mercoledì 30 gennaio 2019

Largo


 O lasciate lasciate che io sia
una cosa di nessuno
per queste vecchie strade
in cui la sera affonda –

O lasciate lasciate ch'io mi perda
ombra nell'ombra –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce –

E non chiedetemi – non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l'arcana folla
dei miei fantasmi –
e non cercate – non cercate
quello ch'io cerco
se l'estremo pallore del cielo
m'illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge a entrare –

Non domandatemi se prego
e chi prego
e perché prego –

Io entro soltanto
per avere un po' di tregua
e una panca e il silenzio
in cui parlino le cose sorelle –
Poi ch'io sono una cosa –
una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del suo mondo –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce –

Milano, 18 ottobre 1930



Questa intensissima poesia è di Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938), e l'ho trascritta dalle pagine 34 e 35 del volume Parole, Garzanti, Milano 1998, in cui sono presenti tutti i versi della poetessa lombarda prematuramente scomparsa.
Qui, mi pare, si possano rintracciare dei segni evidenti di una disperazione interiore che porterà la Pozzi, otto anni dopo, verso il suicidio. Non è ben chiaro a chi, la poetessa, rivolga fin dai primi versi le sue suppliche, ma si presuppone che siano le persone più vicine a lei in quel momento. Si respira un'atmosfera di estraniamento misto a rassegnazione, che si palesa in una necessità di solitudine, di lontananza da tutto e da tutti; la Pozzi dice di aver voglia di perdersi e null'altro; non ha voglia di rispondere a domande troppo impegnative riguardanti i suoi progetti futuri o la sua identità. Poi, sempre rivolgendosi a una non ben precisata umanità, chiede di non indagare troppo sul fatto che stia provando una sensazione di vuoto totale, che gli sta facendo perdere ogni motivazione per continuare a vivere; la sua anima, ormai svuotata da ogni presenza reale, si è popolata di fantasmi, ovvero di entità fittizie. Allora, per ritrovare almeno un perché della vita, la poetessa, mentre sta camminando senza meta sul far della sera, prova ad entrare nella prima chiesa che incontra lungo una vecchia strada; ma il motivo della sua sosta all'interno della chiesa non è soltanto dovuta alla ricerca di una fede perduta, o al bisogno di preghiera, bensì al desiderio di un luogo appartato, calmo e silenzioso; tant'è vero che chiede di non essere seguita, di essere lasciata sola a meditare. E lì, trova conforto nel paragonarsi agli oggetti (le cose) presenti, poiché la distanza che prova  dal resto dell'umanità è tale da sentirsi più vicina alle cose inanimate che vede intorno a sé, e così s'immedesima negli oggetti, e come gli oggetti vecchi e dimenticati di un luogo pubblico, si sente di non appartenere a nessuno e di essere stata dimenticata da tutti. E mentre scende lentamente la sera e la luce cala sempre di più, vorrebbe scomparire nel buio guardando l'ultima luce scemare per sempre.   

martedì 29 gennaio 2019

I leoni


Urlavano i leoni nella notte,
gonfiavano nel buio, dardeggiavano
l'ugola in fiamme al fanciullo atterrito.
Di sotto al vecchio armadio, d'improvviso
si stendeva la zampa imperiosa,
si stirava, graffiava l'impiantito.

Venne un giorno, scomparvero i leoni.
Non c'erano
alla stazione di Sovilla, sotto
le nuvole ronzanti, s'anche uscivano
dal gioco scomparendo
nel grano verde e i compagni, se presso
volavano i rametti al doppio colpo
lassù, dell'arboreo cecchino. 
                                         Non c'erano
più tardi,
nella città divampante, nei laghi
di fosforo, a filo
della pistola, nella gabbia cieca
del prigioniero.

                      Oggi che l'ombre
della sera s'infoltano, qualcosa
nel buio si rimuove, silenziosi
dall'infanzia ritornano i leoni?
Ah, ch'io più non ne tremi, ch'io con fermo
cuore m'avvii, ridiscenda
sulla soglia, a incontrarli.





