domenica 3 febbraio 2019

14 poesie di 14 poeti italiani del XX secolo sull'addio alla scrittura e alla vita


In queste poesie c'è una evidente intenzione, da parte degli autori, di chiudere con la scrittura in versi; in taluni casi, l'intenzione è ben più ampia e importante, trattandosi di testamenti. È chiaro che si tratta di testamenti poetici, anche se, sebbene raramente, si riscontrino una certa percentuale di indizi che fanno pensare a veri e propri testamenti. È il caso dei versi di Enrico Fracassi, che si suicidò a soli ventidue anni lasciando pochissime poesie inedite che furono pubblicate molti anni dopo la sua scomparsa. Ma anche in altri casi emerge in modo evidente una sincerità non discutibile: penso ai poeti destinati a morire entro poco tempo per malattia, per vecchiaia o, ancora una volta, per loro volontà. Ci sono poi casi in cui il poeta dichiara di chiudere la sua attività letteraria, ma in realtà non lo fa; Enrico Thovez per esempio, nella sua ultima poesia della sua prima opera poetica sembra abbia intenzione, dopo aver dato alla luce un capolavoro memorabile, di non pubblicare più nulla; al contrario, circa venti anni dopo Il poema dell'adolescenza (da cui è tratta la poesia qui presente), farà uscire un'ulteriore opera in versi. Anche il Congedo di Marino Moretti non è attendibile, se è vero che uscì nel volume Tutte le poesie del 1966, come fosse sicura la cessazione della sua attività letteraria; invece, all'opera citata, seguirono, da parte dello scrittore romagnolo, altri romanzi e altre poesie, pubblicate fino al limite della vecchiaia. Ma quelli che seguono sono, al di là di ulteriori, noiosi ragionamenti, tutti versi apprezzabili per profondità, bravura, fantasia e ironia: come capita spessissimo se si parla di poesia italiana del Novecento.




CANZONE TRISTE IN TRE PARTI
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

I

Ora che m' avvicino a voi
mentre parlate, soli, o ad altri
che non v'ascoltano...
Ora che m' avvicino alla morte
e a voi che a lei vi stringete
perché è l'ultima cosa che vi resta.
Ora soltanto intendo quel che dite
e la ragione che vi fa parlare.

Una sera dopo una giornata
troppo bella d'ottobre in un albergo
decaduto di Parma in cui
non accendono
profittando di questa luce incerta.
Così è un po' buio, fa un po' freddo,
al pensionante non è dato che parlare,
ma a chi?
Prima che le lampade imbianchino
le tovaglie e colorino i miseri garofani
per la commedia vivida del pranzo,
lasciate che un quieto delirio di parole
di donne rinnovi le gonne fugaci, i corpetti celesti
che il mulinello d'ombra inghiottirà
nell'istante che precede
l'avvicendarsi dei turni di servizio.


II

Era questo il mormorio indistinto
da un'altra stanza che rassicurava
l'adolescente in lagrime, la saggezza raggiunta
nella rinuncia?


III

A quelli che vorrebbero tenermi qui -
morti che mi amano ancora
perché non gli resta altro da fare
che amarmi sin che anch' io
non sia tornato con loro
dietro il muro sbiadito e il marmo
che salda la calcina mischiata
con sabbia del Baganza e acqua
del condotto farnesiano -
vivi che non mi hanno mai amato
e dicono di preferire
quella mia poesia di una grazia
proverbiale, dico: lasciatemi andare,
giugno è ventoso
e queste foglie amare
sono imbrattate di lucciole sfinite,
lasciatemi andare via.

(da "La lucertola di Casarola", Garzanti, Milano 1997)




AUGURIO
di Gustavo Botta (1880-1948)

Dopo la sorda romba
di un mondo irrequieto,
il fiore del segreto
consoli la mia tomba.

(da "Alcuni scritti", Ariel, Milano 1952)




ALLA MIA OMBRA
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Qualcuno ti cancelli
a mia immagine e somiglianza
ombra scompagnata
che ancora scivoli
vacillante sui muri
sperduta nelle stanze.

