telemachus and Eucharis"
(da questa pagina web)



venerdì 25 aprile 2025

Le rovine e le macerie causate dai bombardamenti in due poesie

 Dopo la comparsa della bomba atomica, quasi cento anni fa in tanti dissero che negli anni futuri le guerre non ci sarebbero più state, oppure sarebbero state così devastanti da mettere a rischio la vita di qualsiasi essere del pianeta terra. Non stavano così le cose: le guerre hanno continuato a susseguirsi, ed oggi sono più presenti che mai. In più, si può ben affermare che le guerre di oggi somigliano alle guerre di ieri: caratterizzate da fitti bombardamenti che radono al suolo le città, facendo tantissime vittime fra la popolazione, non risparmiando affatto i bambini, le donne, gli anziani e i malati. La ricorrenza del 25 aprile oggi assume un'importanza più accentuata, visti i disastri a cui ci tocca di assistere a causa delle guerre che ci accerchiano sempre di più, e che forse in un futuro non lontano ci coinvolgeranno direttamente; in occasione di una festa fondamentale per la nostra libertà quale è il 25 aprile, quest'anno ho voluto trascrivere due poesie che parlano delle rovine e delle macerie causate dai bombardamenti avvenuti durante la 2° Guerra Mondiale; sono, rispettivamente di Carlo Betocchi e di Donata Doni; furono scritte entrambe nel 1945: anno tragico, almeno se si parla dei suoi inizi: nei primi mesi del '45, in gran parte del nostro paese si verificarono degli eventi terribilmente crudi: coloro che ormai erano ad un passo dalla sconfitta non vollero cedere le armi senza continuare a perpetuare, sovrastati da un odio senza controllo, una serie di azioni bieche, di una spietatezza che non aveva precedenti; nello stesso tempo, quelli che erano diventati i nostri alleati, forse per accelerare i tempi della resa dei nemici, effettuarono bombardamenti a tappeto sulle città italiane, causando vittime su vittime, soprattutto fra la popolazione civile. Da questa sciagurata situazione nascono questi versi. 

Betocchi, guardando le rovine delle case dopo i bombardamenti, prova a immaginare un'altra realtà, talmente fantasiosa da poter superare la crudezza della visione: non ci sono più le case e neppure le persone che le abitavano, ma al loro posto si vede il cielo primaverile, e le rondini che volano intorno; ciò basta al poeta per essere ottimista, per immaginarsi un futuro migliore, dove chi ricostruirà ciò che è crollato, e chi tornerà a dimorare nelle nuove abitazioni (imitando i comportamenti di chi proprio lì visse e sognò un mondo migliore), permetterà di riformare quell'ombra spezzata, quella forza vitale che in qualche modo legherà i morti con i vivi, come se i primi tornassero ad esistere. 

Diverso è lo stato d'animo della Doni, che desolatamente osserva le macerie delle case distrutte, ricordando le stanze dove scorreva la vita di chi ci abitava, ricca di sentimenti e sensazioni dissimili; le bombe hanno raso al suolo quei luoghi cari, ponendo fine anche al tempo, come un orologio rotto fermo sull'ultima ora prima del fatidico bombardamento, prima che l'odio disintegrasse ogni segno di vita. Buon 25 aprile a tutti. 




ROVINE 1945

di Carlo Betocchi (1899-1986)


Non è vero che hanno distrutto

le case, non è vero:

solo è vero in quel muro diruto

l’avanzarsi del cielo


a piene mani, a pieno petto,

dove ignoti sognarono,

o vivendo sognare credettero,

quelli che son spariti…


Ora spetta all’ombra spezzata

il gioco d’altri tempi,

sopra i muri, nell’alba assolata,

imitarne gli incerti…


e nel vuoto alla rondine che passa.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984, p. 152)






L'ULTIMA ORA

di Donata Doni (Santina Maccarone, 1913-1972)


Erano le nostre case,

aperte al respiro dei giorni,

all'onda della vita.

Scandivano, voci alterne,

il ritmo fugace.