 Questa bellissima poesia di Sergio Solmi (Rieti 1899 - Milano 1981) si trova nel Volume I (Poesie, meditazioni e ricordi), tomo primo (Poesie e versioni poetiche) delle Opere dello scrittore laziale che la casa editrice Adelphi di Milano pubblicò nel 1983. La si può leggere alla pagina 71, all'interno della sezione Dal balcone. Venne pubblicata per la prima volta in Poesie complete: altro libro edito da Adelphi nel 1974, che è anche il primo in cui sono presenti tutte le poesie che Solmi aveva pubblicato entro quel preciso anno. In calce alla lirica è riportata la data del 1957.
Si parla di leoni, ovvero dei famigerati felini africani, che qui divengono simbolo di inaudita violenza, di ferocia e di terrore. Il poeta ricorda che, nella sua ormai lontana infanzia, rimaneva atterrito - urlando a squarciagola - al pensiero o forse all'incubo della presenza di leoni nella sua stanza, o meglio nei pressi della sua stanza (precisamente dietro l'armadio), che si provavano a far cadere quell'ultimo ostacolo rimasto tra loro e il povero bambino per, presumibilmente, divorarlo. Poi, dice Solmi, con l'andare degli anni, quell'orribile visione scomparve, e non si presentò più malgrado le terrificanti e sconvolgenti vicende che coinvolsero in prima persona il poeta italiano, e che furono le due guerre mondiali (nella seconda Solmi fu imprigionato per un periodo al San Vittore di Milano e rischiò seriamente di essere giustiziato). Ma alla soglia della vecchiaia, ecco che qualcosa di loro sembra stia per ricomparire all'uomo ormai avvezzo a qualunque tipo di situazione estrema. Però ora, il poeta cerca di non lasciarsi andare alla paura cieca, ma, nel caso in cui li dovesse incontrare, si ripromette di rimanere calmo e di accoglierli senza timore. Chiaro, negli ultimi versi, l'auto proponimento di Solmi ad affrontare l'arrivo di una sempre più probabile morte senza crearsi troppi problemi e, soprattutto, senza averne alcun terrore.
Mi sembra giusto ricordare che, un altro poeta laziale: Giorgio Vigolo, nella raccolta Linea della vita (Mondadori, Milano 1948), aveva pubblicato una poesia dallo stesso titolo in cui i felini venivano a rappresentare una sorta di energia - più mentale che fisica - repressa all'interno del corpo del poeta. Memorabile è poi il ricorrente sogno dei leoni sulla spiaggia, del pescatore, protagonista del celeberrimo romanzo di Ernest Hemingway: Il vecchio e il mare, dove però i felini sono descritti in atteggiamenti rilassati e pacifici.  

domenica 20 gennaio 2019

Poeti dimenticati: Enrico Cavacchioli


Nacque a Pozzallo nel 1885 e morì a Milano nel 1954. Dalla Sicilia, si trasferì giovanissimo a Milano, dove ben presto s'inserì nella vita culturale meneghina, scrivendo anche versi e articoli di giornale. Conobbe quindi F. T. Marinetti, che lo fece esordire sulla sua prestigiosa rivista: Poesia. In questo periodo il Cavacchioli aderì al futurismo, dal quale però, dopo il 1914, si allontanò progressivamente; anche la poesia, da allora, non fu più il suo interesse principale, poiché divenne il teatro; Cavacchioli infatti, è maggiormente conosciuto per alcune commedie grottesche e amare uscite, per la maggior parte, tra il 1920 ed il 1930. La sua opera poetica si può ben definire innovativa e d'avanguardia: fu infatti un seguace delle nuove correnti letterarie che caratterizzarono la letteratura italiana primo-novecentesca. Come poeta futurista si distinse per il mantenimento delle regole principali della scrittura (a parte il verso libero), non seguendo mai Marinetti e soci nelle loro, altamente sperimentali, Parole in libertà.




Opere poetiche

"Pia de' Tolomei", Belforte & C., Livorno 1903.
"L'incubo velato", Edizioni di Poesia, Milano 1906.
"Le ranocchie turchine", Edizioni di Poesia, Milano 1908, 1909².
"Cavalcando il sole", Edizioni futuriste di Poesia, Milano 1914.




Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 2, pp. 20-28).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 1, pp. 44-47; vol. 3, pp. 59-60).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1969 (volume secondo, pp. 579-603).
"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 129-146).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (Tomo secondo, pp. 461-467).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Elio Pecora, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 56-60).
"I futuristi", a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 276-280).
"Marinetti e i futuristi", a cura di Luciano De Maria, Garzanti 1994 (pp. 439-456).
"Antologia della poesia italiana. 3: Ottocento-Novecento", a cura di Cesare Segre e Carlo Ossola, Einaudi, Torino 1999 (pp. 821-824).




Testi

LA PORTA DEL LUPANARE

Malinconiche nostalgie di serenate, che salgono
i viottoli della città come il profumo del caprifoglio:
a fiotti scampanella il richiamo fresco dei gelsomini
che zampillano da una inferriata spinosa,
e l'ululato di un cane vagabondo accompagna la chitarra.

Conosco le creature che vorrebbero morire
in una sosta del canto, quando si cercano gli accordi.
Dalle finestre aperte,
ascoltano palpitare la propria insonnia

come se avessero il cuore vivo nel palmo della mano,
e quando il canto lontano
oscilla come il nido sul ramo frustato dal vento,
si che la voce sembra cambiarsi in un singhiozzo,
s'abbatton con la bocca sul guancial troppo bianco!

Che cosa vorrebbero dire le labbra troppo rosse
in quel profumo di tisi che sale dai giardini assonnati,
tra il chiocco1io delle vasche esauste e moribonde?
La chitarrata naviga il cielo come un oceano.
e s'inghirlanda delle ultime stelle d'Agosto.
Che cosa vorrebbero udire da quelle bocche nascoste
che valican le nubi cantando nella luna
e si posano a tratti come tortore stanche,
le creature smarrite nel desiderio della morte?

Anche la chitarrata muore, lontana e nostalgica
come esalando un suo respiro pudico,
fra case bianche ed orti interminabili.
E mentre voi, creature che vorreste morire
nel singulto mordente degli accordi strappati,
vi abbandonate a un triste singhiozzar taciturno,
i suonatori sghignazzano, nascosti nella porta
del lupanare: che veglia nel vicolo notturno.

(da "Cavalcando il sole")

domenica 13 gennaio 2019

Tre poesie di Arnaldo Beccaria


Non sono certe le notizie anagrafiche di Arnaldo Beccaria, poeta e critico d'arte italiano del Novecento; presumibilmente nacque a Milano nel 1904, e ivi morì nel 1972. La sua opera poetica, oggi completamente dimenticata, ma anche in passato generalmente trascurata o ignorata, consta di due volumi: Adamo (1942) e Sull'orlo del cratere (Mondadori, Milano 1966); l'ultimo citato comprende anche le poesie della precedente. Una decina di poesie, che sarebbero entrate a far parte di Adamo, furono pubblicate sulla rivista Maestrale tra il 1940 ed il 1942. Amico di Leonardo Sinisgalli - che gli dedicò il volume antologico L'ellisse. Poesie 1932-1972 - e di Libero De Libero, i suoi versi hanno poco a che vedere con l'ermetismo, come qualcuno ha detto, ma, piuttosto, trovano somiglianze con quelli di altri poeti attivi nella terza e nella quarta decade del XX secolo, come Angelo Barile, Giovanni Titta Rosa, Elpidio Jenco, Adriano Grande, Giovanni Descalzo e Roberto Rebora. Se proviamo a leggere le poesie presenti nella prima raccolta di Beccaria, uscita in un anno in cui l'ermetismo la faceva da padrone, noteremo che i suoi versi risultano chiari, limpidi, facili alla comprensione; tutti quegli elementi che sono peculiari della poesia ermetica, e che la rendono ostica alla lettura, qui non sono presenti. E' pur vero - da come risulta anche dalle note critiche di Reanto Aymone che si possono leggere in una recente ristampa di Vidi le muse, opera poetica fondamentale di Leonardo Sinisgalli - che la poesia di Beccaria fu tenuta fortemente in considerazione da alcuni poeti ermetici come il suoi amici Sinisgalli e De Libero, ma rimangono comunque nette le distanze tra il fare poetico di questi due esponenti dell'ermetismo e quello del poeta milanese. Ciò che più sorprende, è il fatto che i versi di Beccaria non abbiano mai trovato un critico che li apprezzasse e li inserisse tra i migliori del suo tempo. Eppure non è un caso che alcune ottime riviste degli anni '40 del XX secolo, in cui la poesia si trovava in primo piano, scegliessero di pubblicare i suoi versi; e che un editore importante come Mondadori, nel 1966 stampasse l'intera opera poetica del nostro.
A riprova della validità di Beccaria poeta, riporto di seguito tre poesie; la prima fu pubblicata dalla rivista Maestrale nel gennaio del 1942 e, come la seconda fa parte della raccolta Adamo; la terza, invece, uscì nel secondo ed ultimo volume: Sull'orlo del cratere.



