venerdì 22 febbraio 2019

Le mani nella poesia italiana decadente e simbolista


Il tema delle mani è sempre stato molto caro a Gabriele D'Annunzio, come si evince leggendo svariate poesie e alcuni romanzi da lui firmati; a sua volta, il poeta pescarese ha attinto da Baudelaire, Verlaine, Rodenbach e Maeterlinck. Nelle poesie dei decadenti e dei simbolisti le mani sono quasi sempre femminili, e gli aggettivi con cui vengono descritte (bianche, candide, delicate, ceree, pallide, eucaristiche ecc.) stanno a simboleggiare la purezza. Più raramente vi sono riferimenti evidenti alla sfera del macabro e del sadico; ciò avviene in alcuni versi del D'Annunzio e, soprattutto, del Rubino, dove si paventa una terrificante Danza delle mani amputate. Non frequenti anche le allusioni al settore della sensualità; in questo caso è ancora una volta il D'Annunzio a primeggiare, insieme a Guido Da Verona, come ben mostrano questi versi tratti dalla lunga poesia Canzone della Mano Incipriata: «Veniva con me. Voleva stare con me. / Forse - ho pensato - mi amava. / Ed io pure amavo questa mano, / come si ama nei giorni più torbidi / una intera e bellissima donna viva. / Più ancora. L'amavo così forte / che il mio desiderio nel toccarla / sentiva il piacere della morte. / Vedi: era solamente una mano / più piccola della tua che nascondi, / e pure sentivo il profumo / de' suoi lunghissimi capelli biondi. / Vedi: era solamente una mano / più piccola della tua che ho nel palmo, / e pure sentivo il respiro / del suo largo seno aperto come un ventaglio calmo [...]». Ma la mano singola, come si può intuire leggendo le poesie di Marrone e di Buzzi, può essere associata, in modo più o meno velato, alla morte.



Poesie sull'argomento

Paolo Buzzi: "La mano nera" in "Il poema dei quarant'anni" (1922).
Gabriele D'Annunzio: "Le mani" in "Poema paradisiaco" (1893).
Guido Da Verona: "Canzone della Mano Incipriata" in "Il libro del mio sogno errante" (1919).
Giuliano Donati Pétteni: "Le mani" in "Intimità" (1926).
Luisa Giaconi: "Le morte mani" in "Tebaide" (1912).
Corrado Govoni: "Culto di mani" in "Le Fiale" (1903).
Amalia Guglielminetti: "Una mano" in "Le Seduzioni" (1909).
Tito Marrone: "La mano" in "Cesellature" (1899).
Nicola Moscardelli: "Le mani" in "Abbeveratoio" (1915).
Antonio Rubino: "Danza delle mani amputate" in "Versi e disegni" (1911).
Emanuele Sella: "O delicate mani" in "Il giardino delle stelle" (1907).
Remigio Zena, "Torna, o soave dalle bianche mani" in "Le pellegrine" (1894).
Giuseppe Zucca: "Le mani leggere" in "Io" (1919).

 
Louis Welden Hawkins, "Severine"
(da questa pagina web)

Testi

O DELICATE MANI
di Emanuele Sella

O delicate mani! io ben rammento
quando vi strinsi per la prima volta:
a quel dolce contatto un'assai grande
letizia mi comprese: un desìo folle
di fuggir di morire di vanire
davanti agli occhi suoi come una bianca
nuvola spinta a qualche mèta ignota.

Ed ecco un dolce brivido sottile
per tutto il corpo, ecco fluire il sangue
più caldo nelle vene, ecco le membra
da un dolce soffio scosse, ecco un torpore
insinuato e un desìo diffuso
in una sonnolenza fluttuante
come un'aroma per l'azzurro immenso!