L'amore, la lotta, la culla, la bara,

segnavano il lento fluire dei giorni

coi nomi del tempo.

Erano le nostre case.

Le sconvolge, tra le macerie il vento,

le nasconde la pietà della notte,

le devasta la sete dei ricordi.

S'è fermato il cammino del tempo.

Nella voce disumana dell'odio

resta l'ultima ora.


                                                  Forlì, 1 aprile 1945


(da "Neve e mare", Edizioni di Storia e Letteratura, Roma MCMLXXIII, p. 51)

domenica 20 aprile 2025

Una poesia di Dino Garrone

 Dino Garrone (Novara 1904 - Parigi 1931), parlando di letteratura italiana, è stato uno dei più promettenti scrittori che appartenevano ad una generazione assai ricca di talenti: i nati nel primo decennio del XX secolo. Fu sicuramente sfortunato, visto che morì a soli ventisette anni per una setticemia insorta a seguito di una operazione ad un dente. La sua breve storia, è quella che accomuna tanti italiani: giovanissimo, forse un po' ingenuamente, fu fervente fascista, influenzato fortemente da quelli che valutava come degli ideali rivoluzionari; poi però, dopo non molti anni si rese conto della vera natura del regime, distaccandosene definitivamente e lasciando anche la sua amata Pesaro - dove visse per la gran parte della sua vita - per trasferirsi a Parigi, dove risiedette solamente un anno e mezzo. Scrisse articoli di vario argomento su giornali e riviste come Corriere Adriatico, Il Rosai, L'Universale e Il Resto del Carlino. I suoi scritti - prose e lettere soprattutto - furono pubblicati postumi. A quanto ne so è praticamente sconosciuta la sua attività poetica, se si esclude una lirica pubblicata dalla Fiera Letteraria nell'aprile del 1948, intitolata Mia Pasqua. La trascrivo di seguito insieme ad una parte del commento di Gabriele Armandi che si trova in calce alla poesia stessa.


Dino Garrone



MIA PASQUA

di Dino Garrone (1904-1931)


Pasqua! Ma l'anima a dislegare

nessuno arriva, dalla sua colla.

Se gonfia al sommo, si spacca la bolla

poi della voce: non sa pregare.


Aprile! Il gusto del tempo nuovo

chi l'assapora su questa soglia?

Purpureo è il fiore, sgorga la foglia

tènera. In cuore c'è marzo e rovo.


Campane! Smania chiusa, stravolta,

che mordi le corde, vicine, lontane.

I suoni gridano come le frane

nella vallata. Ma chi li ascolta?


Gesù! Ma se fossi rinato davvero

come ci dissero da bambini,

perché tu il filo dei nostri destini

non lo fai bianco piuttosto che nero?


Chiese! Stravibrano d'organo al crollo

nelle tre porte le cattedrali.

Che vale struggersi? Anche se l'ali

squarciano gli omeri, ricurvo è il collo.


Preghiere! Il sangue dalle ginocchia

trasuda. Sanguinano le orazioni.

Indifferente fra i tristi e i buoni

la Morte fila la sua conocchia.


Morte! Ma dunque pel varco stretto

ritroveremo l'età sognate?

Ritroveremo mai quell'estate

che ci dilacera sotto il corsetto?


Morte! Preistoria, infanzia, ritorno,

fresco viaggio della prima età.

Cheto fluisce dagli occhi il giorno:

ci sarà Pasqua nell'al di là?


***


  Mi è occorso, qualche mese fa (e, certo, per una singolare ventura), di ritrovare tra alcune vecchie carte, ammucchiate in un angolo del mio ufficio redazionale, un ingiallito ritaglio con la poesia «Mia Pasqua» di Dino Garrone.

  Per tutto il tempo che l'ho tenuta con me, in attesa dell'occasione propizia per ripubblicarla, me la son venuta leggendo e studiando fino ad amarla con la dolcezza e la tristezza insieme con cui oggi la offro ai lettori di questo giornale, nella speranza che una luce di poesia si accenda ad illuminare il ricordo di uno tra i nostri più tormentati e gagliardi scrittori.

