domenica 4 novembre 2018

La lussuria nella poesia italiana decadente e simbolista


La lussuria, ovvero l'abbandono al piacere sessuale, è un elemento che contraddistinse l'attività poetica di molti scrittori decadenti e simbolisti. Paul Verlaine e Gabriele D'Annunzio, da questo punto di vista, sono stati dei maestri. Tra i poeti delle generazioni successive, si nota, in più di un caso, il tentativo di raffigurare la lussuria; eccola allora in forma di vecchia, nelle poesie di Botta, Lucini e Palazzeschi. Cavacchioli invece la chiama "disperazione" e la dipinge come un mostro notturno che, a poco a poco, distrugge il malcapitato rimasto in sua balìa. Anche De Maria descrive la lussuria (sorta di creatura che ingloba in sé tutte le femmine bellissime e vogliose) in forma di fiero mostro / di voluttà, da l'uncinato rostro, / da l'avide ventose a mille a mille. Corazzini la vede in veste d'imperatrice che, mai sazia, va alla continua ricerca del piacere, non riuscendo mai ad amare nessuno. Canudo invoca la carne di femina e gli eroici amplessi in un rito iniziatico che diviene quasi una guerra, prevedendo la morte per chi, da questi estremi rapporti carnali esca sconfitto. D'Ambra parla di un buon consenso d'amore a lui concesso da una donna che si scote ne la gloria de 'l piacere, sprofondando nel gran Male ignoto. Marcellusi cerca d'invogliare una donna a recarsi nella sua dimora per una notte (Ti aspetto. Già, tendo le mani. / Non ci pensi? Una notte insieme... / è tutto! Oh, la vita che preme, / dopo un po' d'amore...) Nella medesima situazione, Civinini dichiara che, dopo una "vana lotta" con le proprie inibizioni, la donna desiderata verrà in casa sua e cederà all'istinto primordiale. Anche Comi parla di una donna in cui l'istinto prevale sugli altri sentimenti (No: così vuole l'istinto / implacabile che ti tiene / in viluppi e ti rode le vene: / vincer non puoi, non hai mai vinto). Guido Da Verona afferma che, di fronte alle pulsioni e alle grida di una donna nell'atto d'amore, i sogni degli uomini non sono altro che "vane parole". Corradi vede la donna voluttuosa, durante l'atto sessuale subire delle trasformazioni imprevedibili (E le braccia protese in cupidigia / al forte amplesso nella luce vaga / somigliaron due steli alti di gigli; // e i capezzoli brevi due vermigli / fiori sbocciati in una nebbia grigia / dentro i vapori d'una azzurra plaga.) Oxilia si sofferma nella descrizione del corpo di una bella donna, di cui ama la magrezza adolescente / e la sua forte nudità pagana / così viva di fremito e languore. Lipparini dedica un sonetto ad un'impura che, quasi giunta ormai alla vecchiaia, si ritrova in completa solitudine, poiché il fascino peccaminoso della sua carne è definitivamente scomparso. C'è poi Govoni che riservò all'argomento un'intera sezione del suo primo libro di versi, lasciandosi andare in descrizioni così ardite che il volume fu censurato; e proprio Govoni e Gualdo, rievocano un personaggio storico famoso per le sue avventure erotiche e lussuriose: Lucrezia Borgia. Infine, unica eccezione al trionfare dei sensi, la poesia di Moscardelli parla del suo rifiuto alla lussuria di una notte, non motivandola, se non con pochi versi che descrivono dei sentimenti nostalgici e malinconici: Canto stanco. / Fiori anemici sui petti. / Malattia. / Aromi di caffè - Menta. / Nostalgia vana di amori casti, / Desiderii di sole. / Oppressione. / Paura.