O delicate mani! Egle, rammenti
quando levando il calice ricolmo
di dolce vino mi dicevi: libo
ai desideri tuoi? Egle, rammenti
il turbamento mio? Volser più lune
da quella sera; tu mi stavi al fianco
sopra il bel monte che sovrasta il borgo
dove nascemmo: e molti amici e molta
letizia intorno, ed un compiacimento
della natura in quella notte estiva.

E allora, io, forse fatalmente spinto
da qualche strano impulso innaturale,
sul culmine del monte un rogo immenso
con le mie stesse mani accender volli.
E tu plaudivi con la dolce voce
e col gesto regale, Egle divina,
e fornivi alla mia fiamma alimento.

Ahi! come il monte che di foschi abeti
e di pini s'ammanta e che paventa
l'improvvida scintilla del pastore,
io tutto invaso fui da quella fiamma
dalle tue belle mani alimentata.
Ardere il cuore e ardere le vene
io mi sentivo e ancor mi sento e grido:
amor mi mise in foco, Egle divina,
e vorace divora ogni mia fibra.

O mani, o mani! quale smisurato
abisso il gesto d'una donna schiude.

(da "Il giardino delle stelle")

domenica 17 febbraio 2019

La mia triste vita


Il tema delle domeniche malinconiche, tanto caro ai crepuscolari, è quello di La mia triste vita, quartultima poesia della sezione Vagabonde che chiude la raccolta Arie paesane, pubblicata dall'editore Taddei in Ferrara nel 1920, e che può essere considerata la più famosa di Sandro Baganzani (Verona 1889 - ivi 1950).
Una marcata sofferenza dovuta alla malinconia che si diffonde nell'aria della solita, ripetitiva domenica in un paese della provincia italiana fa desiderare al poeta un'evasione procurata magari da un ubriacatura o dalla lettura di un romanzo appassionante, o ancora dal ricordo di un intenso amore passato. Poi Baganzani paragona la sua vita ad un canale squallido e infine invoca di nuovo l'alcol per dimenticare. Si può affermare che l'autore di questi versi sia uno tra i maggiori prosecutori del crepuscolarismo, i cui elementi principali è facile trovare, soprattutto nelle sue poesie degli anni venti del XX secolo.




LA MIA TRISTE VITA

Questa giornata domenicale che gronda
malinconia di lumi nel canale morto
del chiasso delle campane,
le grida dei venditori ambulanti,
il piffero che fa ballare gli amanti sul piazzale,
è come un lento male
che si attacca ai distanti,
il male della domenica.

Vorrei ubbriacarmi per non pensare:
entrare nella osteria
dove si beve il vino di San Martino:
dare dei grandi pugni sulla tavola
per coprire il rumore dell'armonica:
avere un garofano all'occhiello come loro
che riderebbero certo
dei nomi strambi che vi ò dato,
Rosachiara, Chiomadoro.

Decadenza!
Nella mia camera immensa
piangere su di un romanzo:
come se i gialli cartocci delle foglie
che riempiono i viali
mi portino via qualchecosa
di molto caro,
che non so bene in fondo cosa sia:
e forse è l'ombra della tua veste
che dilegua,
forse è il profumo
del tuo seno di bambina
sotto la batista e la mussolina,
forse è la dolcezza delle parole
che ci scrivemmo un giorno
che non ci diremo più.

Perchè la mia vita
è come questo canale
che porta i fanali
uno dietro l'altro, in processione,
dove vengono a bere
i cavalli stracchi dei vetturali
(in primavera
vi si buttano anche ad annegare
i gattini delle povere gatte
senza latte!)
la mia vita!

Ubbriacarmi, per non pensare.