(da "Ultime", Idola Novecento, Palermo 2000)




LA MORTE DI TANTALO
di Sergio Corazzini (1886-1907)

Noi sedemmo sull'orlo
della fontana nella vigna d'oro.
Sedemmo lacrimosi in silenzio.
Le palpebre della mia dolce amica
si gonfiavano dietro le lagrime
come due vele
dietro una leggera brezza marina.

Il nostro dolore non era dolore d'amore
né dolore di nostalgia
né dolore carnale.
Noi morivamo tutti i giorni
cercando una causa divina
il mio dolce bene ed io.

Ma quel giorno già vanìa
e la causa della nostra morte
non era stata rinvenuta.

E calò la sera su la vigna d'oro
e tanto essa era oscura
che alle nostre anime apparve
una nevicata di stelle.

Assaporammo tutta la notte
i meravigliosi grappoli.
Bevemmo l'acqua d'oro,
e l'alba ci trovò seduti
sull'orlo della fontana
nella vigna non più d'oro.

O dolce mio amore,
confessa al viandante
che non abbiamo saputo morire
negandoci il frutto saporoso
e l'acqua d'oro, come la luna.
E aggiungi che non morremo più
e che andremo per la vita
errando per sempre.

(da "Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1968)




CONGEDO
di Enrico Fracassi (1902-1924)

Sottoterra non vive spirito o senso:
le ceneri peregrinano, poi si confondono.
Atomi elevano le montagne, monumenti,
che illuminano lampade, senza ricordo accese.

Dolce per me sarebbe e per te profondare nella quiete,
sul tuo seno assaporo una più certa morte;
non più ascolteremmo, sparte membra nel suolo,
scendere di soppiatto, fra le viti, la sera.
Per noi, sulle montagne, ora s’accenderebbero
quelle immobili lampade sepolcrali.

(da "Passione e oblio", Edizioni Il Labirinto", Roma 1998)




PRESAGIO
di Giulio Gianelli (1879-1914)

Come oggi parto verso l'alpe, o amici,
presto m'involerò per altra via,
eternamente. Così vuol che sia
l'anima, se da lei tolgo gli auspici.

Mi evocherete lungo le pendici
dove un giorno cantai la madre mia,
e, sposa eletta, la malinconia
mi soccorreva d'attimi felici.

Non piangerete; favola è la morte
per me, come la vita, che non ebbi
suddita al verbo d'un'ignobil sorte.

Non so per qual prodigio di natura,
io che tra voi, fraternamente, crebbi,
un'immagine fui, non creatura.

(da "Intimi vangeli", Streglio, Torino 1908)




CONGEDO
di Marino Moretti (1885-1979)

Tutto vi lascio del mio Novecento
in prosa o in verso che è quel ch'io possiedo,
con una casa, un focolare spento
e uno squallido arredo.

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1966)




CONGEDO
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

E ora vi dico addio
perché la mia carriera
è finita:
evviva!
Muoiono i poeti
ma non muore la poesia
perché la poesia
è infinita
come la vita.

(da "Via delle cento stelle", Mondadori, Milano 1972)




NOVEMBRE
di Antonia Pozzi (1912-1938)

E poi – se accadrà ch'io me ne vada –
resterà qualchecosa
di me
nel mio mondo –
resterà un'esile scìa di silenzio
in mezzo alle voci –
un tenue fiato di bianco
in cuore all'azzurro –

Ed una sera di novembre
una bambina gracile
all'angolo d'una strada
venderà tanti crisantemi
e ci saranno le stelle
gelide verdi remote –
Qualcuno piangerà
chissà dove – chissà dove –
Qualcuno cercherà i crisantemi
per me
nel mondo
quando accadrà che senza ritorno
io me ne debba andare.