ANEDDOTO

Uscimmo a un praticello
tutto fiorito. Ed erano farfalle
ferme nel sonno.
Sulla soglia ci tenne di quel sonno
- laghetto inopinato -
il leggiadro mistero.

E pensavo, tornando, ancor pensavo
alle farfalle e ai loro sogni lievi.




O LUNA

O luna, bianca luna
alta nel cielo
t'affacci sulla terra.

Come di sopra un muro,
sulla terra t'affacci
dall'immenso.




DALLA FINESTRA

Nel giardino delle Suore
è caduta la neve. Le educande
hanno innalzato
fantocci goffi e buffi.
Vi hanno intrecciato intorno girotondi;
hanno riempito l'aria
di gridi come rondini.


domenica 6 gennaio 2019

La malattia nella poesia italiana decadente e simbolista


La malattia, nei poeti decadenti e simbolisti, è molto spesso collegata con la morte, in particolare quando al centro del discorso c'è un infermo particolarmente grave; in alcuni casi, come dimostrano le poesie L'incubo dei folletti di Mario Adobati, La febbre di Corrado Govoni e Delirium tremens di Antonio Rubino, il malato rimane vittima di allucinazioni che sfociano in visioni terrificanti. A volte, però, le allucinazioni non hanno nulla di spaventoso, e si dimostrano addirittura piacevoli. In diverse poesie viene messo in risalto il periodo della convalescenza; qui il poeta, ancora debole, esprime le proprie sensazioni e i desideri di guarigione, e chiede conforto ad una presenza femminile non ben delineata (madre, sorella o amante?). Vi sono poesie ironiche, che sbeffeggiano la malattia ed anche i malati, come Il cancro di Corrado Govoni e Il pagliaccio dell'ospedale di Paolo Buzzi. E a proposito di ospedali, non possono mancare i versi in cui si parla delle corsie dei sanatori, spesso ponendo in evidenza l'estrema malinconia che vi si respira, e l'immancabile presenza della morte sempre in agguato. Ma qualche volta non è la morte che si presenta ai piedi del letto del moribondo, bensì la Pietà, che aiuta il povero condannato a far si che la fine della sua esistenza possa essere dolce.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "L'incubo dei folletti" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "Inferma" in "Leggenda eterna" (1900).
Ettore Botteghi: "La preghiera" in "Poesie" (1902).
Paolo Buzzi: "Il pagliaccio dell'Ospedale" in "Versi liberi" (1913).
Enrico Cavacchioli: "L'ospedale" e "Lo spavento" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Francesco Cazzamini Mussi: "Convalescenza in settembre" in "Fogline d'assenzio" (1913).
Giovanni Cena: "Nell'ospedale" in "In umbra" (1899).
Gabriele D'Annunzio: "L'incurabile" in "Poema paradisiaco" (1893).
Adolfo De Bosis: "Ai convalescenti" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Giuliano Donati Pétteni: "Sera nello spedale" in "Intimità" (1926).
Giulio Gianelli: "Il dolce infermo" in «Grande Illustrazione», marzo 1914.
Corrado Govoni: "Quante ore trascorse senza luce" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Il lamento del tisico" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Corrado Govoni "La febbre" e "Il cancro" in "Gli aborti" (1907).
Federico De Maria: "Dame Vérole" in «Poesia», novembre 1908.
Ugo Ghiron: "La compagna" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Enzo Marcellusi: "Allucinazioni d'una convalescenza" in "I canti violetti" (1912).
Fausto Maria Martini: "Convalescenza" in "Le piccole morte" (1906).
Fausto Maria Martini: "Senza ragione" e "A una malattia" in "Poesie provinciali" (1910).
Pietro Mastri: "Nella corsìa la duplice" in "La Meridiana" (1920).
Ada Negri: "La Pietà" in "Dal profondo" (1910).
Yosto Randaccio: "Ombre di convalescenza" e "Un'ora dolce" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Guido Ruberti: "Anemica" in "Le Evocazioni" (1909).
Antonio Rubino: "Peste Regina" e "Delirium tremens" in «Poesia», ottobre 1908.
Giovanni Tecchio: "De profundis" in "Canti" (1931).