(da "Arie paesane" di Sandro Baganzani, A. Taddei & Figli, Ferrara 1920, pp. 101-102)

domenica 10 febbraio 2019

Antologie: Marinetti e i futuristi

Non è soltanto un'antologia poetica, questo ottimo volume curato da Luciano De Maria e pubblicato nel 1994 dalla Garzanti di Milano; qui si possono trovare molti manifesti, alcuni scritti teorici e politici (compresi quelli polemici) e parte di testi prosastici e teatrali riguardanti il movimento d'avanguardia italiano più importante del XX secolo. Ovviamente si dà uno spazio non indifferente al fondatore del Futurismo: Filippo Tommaso Marinetti. Per quel che concerne la parte poetica, situata all'interno della quarta sezione, intitolata Testi creativi, il curatore giustamente prende in considerazione soltanto i migliori esponenti del movimento: Paolo Buzzi, Enrico Cavacchioli, Luciano Folgore, Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi; meno spazio trovano i fautori della prosa poetica come Bruno Corra e Mario Carli. Chi, però, volesse approfondire maggiormente il lato poetico del Futurismo, meglio farebbe a consultare un'altra antologia di cui ho già parlato: I Poeti del Futurismo 1909-1944 ( a cura di Glauco Viazzi), poiché mi sembra ancora oggi la più completa ed esaustiva del settore. Ecco, infine, l'elenco dei poeti selezionati dal curatore dell'opera.



MARINETTI E I FUTURISTI

Filippo Tommaso Marinetti, Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi, Paolo Buzzi, Enrico Cavacchioli, Luciano Folgore, Francesco Cangiullo, Ardengo Soffici, Bruno Corra, Mario Carli.

domenica 3 febbraio 2019

14 poesie di 14 poeti italiani del XX secolo sull'addio alla scrittura e alla vita


In queste poesie c'è una evidente intenzione, da parte degli autori, di chiudere con la scrittura in versi; in taluni casi, l'intenzione è ben più ampia e importante, trattandosi di testamenti. È chiaro che si tratta di testamenti poetici, anche se, sebbene raramente, si riscontrino una certa percentuale di indizi che fanno pensare a veri e propri testamenti. È il caso dei versi di Enrico Fracassi, che si suicidò a soli ventidue anni lasciando pochissime poesie inedite che furono pubblicate molti anni dopo la sua scomparsa. Ma anche in altri casi emerge in modo evidente una sincerità non discutibile: penso ai poeti destinati a morire entro poco tempo per malattia, per vecchiaia o, ancora una volta, per loro volontà. Ci sono poi casi in cui il poeta dichiara di chiudere la sua attività letteraria, ma in realtà non lo fa; Enrico Thovez per esempio, nella sua ultima poesia della sua prima opera poetica sembra abbia intenzione, dopo aver dato alla luce un capolavoro memorabile, di non pubblicare più nulla; al contrario, circa venti anni dopo Il poema dell'adolescenza (da cui è tratta la poesia qui presente), farà uscire un'ulteriore opera in versi. Anche il Congedo di Marino Moretti non è attendibile, se è vero che uscì nel volume Tutte le poesie del 1966, come fosse sicura la cessazione della sua attività letteraria; invece, all'opera citata, seguirono, da parte dello scrittore romagnolo, altri romanzi e altre poesie, pubblicate fino al limite della vecchiaia. Ma quelli che seguono sono, al di là di ulteriori, noiosi ragionamenti, tutti versi apprezzabili per profondità, bravura, fantasia e ironia: come capita spessissimo se si parla di poesia italiana del Novecento.




CANZONE TRISTE IN TRE PARTI
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

I

Ora che m' avvicino a voi
mentre parlate, soli, o ad altri
che non v'ascoltano...
Ora che m' avvicino alla morte
e a voi che a lei vi stringete
perché è l'ultima cosa che vi resta.
Ora soltanto intendo quel che dite
e la ragione che vi fa parlare.

Una sera dopo una giornata
troppo bella d'ottobre in un albergo
decaduto di Parma in cui
non accendono
profittando di questa luce incerta.
Così è un po' buio, fa un po' freddo,
al pensionante non è dato che parlare,
ma a chi?
Prima che le lampade imbianchino
le tovaglie e colorino i miseri garofani
per la commedia vivida del pranzo,
lasciate che un quieto delirio di parole
di donne rinnovi le gonne fugaci, i corpetti celesti
che il mulinello d'ombra inghiottirà
nell'istante che precede
l'avvicendarsi dei turni di servizio.