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998)




LAPIDE
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Non è un orto
o un giardino
il cimitero
dove io sono sepolto.
È un luogo assorto,
un muro.
Ogni bene è scontato,
ogni debito pagato
e il nome tutelato.
Mio amico, fratello
contami i vecchi giuochi,
il fumo, i fuochi antichi.
Prendi di me l'effige,
le rughe, la fuliggine,
le lacrime, la ruggine.
Non è un orto
o un giardino
il cimitero dove io sono sepolto.
È un regno spento, muto.
Qui l'amore è perduto.
Qui la festa è finita.

(da "L'ellisse. Poesie 1932-1972", Mondadori, Milano 1974)




LA MIA BARA
di Giovanni Testori (1923-1993)

Ho cominciato a costruire
insieme a te
il mio letto di sempre,
la mia bara.

Guarda:
è come un'altra casa,
anzi, più certa,
più sicura
e cara.

(da "Per sempre", Feltrinelli, Milano 1970)




ADDIO
di Enrico Thovez (1869-1925)

Ho fatto intero il mio compito. La poesia ch'era in me,
in questi cuori, fra queste aride mura, nel tedio
della mia misera vita, io l'ho vestita del genio
del mio pensiero, le ho infuso la mia sostanza immortale.
Nel mondo dolce e negato per sempre, nelle correnti
fervide dell'esistenza, da quest'angusta prigione
scagliai il cuore veemente, il cuore nato a un più alto
destino, a legge più dolce. Stanco, ferito, ora al fine
cedo alla sorte. Insensibile l'oscura notte mi avvolge,
mi fascia d'ombra la mente, mi vela gli occhi che tanto
arsero d'entusiasmo per questo lucido mondo...
Tra poco pur avrà pace questo mio indomito cuore.
Oh, possa vivere ancora oltre il mio corpo il mio spirito
in questo verso! vi esulti ignuda voce; e il mio grido
eternamente negli anni agiti il cuore dell'uomo!

(da "Il poema dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)




I GIORNI, I MESI, GLI ANNI
di Diego Valeri (1887-1976)

I giorni, i mesi, gli anni,
dove mai sono andati?
Questo piccolo vento
che trema alla mia porta,
uno a uno, in silenzio,
se li è portati via.
Questo piccolo vento
foglia a foglia mi spoglia
dell’ultimo mio verde
già spento. E così sia.

(da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1977)




IL POETA MORTO
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

La barba cresce
anche sulla faccia dei morti.
Così il poeta morto
continua
a farsi crescere i versi
sul cadavere.

(da "La fame degli occhi", Florida, Roma 1982)



Pericles Pantazis, "The Writer"
(da questa pagina)

mercoledì 30 gennaio 2019

Largo


 O lasciate lasciate che io sia
una cosa di nessuno
per queste vecchie strade
in cui la sera affonda –

O lasciate lasciate ch'io mi perda
ombra nell'ombra –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce –

E non chiedetemi – non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l'arcana folla
dei miei fantasmi –
e non cercate – non cercate
quello ch'io cerco
se l'estremo pallore del cielo
m'illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge a entrare –

Non domandatemi se prego
e chi prego
e perché prego –

Io entro soltanto
per avere un po' di tregua
e una panca e il silenzio
in cui parlino le cose sorelle –
Poi ch'io sono una cosa –
una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del suo mondo –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce –

Milano, 18 ottobre 1930



Questa intensissima poesia è di Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938), e l'ho trascritta dalle pagine 34 e 35 del volume Parole, Garzanti, Milano 1998, in cui sono presenti tutti i versi della poetessa lombarda prematuramente scomparsa.
Qui, mi pare, si possano rintracciare dei segni evidenti di una disperazione interiore che porterà la Pozzi, otto anni dopo, verso il suicidio. Non è ben chiaro a chi, la poetessa, rivolga fin dai primi versi le sue suppliche, ma si presuppone che siano le persone più vicine a lei in quel momento. Si respira un'atmosfera di estraniamento misto a rassegnazione, che si palesa in una necessità di solitudine, di lontananza da tutto e da tutti; la Pozzi dice di aver voglia di perdersi e null'altro; non ha voglia di rispondere a domande troppo impegnative riguardanti i suoi progetti futuri o la sua identità. Poi, sempre rivolgendosi a una non ben precisata umanità, chiede di non indagare troppo sul fatto che stia provando una sensazione di vuoto totale, che gli sta facendo perdere ogni motivazione per continuare a vivere; la sua anima, ormai svuotata da ogni presenza reale, si è popolata di fantasmi, ovvero di entità fittizie. Allora, per ritrovare almeno un perché della vita, la poetessa, mentre sta camminando senza meta sul far della sera, prova ad entrare nella prima chiesa che incontra lungo una vecchia strada; ma il motivo della sua sosta all'interno della chiesa non è soltanto dovuta alla ricerca di una fede perduta, o al bisogno di preghiera, bensì al desiderio di un luogo appartato, calmo e silenzioso; tant'è vero che chiede di non essere seguita, di essere lasciata sola a meditare. E lì, trova conforto nel paragonarsi agli oggetti (le cose) presenti, poiché la distanza che prova  dal resto dell'umanità è tale da sentirsi più vicina alle cose inanimate che vede intorno a sé, e così s'immedesima negli oggetti, e come gli oggetti vecchi e dimenticati di un luogo pubblico, si sente di non appartenere a nessuno e di essere stata dimenticata da tutti. E mentre scende lentamente la sera e la luce cala sempre di più, vorrebbe scomparire nel buio guardando l'ultima luce scemare per sempre.   

martedì 29 gennaio 2019

I leoni


Urlavano i leoni nella notte,
gonfiavano nel buio, dardeggiavano
l'ugola in fiamme al fanciullo atterrito.
Di sotto al vecchio armadio, d'improvviso
si stendeva la zampa imperiosa,
si stirava, graffiava l'impiantito.

Venne un giorno, scomparvero i leoni.
Non c'erano
alla stazione di Sovilla, sotto
le nuvole ronzanti, s'anche uscivano
dal gioco scomparendo
nel grano verde e i compagni, se presso
volavano i rametti al doppio colpo
lassù, dell'arboreo cecchino. 
                                         Non c'erano
più tardi,
nella città divampante, nei laghi
di fosforo, a filo
della pistola, nella gabbia cieca
del prigioniero.

                      Oggi che l'ombre
della sera s'infoltano, qualcosa
nel buio si rimuove, silenziosi
dall'infanzia ritornano i leoni?
Ah, ch'io più non ne tremi, ch'io con fermo
cuore m'avvii, ridiscenda
sulla soglia, a incontrarli.