Testi

CONVALESCENZA IN SETTEMBRE
di Francesco Cazzamini Mussi

I.
Apri quella finestra: oggi mi sento
più debole: è un languore senza fine
che mi tiene e mi uccide... Oh se mi uccide!
Non dire nulla, no. Viver che importa?
Ho bevuto a una tazza che ora è vuota.
È presto? Tu, lo dici? Che sai tu?

Apri quella finestra. Entra col vento
un'aria molle: ed io rivivo, ancora.
È la vita che torna e che mi spira
sulla bocca riarsa, sulla fronte
aggrottata, sugli occhi dolorosi
le sue promesse tentatrici e calde...

Io non mi muovo: sta quieta. Guarda:
ha il mio corpo, nel letto, una sua strana
fissità di cadavere: s'io chiudo
gli occhi di già mi raffiguro morto.

Morto! È dolce sentire d'esser morto!
Ecco: vengon gli amici indifferenti
e addolorati: alcuni rammentando
l'alte virtù del buon compagno estinto....

Oh, ma non viene chi vorrei, nemmeno
l'ultimo giorno, quando il mondo è un vano
nome ormai privo d'ogni sua lusinga;
ecco, forse per me sorride l'ora
di pace e la mia bocca di già chiusa
per sempre è priva ancor della carezza
desiata e rimpianta e la mia fronte
non percepisce l'alito leggero
d'un bacio — intendi? — l'alito d'un bacio...
Oh lascia che il profumo della sera
venga per le finestre, lo lo respiro
voluttuosamente perché m'entri
nei polmoni, nel sangue e nel cervello,
e fors'anche nel cuor che lo ricorda...

II.
Ah quest'odor voluttuoso e tardo
di rose sensuali e questo acuto
e più snervante di magnolie in fiore
e la modestia raffinata delle
verbene ed il languore doloroso
delle azalee morenti ed il profumo
vivido e fresco della terra rorida
di rugiada e l'azzurro del mio cielo
ed il silenzio triste della villa!...

Io rivivo. Sei tu che ancor mi vuoi,
o vita, col furore della tua
verginità che nasce e che si dona,
per rifiorire e per mutar sua forma?
Io rivivo, e se il capo sui guanciali
abbandoni già stanco, se socchiuda
gli occhi nella vertigine dell'essere
malato, ecco rivedo una fulgente
strada e una vetta e il cuor canta una sua
diana squillante di vittorie, e sogna...

Ma quella bocca, quella bocca muta
e gli occhi ambigui tra le ciglia oscure
ma quella mano...?

III.
Oh passami la mano entro i capelli
tacitamente, e sia la tua carezza
lunga così che non mi faccia male...
Oggi son buono, e languo di dolcezza
e di rimpianto. Forse t'amo. Oh, illudimi,
amami tu, dammi una tua menzogna,
offrimi un desiderio, qualche cosa
che sia per me come il polline all'aria,
come il lento pulviscolo alla luce...

Passami la tua mano entro i capelli...

Non so: mi sento buono oggi, mi sento
timido, e gli occhi che non han più lacrime
vorrebbero trovar l'antica polla.
Vorrei piegare il capo nel tuo grembo
ed aspettar così l'ave e la sera.
Forse materna tu sorrideresti
perdonando al fanciullo che t'offese...

Anche direbbe il labbro tuo: — Vuoi questo?
Ch'io ti perdoni?... È facile... Bambino! —
Ma il perdono che forse mi daresti
chiamandomi bambino è quella gioia
senza sorriso che ricorda agli uomini
ciò che fu loro inutilmente...

                                Pensa
a questo strano avverbio: inutilmente!