II

Era questo il mormorio indistinto
da un'altra stanza che rassicurava
l'adolescente in lagrime, la saggezza raggiunta
nella rinuncia?


III

A quelli che vorrebbero tenermi qui -
morti che mi amano ancora
perché non gli resta altro da fare
che amarmi sin che anch' io
non sia tornato con loro
dietro il muro sbiadito e il marmo
che salda la calcina mischiata
con sabbia del Baganza e acqua
del condotto farnesiano -
vivi che non mi hanno mai amato
e dicono di preferire
quella mia poesia di una grazia
proverbiale, dico: lasciatemi andare,
giugno è ventoso
e queste foglie amare
sono imbrattate di lucciole sfinite,
lasciatemi andare via.

(da "La lucertola di Casarola", Garzanti, Milano 1997)




AUGURIO
di Gustavo Botta (1880-1948)

Dopo la sorda romba
di un mondo irrequieto,
il fiore del segreto
consoli la mia tomba.

(da "Alcuni scritti", Ariel, Milano 1952)




ALLA MIA OMBRA
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Qualcuno ti cancelli
a mia immagine e somiglianza
ombra scompagnata
che ancora scivoli
vacillante sui muri
sperduta nelle stanze.

(da "Ultime", Idola Novecento, Palermo 2000)




LA MORTE DI TANTALO
di Sergio Corazzini (1886-1907)

Noi sedemmo sull'orlo
della fontana nella vigna d'oro.
Sedemmo lacrimosi in silenzio.
Le palpebre della mia dolce amica
si gonfiavano dietro le lagrime
come due vele
dietro una leggera brezza marina.

Il nostro dolore non era dolore d'amore
né dolore di nostalgia
né dolore carnale.
Noi morivamo tutti i giorni
cercando una causa divina
il mio dolce bene ed io.

Ma quel giorno già vanìa
e la causa della nostra morte
non era stata rinvenuta.

E calò la sera su la vigna d'oro
e tanto essa era oscura
che alle nostre anime apparve
una nevicata di stelle.

Assaporammo tutta la notte
i meravigliosi grappoli.
Bevemmo l'acqua d'oro,
e l'alba ci trovò seduti
sull'orlo della fontana
nella vigna non più d'oro.

O dolce mio amore,
confessa al viandante
che non abbiamo saputo morire
negandoci il frutto saporoso
e l'acqua d'oro, come la luna.
E aggiungi che non morremo più
e che andremo per la vita
errando per sempre.

(da "Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1968)




CONGEDO
di Enrico Fracassi (1902-1924)

Sottoterra non vive spirito o senso:
le ceneri peregrinano, poi si confondono.
Atomi elevano le montagne, monumenti,
che illuminano lampade, senza ricordo accese.

Dolce per me sarebbe e per te profondare nella quiete,
sul tuo seno assaporo una più certa morte;
non più ascolteremmo, sparte membra nel suolo,
scendere di soppiatto, fra le viti, la sera.
Per noi, sulle montagne, ora s’accenderebbero
quelle immobili lampade sepolcrali.

(da "Passione e oblio", Edizioni Il Labirinto", Roma 1998)




PRESAGIO
di Giulio Gianelli (1879-1914)

Come oggi parto verso l'alpe, o amici,
presto m'involerò per altra via,
eternamente. Così vuol che sia
l'anima, se da lei tolgo gli auspici.

Mi evocherete lungo le pendici
dove un giorno cantai la madre mia,
e, sposa eletta, la malinconia
mi soccorreva d'attimi felici.

Non piangerete; favola è la morte
per me, come la vita, che non ebbi
suddita al verbo d'un'ignobil sorte.

Non so per qual prodigio di natura,
io che tra voi, fraternamente, crebbi,
un'immagine fui, non creatura.