 Questa bellissima poesia di Sergio Solmi (Rieti 1899 - Milano 1981) si trova nel Volume I (Poesie, meditazioni e ricordi), tomo primo (Poesie e versioni poetiche) delle Opere dello scrittore laziale che la casa editrice Adelphi di Milano pubblicò nel 1983. La si può leggere alla pagina 71, all'interno della sezione Dal balcone. Venne pubblicata per la prima volta in Poesie complete: altro libro edito da Adelphi nel 1974, che è anche il primo in cui sono presenti tutte le poesie che Solmi aveva pubblicato entro quel preciso anno. In calce alla lirica è riportata la data del 1957.
Si parla di leoni, ovvero dei famigerati felini africani, che qui divengono simbolo di inaudita violenza, di ferocia e di terrore. Il poeta ricorda che, nella sua ormai lontana infanzia, rimaneva atterrito - urlando a squarciagola - al pensiero o forse all'incubo della presenza di leoni nella sua stanza, o meglio nei pressi della sua stanza (precisamente dietro l'armadio), che si provavano a far cadere quell'ultimo ostacolo rimasto tra loro e il povero bambino per, presumibilmente, divorarlo. Poi, dice Solmi, con l'andare degli anni, quell'orribile visione scomparve, e non si presentò più malgrado le terrificanti e sconvolgenti vicende che coinvolsero in prima persona il poeta italiano, e che furono le due guerre mondiali (nella seconda Solmi fu imprigionato per un periodo al San Vittore di Milano e rischiò seriamente di essere giustiziato). Ma alla soglia della vecchiaia, ecco che qualcosa di loro sembra stia per ricomparire all'uomo ormai avvezzo a qualunque tipo di situazione estrema. Però ora, il poeta cerca di non lasciarsi andare alla paura cieca, ma, nel caso in cui li dovesse incontrare, si ripromette di rimanere calmo e di accoglierli senza timore. Chiaro, negli ultimi versi, l'auto proponimento di Solmi ad affrontare l'arrivo di una sempre più probabile morte senza crearsi troppi problemi e, soprattutto, senza averne alcun terrore.
Mi sembra giusto ricordare che, un altro poeta laziale: Giorgio Vigolo, nella raccolta Linea della vita (Mondadori, Milano 1948), aveva pubblicato una poesia dallo stesso titolo in cui i felini venivano a rappresentare una sorta di energia - più mentale che fisica - repressa all'interno del corpo del poeta. Memorabile è poi il ricorrente sogno dei leoni sulla spiaggia, del pescatore, protagonista del celeberrimo romanzo di Ernest Hemingway: Il vecchio e il mare, dove però i felini sono descritti in atteggiamenti rilassati e pacifici.  

domenica 20 gennaio 2019

Poeti dimenticati: Enrico Cavacchioli


Nacque a Pozzallo nel 1885 e morì a Milano nel 1954. Dalla Sicilia, si trasferì giovanissimo a Milano, dove ben presto s'inserì nella vita culturale meneghina, scrivendo anche versi e articoli di giornale. Conobbe quindi F. T. Marinetti, che lo fece esordire sulla sua prestigiosa rivista: Poesia. In questo periodo il Cavacchioli aderì al futurismo, dal quale però, dopo il 1914, si allontanò progressivamente; anche la poesia, da allora, non fu più il suo interesse principale, poiché divenne il teatro; Cavacchioli infatti, è maggiormente conosciuto per alcune commedie grottesche e amare uscite, per la maggior parte, tra il 1920 ed il 1930. La sua opera poetica si può ben definire innovativa e d'avanguardia: fu infatti un seguace delle nuove correnti letterarie che caratterizzarono la letteratura italiana primo-novecentesca. Come poeta futurista si distinse per il mantenimento delle regole principali della scrittura (a parte il verso libero), non seguendo mai Marinetti e soci nelle loro, altamente sperimentali, Parole in libertà.




Opere poetiche

"Pia de' Tolomei", Belforte & C., Livorno 1903.
"L'incubo velato", Edizioni di Poesia, Milano 1906.
"Le ranocchie turchine", Edizioni di Poesia, Milano 1908, 1909².
"Cavalcando il sole", Edizioni futuriste di Poesia, Milano 1914.




Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 2, pp. 20-28).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 1, pp. 44-47; vol. 3, pp. 59-60).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1969 (volume secondo, pp. 579-603).
"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 129-146).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (Tomo secondo, pp. 461-467).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Elio Pecora, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 56-60).
"I futuristi", a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 276-280).
"Marinetti e i futuristi", a cura di Luciano De Maria, Garzanti 1994 (pp. 439-456).
"Antologia della poesia italiana. 3: Ottocento-Novecento", a cura di Cesare Segre e Carlo Ossola, Einaudi, Torino 1999 (pp. 821-824).




Testi

LA PORTA DEL LUPANARE

Malinconiche nostalgie di serenate, che salgono
i viottoli della città come il profumo del caprifoglio:
a fiotti scampanella il richiamo fresco dei gelsomini
che zampillano da una inferriata spinosa,
e l'ululato di un cane vagabondo accompagna la chitarra.