(da "Fogline d'assenzio")


Giovanni Segantini, "Petalo di rosa"
(da questa pagina)


domenica 30 dicembre 2018

La fine dell'anno in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Nelle ultime ore dell'anno, spesso, è facile fare bilanci e ricapitolazioni; è, insomma, il tempo delle riflessioni ma anche dei preparativi; e alla fine si festeggia, attendendo gli ultimi secondi dell'anno vecchio e i primi di quello nuovo. Ma in queste dieci poesie dedicate alla fine dell'anno, non si respira alcuna aria di festa e di allegria. In alcuni versi, al contrario, si avverte una tangibile tristezza e, più raramente, una evidente disperazione; è il caso, per esempio, della poesia di Margherita Guidacci, che dopo aver descritto i modi con cui gli esseri umani si accingono a festeggiare l'arrivo del nuovo anno, confessa la sua voglia di dormire - sebbene sia difficile in una notte decisamente rumorosa per tradizione e antonomasia - e di nascondersi, di dimenticare e di essere dimenticata, proprio nel momento in cui per molti diviene essenziale esserci e divertirsi. Tito Marrone, parlando del tramonto dell'ultimo giorno dell'anno, mette in risalto l'atmosfera lugubre, quasi funeraria che si avverte, con il rumore sinistro di un vento che sembra annunciare la fine di tutto. Eugenio Montale invece, pur di evitare i festeggiamenti, immagina di trovarsi, nel momento cruciale che determina il passaggio da un anno ad un altro, sulla luna, e di osservare distaccatamente quello strano modo di esultare da parte di una esagitata umanità, giudicata con sarcasmo da un luogo lontanissimo e quieto. E la quiete è protagonista dei versi di Remo Fasani, che nelle ultime ore dell'anno si limita ad osservare il paesaggio montano da cui è circondato, e ad immedesimarsi in quello, assentandosi da tutto il clamore che impera e che dovrebbe invece coinvolgerlo. C'è poi Alessandro Parronchi, che proprio in un momento così importante, avverte maggiormente l'assenza di una persona amata. La sensazione di solitudine, infine, è preponderante nei versi di Sergio Ortolani, sensazione che è acuita dalla visione di famiglie e genti riunite davanti al focolare nel momento della festa.  




MUORE L'ANNO
di Giusto Calvi (1865-1908)

De le scarne nocche batte San Silvestro
sovra i bronzi cristiani l'ultime ore,
            ne la bruma, e par lamento,
            passa il suono e l'anno muore.

Ne la fiamma de' tuoi baci, sperdi, o Lilia,
sperdi questo triste suon di funerale,
            e la morte a noi dell'anno
            rida come uno sponsale.

A la vita ed a la morte! scorran, Lilia,
or degli avi le vendemmie ne' bicchieri:
            lieve a i morti sia la terra
            lievi a i vivi i lor pensieri!

(da "Versi", Streglio, Torino-Genova 1909)




FINE D'ANNO
di Remo Fasani (1922-2011)

La neve spegne il suono d'acque vive
e col gelo è più muto anche il silenzio
del vecchio bosco abbarbicato ai monti.
Se lungo questa valle oggi cammino
è solo quiete, non tristezza o gioia,
che mi chiama all'aperto e in sé m'accoglie.
E mentre vado sono io stesso i pini,
la neve nuova, il monte primitivo.
E non cerco ma scordo le parole.
È questa un'ora ferma, senza tempo,
che vita e morte hanno lo stesso nome.

(da "Le poesie 1941-2011", Marsilio, Venezia 2013)




NELLA NOTTE DELL'ANNO
di Ugo Fasolo (1905-1980)

Avanza silenziosa, ampia nel giro
notturno, la stellare Cassiopea:
riluce nello spazio delle orbite
prossime al segno; è la notte dell'anno.

Buon anno sia. Cassiopea varca il limite
prefissato per la ripresa del giro:
oscuramente la notte propone
nuovo cinto di giorni, ansie e amore.

Alto lo spazio divolge immutabile
il suo silenzio. Un augurio di bene
nasce rivolto a un volto in ombra: è ignota
l'offerta nella notte silenziosa.