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Vincigliata" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Gustavo Botta: "La Visita" e "A la Lussuria" in "Alcuni scritti" (1952).
Ricciotto Canudo: "L'Iniziazione" in «Poesia», ottobre 1906.
Enrico Cavacchioli: "La Disperazione" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Guelfo Civinini: "La vana lotta" in "L'Urna" (1900).
Girolamo Comi: "Acredini" in "Lampadario" (1912).
Sergio Corazzini: "L'imperatrice" in «Marforio», settembre 1904.
Edmondo Corradi: "T'ebbi così: l'aureola ti cinse" in "Nova postuma" (1904).
Lucio D'Ambra: "Ignara Mali" in "Le Sottili Pene" (1896).
Gabriele D'Annunzio: "Le Belle" in "L'Isotteo. La Chimera" (1889).
Gabriele D'Annunzio: "Athenais medica, II" in "L'Isotteo. La Chimera" (1889).
Gabriele D'Annunzio: "Donna Francesca" in "L'Isotteo. La Chimera" (1889).
Gabriele D'Annunzio: "Donna Clara" in "L'Isotteo. La Chimera" (1889).
Guido da Verona: "Le trecce nere" in "Il libro del mio sogno errante" (1919).
Federico De Maria: "La Piovra" in "Voci" (1903).
Federico De Maria: "Il piacere" in "La Ritornata" (1933).
Corrado Govoni: tutte le poesie della sezione "Vas luxurie" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni: "Amore" in "Poesie elettriche" (1911).
Guido Gozzano: "L'esilio" in "Poesia", luglio/agosto/settembre 1906.
Luigi Gualdo: "Rassomiglianza" in "Le Nostalgie" (1883).
Giuseppe Lipparini: "L'impura" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Gian Pietro Lucini: "La solita canzone" in "Poesia", aprile 1905.
Enzo Marcellusi: "Odi et amo" in "I canti violetti" (1912).
Nicola Moscardelli: "Quella sera" in "Abbeveratoio" (1915).
Nino Oxilia: "Bruna, selvaggia..." e "Come ài bianca la pelle..." in "Canti brevi" (1909).
Aldo Palazzeschi: "Comare Coletta" in "Lanterna" (1907).
Salvatore Quasimodo: "La lussuria" in "Bacia la soglia della tua casa" (1981).
Giuseppe Rino: "Ora cercan le mani la corona" in "I sonetti flammei" (1905).
Cristoforo Ruggieri: "Il trittico delle mondane" in "Ritmi" (1900).



Testi

A LA LUSSURIA
di Gustavo Botta

Calano l'ombre. E tu, vecchia, sghignazzi
bieca, male ravvolta in cenci bruni,
attraendo la gente con taluni
inviti capziosi e ambigui lazzi.

Da le tue grinze par quasi che razzi
il sortilegio, e pochi son gli immuni.
Ahi!, quanta moltitudine raduni,
visi innocenti, rei, belli, cagnazzi.

Anch'io trascino amaramente questa
ingorda anima mia là, dove infuria
la foia e l'odio, a la notturna festa,

poi che tu spandi, o magica Lussuria,
l'oblio del Tutto, e più non mi funesta
s'io t'avvinghio, l'Amor, cui faccio ingiuria.

(da "Alcuni scritti")




RASSOMIGLIANZA
di Luigi Gualdo

Vidi l'umido labbro e pur procace
Lo sguardo per lussuria semispento,
E il ciglio pien di volontà tenace
E la fermezza del marmoreo mento;

Mirai la linea del profilo altera,
La maestà della sua guancia smorta,
E dissi: È larva od è figura vera?
È viva o dal passato alfin risorta?

Chi è mai? Chi fu? - Ma nuova visïone
S'alzò dinnanzi alla mia mente scossa:
Era una sala aurata, e più persone
In una luce profumata e rossa,

E Lei rividi bella e tenebrosa
Versar l'ebbrezza in cesellata coppa
E accendere il desir che più non posa
Ma vola ognor della Chimera in groppa!

Era l'antica cena di Ferrara,
L'amor letale ed il velen dell'orgia...
E riconobbi, uscita dalla bara
Alla moderna età, Lucrezia Borgia.

(da "Le nostalgie")



John William Waterhouse, "Cleopatra"
(da questa pagina)

domenica 28 ottobre 2018

"Fuoco bianco" di Adriano Grande




Nel 1950 vide la luce un bellissimo volumetto poetico di Adriano Grande (Genova 1897 - Roma 1972). S'intitola Fuoco bianco (sottotitolo: 1941-1949) e fu pubblicato dalle Edizioni della Meridiana di Milano. Il suo interno racchiude trenta poesie divise in tre sezioni: Ricordi - Farfalle - Fuoco bianco. La prima sezione, come ben spiega il titolo, mostra un riaffiorare dei migliori ricordi del poeta ligure, appartenenti soprattutto all'infanzia: periodo felice per eccellenza, nella vita di Grande, che lo ricorda con intensità e con dovizia di particolari. Questi cari ricordi sono descritti in modo preciso, e attraversano un po' tutte le stagioni dell'anno; i luoghi sono, tutti o quasi, quelli della terra natale, tratteggiata con evidente ammirazione e stupore. Nella poesia intitolata Incontro, il ricordo è riferito ad una ragazza non ben precisata, compagna di un indimenticabile viaggio in treno, con la quale Grande ebbe modo di creare un rapporto d'intimità quasi magico; eccone alcuni versi:

Non ci conoscevamo, ma fratelli,
partecipi noi soli di lontani
magici eventi eravamo, guardandoci
con l'ombra d'un sorriso d'infantile
segreta intesa. E quando vidi sciogliersi
la catenella d'oro dal tuo collo
e venni ad allacciarla senza dire
parola, non ti parve strano il gesto
né l'uomo: e non pensasti a ringraziarmi.