Conosco le creature che vorrebbero morire
in una sosta del canto, quando si cercano gli accordi.
Dalle finestre aperte,
ascoltano palpitare la propria insonnia

come se avessero il cuore vivo nel palmo della mano,
e quando il canto lontano
oscilla come il nido sul ramo frustato dal vento,
si che la voce sembra cambiarsi in un singhiozzo,
s'abbatton con la bocca sul guancial troppo bianco!

Che cosa vorrebbero dire le labbra troppo rosse
in quel profumo di tisi che sale dai giardini assonnati,
tra il chiocco1io delle vasche esauste e moribonde?
La chitarrata naviga il cielo come un oceano.
e s'inghirlanda delle ultime stelle d'Agosto.
Che cosa vorrebbero udire da quelle bocche nascoste
che valican le nubi cantando nella luna
e si posano a tratti come tortore stanche,
le creature smarrite nel desiderio della morte?

Anche la chitarrata muore, lontana e nostalgica
come esalando un suo respiro pudico,
fra case bianche ed orti interminabili.
E mentre voi, creature che vorreste morire
nel singulto mordente degli accordi strappati,
vi abbandonate a un triste singhiozzar taciturno,
i suonatori sghignazzano, nascosti nella porta
del lupanare: che veglia nel vicolo notturno.

(da "Cavalcando il sole")

domenica 13 gennaio 2019

Tre poesie di Arnaldo Beccaria


Non sono certe le notizie anagrafiche di Arnaldo Beccaria, poeta e critico d'arte italiano del Novecento; presumibilmente nacque a Milano nel 1904, e ivi morì nel 1972. La sua opera poetica, oggi completamente dimenticata, ma anche in passato generalmente trascurata o ignorata, consta di due volumi: Adamo (1942) e Sull'orlo del cratere (Mondadori, Milano 1966); l'ultimo citato comprende anche le poesie della precedente. Una decina di poesie, che sarebbero entrate a far parte di Adamo, furono pubblicate sulla rivista Maestrale tra il 1940 ed il 1942. Amico di Leonardo Sinisgalli - che gli dedicò il volume antologico L'ellisse. Poesie 1932-1972 - e di Libero De Libero, i suoi versi hanno poco a che vedere con l'ermetismo, come qualcuno ha detto, ma, piuttosto, trovano somiglianze con quelli di altri poeti attivi nella terza e nella quarta decade del XX secolo, come Angelo Barile, Giovanni Titta Rosa, Elpidio Jenco, Adriano Grande, Giovanni Descalzo e Roberto Rebora. Se proviamo a leggere le poesie presenti nella prima raccolta di Beccaria, uscita in un anno in cui l'ermetismo la faceva da padrone, noteremo che i suoi versi risultano chiari, limpidi, facili alla comprensione; tutti quegli elementi che sono peculiari della poesia ermetica, e che la rendono ostica alla lettura, qui non sono presenti. E' pur vero - da come risulta anche dalle note critiche di Reanto Aymone che si possono leggere in una recente ristampa di Vidi le muse, opera poetica fondamentale di Leonardo Sinisgalli - che la poesia di Beccaria fu tenuta fortemente in considerazione da alcuni poeti ermetici come il suoi amici Sinisgalli e De Libero, ma rimangono comunque nette le distanze tra il fare poetico di questi due esponenti dell'ermetismo e quello del poeta milanese. Ciò che più sorprende, è il fatto che i versi di Beccaria non abbiano mai trovato un critico che li apprezzasse e li inserisse tra i migliori del suo tempo. Eppure non è un caso che alcune ottime riviste degli anni '40 del XX secolo, in cui la poesia si trovava in primo piano, scegliessero di pubblicare i suoi versi; e che un editore importante come Mondadori, nel 1966 stampasse l'intera opera poetica del nostro.
A riprova della validità di Beccaria poeta, riporto di seguito tre poesie; la prima fu pubblicata dalla rivista Maestrale nel gennaio del 1942 e, come la seconda fa parte della raccolta Adamo; la terza, invece, uscì nel secondo ed ultimo volume: Sull'orlo del cratere.