(da "Intimi vangeli", Streglio, Torino 1908)




CONGEDO
di Marino Moretti (1885-1979)

Tutto vi lascio del mio Novecento
in prosa o in verso che è quel ch'io possiedo,
con una casa, un focolare spento
e uno squallido arredo.

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1966)




CONGEDO
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

E ora vi dico addio
perché la mia carriera
è finita:
evviva!
Muoiono i poeti
ma non muore la poesia
perché la poesia
è infinita
come la vita.

(da "Via delle cento stelle", Mondadori, Milano 1972)




NOVEMBRE
di Antonia Pozzi (1912-1938)

E poi – se accadrà ch'io me ne vada –
resterà qualchecosa
di me
nel mio mondo –
resterà un'esile scìa di silenzio
in mezzo alle voci –
un tenue fiato di bianco
in cuore all'azzurro –

Ed una sera di novembre
una bambina gracile
all'angolo d'una strada
venderà tanti crisantemi
e ci saranno le stelle
gelide verdi remote –
Qualcuno piangerà
chissà dove – chissà dove –
Qualcuno cercherà i crisantemi
per me
nel mondo
quando accadrà che senza ritorno
io me ne debba andare.

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998)




LAPIDE
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Non è un orto
o un giardino
il cimitero
dove io sono sepolto.
È un luogo assorto,
un muro.
Ogni bene è scontato,
ogni debito pagato
e il nome tutelato.
Mio amico, fratello
contami i vecchi giuochi,
il fumo, i fuochi antichi.
Prendi di me l'effige,
le rughe, la fuliggine,
le lacrime, la ruggine.
Non è un orto
o un giardino
il cimitero dove io sono sepolto.
È un regno spento, muto.
Qui l'amore è perduto.
Qui la festa è finita.

(da "L'ellisse. Poesie 1932-1972", Mondadori, Milano 1974)




LA MIA BARA
di Giovanni Testori (1923-1993)

Ho cominciato a costruire
insieme a te
il mio letto di sempre,
la mia bara.

Guarda:
è come un'altra casa,
anzi, più certa,
più sicura
e cara.

(da "Per sempre", Feltrinelli, Milano 1970)




ADDIO
di Enrico Thovez (1869-1925)

Ho fatto intero il mio compito. La poesia ch'era in me,
in questi cuori, fra queste aride mura, nel tedio
della mia misera vita, io l'ho vestita del genio
del mio pensiero, le ho infuso la mia sostanza immortale.
Nel mondo dolce e negato per sempre, nelle correnti
fervide dell'esistenza, da quest'angusta prigione
scagliai il cuore veemente, il cuore nato a un più alto
destino, a legge più dolce. Stanco, ferito, ora al fine
cedo alla sorte. Insensibile l'oscura notte mi avvolge,
mi fascia d'ombra la mente, mi vela gli occhi che tanto
arsero d'entusiasmo per questo lucido mondo...
Tra poco pur avrà pace questo mio indomito cuore.
Oh, possa vivere ancora oltre il mio corpo il mio spirito
in questo verso! vi esulti ignuda voce; e il mio grido
eternamente negli anni agiti il cuore dell'uomo!

(da "Il poema dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)




I GIORNI, I MESI, GLI ANNI
di Diego Valeri (1887-1976)

I giorni, i mesi, gli anni,
dove mai sono andati?
Questo piccolo vento
che trema alla mia porta,
uno a uno, in silenzio,
se li è portati via.
Questo piccolo vento
foglia a foglia mi spoglia
dell’ultimo mio verde
già spento. E così sia.

(da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1977)




IL POETA MORTO
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

La barba cresce
anche sulla faccia dei morti.
Così il poeta morto
continua
a farsi crescere i versi
sul cadavere.

(da "La fame degli occhi", Florida, Roma 1982)



Pericles Pantazis, "The Writer"
(da questa pagina)