La seconda sezione vede, al centro dell'attenzione del poeta, la natura nelle sue manifestazioni più semplici e più sbalorditive; Grande si sofferma nella descrizione attenta e meravigliata di paesaggi, ponendo particolare attenzione alle piccole cose (l'erba, le nuvole, i fiori) e agli animali, tra i quali spiccano, come si evince dal titolo della sezione stessa, le farfalle: simbolo di bellezza, di eleganza e di leggerezza. Restano impressi alcuni versi in cui il poeta mostra la personale amarezza e il suo immenso dispiacere, per una guerra che aveva causato infiniti drammi e distruzioni; proprio lui, che alcuni anni prima aveva celebrato in altri versi la grandezza del duce, ora si pentiva e si rammaricava di ciò che il fascismo aveva causato; ecco a conferma questi versi tratti dalla poesia Povertà:

Pensieri lievi, gioie
inaspettate e brevi: me ne appago
adesso che m'è dato
capire com'è inutile ogni guerra.
Vedo che la miseria
assale la mia terra, la mia casa
invade, per le strade
ci assedia [...]

Infine, la terza sezione che è inizialmente dedicata a scene e momenti di guerra, con visioni di fuochi, di velivoli militari e con rumori di esplosioni che sconvolgono la flora e la fauna circostante; il tutto è descritto quasi in contrapposizione alle eterne eppur sorprendenti manifestazioni della natura, siano esse primaverili o estive, che sembrano volersi porre al di fuori di qualsiasi crudeltà e ignominia, come unica testimonianza della presenza di Dio, anche se intorno il mondo sembra impazzito e l'umanità abbia soltanto voglia di autodistruggersi. Nella meravigliosa poesia intitolata Palombelle, un frate, estasiato dalla fioritura primaverile, chiede a Dio perché nel mondo esista tanto dolore e, nello stesso tempo, tanta disarmante bellezza:

Perché tanta bellezza,
Signore, ci hai donato
che dura così poco? Perché altrove
il manto della terra è insanguinato?

Poi, nelle poesie che portano le date posteriori alla fine della guerra, ritornano i temi cari al poeta: paesaggi stupendi, eventi stagionali e malinconie dovute al tempo che passa. L'ultima lirica, semplicemente grandiosa, è una sorta di testamento poetico, rivolto ad uno sconosciuto lettore, in cui si dà risalto alla cosa più preziosa della vita di un poeta: le parole scritte; solo esse rimarranno, quando il corpo sarà divenuto polvere, a rappresentare l'anima di un uomo che dedicò la sua esistenza alla scrittura. Chiudo questo post riportandola di seguito.


SU UNA TOMBA

Fui vivo, o tu che leggi. Ecco che torno
ad esistere un po' nel tuo pensiero
per queste mie parole che s'insinuano
dentro di te, che forse ad alta voce
vai pronunciando. Di me s'è perduto
quel che non conta: il corpo perituro,
le mutevoli brame e molte vane
angoscie, molto inutile dolore.

Ho conosciuto anch'io l'aria dei giorni
festosi: al sole ho scaldato le membra
e tra le coltri, lungamente ho atteso
la fine degli inverni, delle guerre,
delle miserie umane. Adesso resta
di me questo rametto di parole
che oscilla un poco a fior della tua voce
come se la mia tomba respirasse.

Così tu apprendi ch'io mi regalai
al fuggitivo suono delle verdi
fronde d'aprile. Ascolta: a me la vita
non seppe dire verità più alta:
ed ora so che fa durare il mondo.
Fui vivo, amico. Se m'hai ben compreso
tu pure, un giorno, in un ramo leggero
simile a questo, stormire potrai.

domenica 21 ottobre 2018

Antologie: "Poesia religiosa italiana", a cura di Ferruccio Ulivi e Marta Savini




Tra le antologie poetiche settoriali, quelle ad argomento religioso, in Italia occupano un posto importante. Tra queste, una delle migliori è certamente Poesia religiosa italiana (sottotitolo: Dalle Origini al '900) a cura di Ferruccio Ulivi e Marta Savini, pubblicata dall'editore Piemme di Casale Monferrato nel 1994. Proprio sull'argomento testé accennato, mi sembra opportuno riportare un piccolo frammento della premessa che apre l'antologia citata, scritta dai curatori della stessa:

La poesia d'ispirazione religiosa nelle più diverse forme, lirica, poematica, drammaturgica, è una delle linee portanti della nostra tradizione letteraria, anche se il rilievo che assume nel tempo passa dalla quasi totalità, o dal quasi totale coinvolgimento d'interessi delle fasi più antiche al diradarsi e circostanziarsi dei tempi successivi. Il grande coro si diversifica, cioè, non si disperde.