ANEDDOTO

Uscimmo a un praticello
tutto fiorito. Ed erano farfalle
ferme nel sonno.
Sulla soglia ci tenne di quel sonno
- laghetto inopinato -
il leggiadro mistero.

E pensavo, tornando, ancor pensavo
alle farfalle e ai loro sogni lievi.




O LUNA

O luna, bianca luna
alta nel cielo
t'affacci sulla terra.

Come di sopra un muro,
sulla terra t'affacci
dall'immenso.




DALLA FINESTRA

Nel giardino delle Suore
è caduta la neve. Le educande
hanno innalzato
fantocci goffi e buffi.
Vi hanno intrecciato intorno girotondi;
hanno riempito l'aria
di gridi come rondini.


domenica 6 gennaio 2019

La malattia nella poesia italiana decadente e simbolista


La malattia, nei poeti decadenti e simbolisti, è molto spesso collegata con la morte, in particolare quando al centro del discorso c'è un infermo particolarmente grave; in alcuni casi, come dimostrano le poesie L'incubo dei folletti di Mario Adobati, La febbre di Corrado Govoni e Delirium tremens di Antonio Rubino, il malato rimane vittima di allucinazioni che sfociano in visioni terrificanti. A volte, però, le allucinazioni non hanno nulla di spaventoso, e si dimostrano addirittura piacevoli. In diverse poesie viene messo in risalto il periodo della convalescenza; qui il poeta, ancora debole, esprime le proprie sensazioni e i desideri di guarigione, e chiede conforto ad una presenza femminile non ben delineata (madre, sorella o amante?). Vi sono poesie ironiche, che sbeffeggiano la malattia ed anche i malati, come Il cancro di Corrado Govoni e Il pagliaccio dell'ospedale di Paolo Buzzi. E a proposito di ospedali, non possono mancare i versi in cui si parla delle corsie dei sanatori, spesso ponendo in evidenza l'estrema malinconia che vi si respira, e l'immancabile presenza della morte sempre in agguato. Ma qualche volta non è la morte che si presenta ai piedi del letto del moribondo, bensì la Pietà, che aiuta il povero condannato a far si che la fine della sua esistenza possa essere dolce.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "L'incubo dei folletti" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "Inferma" in "Leggenda eterna" (1900).
Ettore Botteghi: "La preghiera" in "Poesie" (1902).
Paolo Buzzi: "Il pagliaccio dell'Ospedale" in "Versi liberi" (1913).
Enrico Cavacchioli: "L'ospedale" e "Lo spavento" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Francesco Cazzamini Mussi: "Convalescenza in settembre" in "Fogline d'assenzio" (1913).
Giovanni Cena: "Nell'ospedale" in "In umbra" (1899).
Gabriele D'Annunzio: "L'incurabile" in "Poema paradisiaco" (1893).
Adolfo De Bosis: "Ai convalescenti" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Giuliano Donati Pétteni: "Sera nello spedale" in "Intimità" (1926).
Giulio Gianelli: "Il dolce infermo" in «Grande Illustrazione», marzo 1914.
Corrado Govoni: "Quante ore trascorse senza luce" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Il lamento del tisico" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Corrado Govoni "La febbre" e "Il cancro" in "Gli aborti" (1907).
Federico De Maria: "Dame Vérole" in «Poesia», novembre 1908.
Ugo Ghiron: "La compagna" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Enzo Marcellusi: "Allucinazioni d'una convalescenza" in "I canti violetti" (1912).
Fausto Maria Martini: "Convalescenza" in "Le piccole morte" (1906).
Fausto Maria Martini: "Senza ragione" e "A una malattia" in "Poesie provinciali" (1910).
Pietro Mastri: "Nella corsìa la duplice" in "La Meridiana" (1920).
Ada Negri: "La Pietà" in "Dal profondo" (1910).
Yosto Randaccio: "Ombre di convalescenza" e "Un'ora dolce" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Guido Ruberti: "Anemica" in "Le Evocazioni" (1909).
Antonio Rubino: "Peste Regina" e "Delirium tremens" in «Poesia», ottobre 1908.
Giovanni Tecchio: "De profundis" in "Canti" (1931).