[...]


                                                                                                Gabriele Armandi




(da «Fiera Letteraria», Anno III, n. 13, 4 aprile 1948, pagina 3)





domenica 13 aprile 2025

Riviste: la "Fiera Letteraria"

 La Fiera letteraria è il titolo di una rivista settimanale di lettere, scienze ed arti, che nacque a Milano nel 1925 per iniziativa di Umberto Fracchia. Dal 1929, la sede della rivista fu trasferita a Roma e cambiò anche il titolo in Italia letteraria; dopo sette anni però, cessò le pubblicazioni. Nel 1946, la rivista rinacque col titolo originario, pubblicando per lo più saggi, prose e poesie; nel 1968 cessò di nuovo le pubblicazioni, per riprenderle nel 1971, fino al 1977: anno in cui la Fiera letteraria concluse la sua esistenza. Ritengo che il periodo più significativo della rivista romana - almeno dal versante della poesia italiana - sia identificabile in quello che inizia con l'immediato secondo dopoguerra e termina con l'anno della cosiddetta "contestazione giovanile". In questo ventennio, i comitati che si alternarono alla direzione della Fiera letteraria, ebbero il merito di captare parecchi talenti poetici emergenti, e di dargli ampio spazio sulle pagine della rivista. Concludo trascrivendo tre poesie pubblicate proprio nel periodo sopra indicato.


Prima pagina della rivista: "La Fiera Letteraria", anno 1, numero 1, 13 dicembre 1925
(da questa pagina web)



GLI UBRIACHI

di Luca Canali (1925-2014)


Questa sera cantiamo a squarciagola.

Mi ricordo una limpida giornata

che silenziosi andammo lungo il mare:

come altro sangue in tutti noi

gridava il sole nelle nostre vene.

Ma a quest'ora che serba del giorno

una fede violenta e sanguigna

vanno a frotte animali assetati

scoppiano i semi gonfi nella terra.

Ci sentiamo viandanti disperati

con ognuno una strada.

Come un'amara linfa ci separa

è la sorte trovata questa sera

con la feccia nel fondo d'un 

                            bicchiere.


(da «Fiera Letteraria», Anno 1, N. 36, 12 dicembre 1946)





APPARIZIONE

di Fabio Carpi (1925-2018)


Da un inviolato mondo

ella m'apparve, e tenera le braccia

e gli occhi spalancava: io la vedevo

piangere nel tramonto.


Specchio alla sua tristezza

mi furono le tenebre, l'inganno

che una più lunga giornata trattiene.

Ansiosamente udivo

rifrangersi nell'acqua

di un vicino ruscello la tua voce,

e le tue labbra premere il mio cuore

come un dolce fiato di sole.


Poi di nuovo riapparvero sui monti

nuvole gigantesche, si specchiava

la mia pupilla avida di luce

tra le fronde degli alberi, riverso

il capo dondolava come un fiore

che si chiude alla notte.

                   Accolsi il nulla,

chiusi me stesso al giorno, alla speranza.


(da «Fiera Letteraria», Anno II, n. 28, luglio 1947)





NOTTE E UN NOME

di Francesco Tentori (1924-1995)


                                                                                per Annamaria

Né la luna né l'orlo del fanale

né la musica ormai ridotta a un'ombra

bastano a consolare queste case

oppresse dalla notte, dove i lumi

accendono un nostalgico scenario

che alterna pena e rottami di gioia.

Tu ed io potremmo ancora impietosirci

per questo dramma di calce e di vetro,

se poi la noia non tagliasse i nodi

abbassando il sipario sulla piazza.

Vedi, un sorriso ci rende crudeli:

siamo vicini e non possiamo piangere,

anche se il mondo intorno a noi è un lamento.

Forse sapremo ritrovare il filo

della fuga da questo labirinto

di parole e di volti, oppure il cielo

precipitando un angelo atterrito

ci illuderà con un falso miracolo.


(da «Fiera Letteraria», Anno V, n. 11, 12 marzo 1950)