(da "Le varianti e l'invariante", Rusconi, Milano 1976)




FINE D'ANNO
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Quelli che danzano, quelli che brindano,
quelli che sparano mortaretti,
quelli che cantano, quelli che si drogano,
quelli che si azzuffano, quelli che si amano,
quelli che ridono, quelli che piangono,
quelli che tacciono, quelli che pregano,
quelli che cercano di nascondersi
come me, gettandosi
nel pozzo profondo del sonno -
tutti abbiamo sentito ugualmente
e nello stesso istante
il vento d'un rapido passo
e il guizzo della falce.

(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999)




SAN SILVESTRO
di Tito Marrone (1882-1967)

Ancora i pallidi raggi del sole
ai monti roseo riflesso danno.
Vecchio che un ultimo sorriso vuole,
tramonta l'anno.

Urla la raffica, lunge: la sento
gelida insistere dietro le porte.
In questo lugubre vespero, il vento
pare la morte.

(da "Liriche", Artero, Roma 1904)




FINE DEL '68
di Eugenio Montale (1896-1981)

Ho contemplato dalla luna, o quasi,
il modesto pianeta che contiene
filosofia, teologia, politica,
pornografia, letteratura, scienze
palesi o arcane. Dentro c'è anche l'uomo,
ed io tra questi. E tutto è molto strano.

Tra poche ore sarà notte e l'anno
finirà tra esplosioni di spumanti
e di petardi. Forse di bombe o pegggio,
ma non qui dove sto. Se uno muore
non importa a nessuno purché sia
sconosciuto e lontano.

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1996)




FIN D'ANNO
di Sergio Ortolani (1896-1949)

La pendola scandì l'ultimo tocco:
io m'affacciai su la campagna scura.
Dentro, la famigliola intorno al ciocco;
fuori, nuvole e foglie alla ventura.

In quella un lampo: e venir monti e piani
e strade e borghi incontro a questa siepe:
tutta la bella casa degli umani
che si raccoglie al placido presepe.

Allor della mia vita aspra errabonda
mi punge un pianto, e vedo il buon cammino.
E mia sorella sposa ho per madonna,
che al cor si culla il suo Gesù bambino.

(da "Poesie", Mondadori, Milano 1957)




ORA UN ANNO TRAMONTA...
di Alessandro Parronchi (1914-2007)

Ora un anno tramonta, sorge un anno
e della stessa luce ove tra i colli
fosti viva non più che un fiotto d'ombra
viene a me che ti vidi. Ah mi sorgeva
una speranza! Mandano le siepi
profumi intorno, volge un'ora mille
sogni, ma come povera la pietra
riflette ora il giardino ebbro di rose!

(da "Le poesie", Polistampa, Firenze 2000)




NOTTE DI S. SILVESTRO
di Sebastiano Satta (1867-1914)

Un tempo — oh povertà
Che ti pasci di grami desideri! —
Quando tu, Madre, ci crescevi sola
E triste, come l’aquila selvaggia
Che nutre i figli sulla rupe, ed eri
E grande e veneranda a tutti i cuori;

Poiché era scarso il fuoco
Del focolare, e poco,
O nulla, il vino della cena — in nero
Cerchio sedendo, sempre nel silenzio
Noi volgevamo un unico pensiero
Di affanno —, io che nel core
Già mi sentivo ad ogni
Palpito un vol di sogni,
Qual d’api sovra un fiore;

Io già sognavo, o Madre, questa casa
Che a noi sola commise
L’invitta tua virtù,
La casa che tu regni, o Madre buona;
E noi già grandi, e tu
Serena, e noi tuo scudo e tua corona
Di vittoria. Ah non rise
L’antico sogno invano!

Vedi: nel focolare
Arde l’elce ed il selvaggio
Olivo; il vino brilla
Nei nitidi bicchieri; l’alta loggia
S’apre ai miei sogni su l’azzurro incanto
Delle vette e dei piani.
E anch’essa, odi? la pioggia
Non ci piange più il pianto
Di quegli anni lontani.

(da "Canti", Ilisso, Nuoro 1996)




SAN SILVESTRO
di Giuseppe Zoppi (1896-1952)

Come quest'ora,
estrema, declinante
al termine prefisso,
così la vita: un attimo,
estinto già.

Non attendere ad altro, sciogli il canto
che da mille anni a padri
ed avi gonfia il cuore.

(da "Le Alpi", Vallecchi, Firenze 1958)


James Abbot McNeill Whistler, "Night in Black and Gold, The falling Rocket"
(da questa pagina)