Testi

CONVALESCENZA IN SETTEMBRE
di Francesco Cazzamini Mussi

I.
Apri quella finestra: oggi mi sento
più debole: è un languore senza fine
che mi tiene e mi uccide... Oh se mi uccide!
Non dire nulla, no. Viver che importa?
Ho bevuto a una tazza che ora è vuota.
È presto? Tu, lo dici? Che sai tu?

Apri quella finestra. Entra col vento
un'aria molle: ed io rivivo, ancora.
È la vita che torna e che mi spira
sulla bocca riarsa, sulla fronte
aggrottata, sugli occhi dolorosi
le sue promesse tentatrici e calde...

Io non mi muovo: sta quieta. Guarda:
ha il mio corpo, nel letto, una sua strana
fissità di cadavere: s'io chiudo
gli occhi di già mi raffiguro morto.

Morto! È dolce sentire d'esser morto!
Ecco: vengon gli amici indifferenti
e addolorati: alcuni rammentando
l'alte virtù del buon compagno estinto....

Oh, ma non viene chi vorrei, nemmeno
l'ultimo giorno, quando il mondo è un vano
nome ormai privo d'ogni sua lusinga;
ecco, forse per me sorride l'ora
di pace e la mia bocca di già chiusa
per sempre è priva ancor della carezza
desiata e rimpianta e la mia fronte
non percepisce l'alito leggero
d'un bacio — intendi? — l'alito d'un bacio...
Oh lascia che il profumo della sera
venga per le finestre, lo lo respiro
voluttuosamente perché m'entri
nei polmoni, nel sangue e nel cervello,
e fors'anche nel cuor che lo ricorda...

II.
Ah quest'odor voluttuoso e tardo
di rose sensuali e questo acuto
e più snervante di magnolie in fiore
e la modestia raffinata delle
verbene ed il languore doloroso
delle azalee morenti ed il profumo
vivido e fresco della terra rorida
di rugiada e l'azzurro del mio cielo
ed il silenzio triste della villa!...

Io rivivo. Sei tu che ancor mi vuoi,
o vita, col furore della tua
verginità che nasce e che si dona,
per rifiorire e per mutar sua forma?
Io rivivo, e se il capo sui guanciali
abbandoni già stanco, se socchiuda
gli occhi nella vertigine dell'essere
malato, ecco rivedo una fulgente
strada e una vetta e il cuor canta una sua
diana squillante di vittorie, e sogna...

Ma quella bocca, quella bocca muta
e gli occhi ambigui tra le ciglia oscure
ma quella mano...?

III.
Oh passami la mano entro i capelli
tacitamente, e sia la tua carezza
lunga così che non mi faccia male...
Oggi son buono, e languo di dolcezza
e di rimpianto. Forse t'amo. Oh, illudimi,
amami tu, dammi una tua menzogna,
offrimi un desiderio, qualche cosa
che sia per me come il polline all'aria,
come il lento pulviscolo alla luce...

Passami la tua mano entro i capelli...

Non so: mi sento buono oggi, mi sento
timido, e gli occhi che non han più lacrime
vorrebbero trovar l'antica polla.
Vorrei piegare il capo nel tuo grembo
ed aspettar così l'ave e la sera.
Forse materna tu sorrideresti
perdonando al fanciullo che t'offese...

Anche direbbe il labbro tuo: — Vuoi questo?
Ch'io ti perdoni?... È facile... Bambino! —
Ma il perdono che forse mi daresti
chiamandomi bambino è quella gioia
senza sorriso che ricorda agli uomini
ciò che fu loro inutilmente...

                                Pensa
a questo strano avverbio: inutilmente!

(da "Fogline d'assenzio")


Giovanni Segantini, "Petalo di rosa"
(da questa pagina)