In effetti l'argomento religioso lo si trova di frequente soprattutto nei versi dei primi secoli della lingua italiana, a cominciare dal bellissimo Cantico delle creature di Francesco d'Assisi, per proseguire coi molti componimenti a tema di Dante Alighieri (compresa la Divina Commedia) e di Francesco Petrarca, per giungere fino ai sonetti di Michelangelo Buonarroti e alle preghiere di Torquato Tasso. Più sfaccettata e meno fondamentale, la poesia religiosa italiana degli ultimi secoli ha comunque saputo esprimere, seppure in modo più sofferto ed anche in maniera maggiormente dubitativa (come si evince dai molti punti interrogativi che contraddistinguono i finali di tantissimi versi del secolo da poco conclusosi), opere di ottima fattura.
Sorprende la scelta di iniziare questa selezione di poeti italiani partendo dal III secolo, inserendo quindi alcuni autori che scrissero versi in latino. Ecco le sezioni che compongono la parte antologica del libro:

1. Tra latino e volgare: le origini; 2. Il Duecento; 3. Il Trecento; 4. Il Quattrocento. 5. Il Rinascimento. 6. Lirici dell'età barocca; 7. L'età dell'arcadia; 8. Dal Romanticismo al Decadentismo; 9. Dal primo al secondo Novecento; 10. Testimonianze contemporanee.

I poeti presenti sono 144; tra di essi, giustamente, compaiono nomi celebri come Francesco d'Assisi, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Angelo Poliziano, Ludovico Ariosto, Michelangelo Buonarroti, Torquato Tasso, Gian Battista Marino, Alessandro Manzoni, Antonio Fogazzaro, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo e Mario Luzi. Tra gli altri nomi, può risultare piuttosto curiosa la scelta d'inserire alcuni testi del religioso Alfonso Maria de' Liguori, compreso quello di Tu scendi dalle stelle: canzone natalizia popolarissima che qui porta il titolo originale di Canzoncina a Gesù bambino.

domenica 14 ottobre 2018

Una poesia di Willy Dias


Di Willy Dias (pseudonimo di Fortunata Morpurgo Petronio, nata e vissuta a Trieste tra il 1872 e il 1956) avevo già parlato nel post a lei dedicato. Lì, ho segnalato la sua predilezione per la scrittura prosastica e il suo coraggio (firmò un documento per la libertà di stampa ai tempi del fascismo); nello stesso tempo ho ricordato che scrisse varie poesie pubblicate su riviste uscite tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, e che mai è stato pubblicato un volume in versi della scrittrice triestina. Ebbene, tra le poche poesie che ho letto, ritrovate nelle pagine di qualche vecchio giornale o in una ormai dimenticata antologia, penso che la migliore sia Cose morte, uscita per la prima volta in Domenica Letteraria del 2 febbraio 1896. Ecco il testo:

COSE MORTE

Il cofanetto, ornato
di leggiadre figure
(estranee creature
che un artista ha sognato)

esala un tenue odore
di dolci cose morte
forse di rose smorte
che han perduto il colore

perduta la bellezza.
L'anima, tristemente
che ricorda, che sente
pensa la giovinezza

pensa il tempo lontano,
(o creature sparite
o larve che inseguite
abbiamo sempre invano

e sempre invano amato,
nulla resta di voi,
tranne il ricordo in noi,
tranne il dolor passato).

Lettere, che d'amore
ci feste impallidire
per le quali morire
pareva nulla al cuore,

e ch'empiste il cassetto
con la carta ingiallita,
un palpito di vita
non ci destate in petto.

Passò il tempo e gli affanni
e tra le cose morte
e tra le rose smorte
fuggirono gli anni.

E travolse l'oblio
le bocche che baciammo,
gli sguardi che scambiammo,
pallidi di desio.

La nebbia lentamente
cade gelida al piano,
svanisce nel lontano
l'amor, gelidamente.


La stessa poesia, con diverso titolo e con alcune varianti nel teso, fu ripubblicata su Poesia nell'agosto del 1908; anche di questa nuova versione riporto il testo:

IL COFANETTO

Il cofanetto ornato
di leggiadre figure
(esili miniature
d'un artista malato)

esala tenue odore
di dolci cose morte
(forse di rose smorte
che non hanno colore,

che non hanno bellezza).
L'anima, tristemente
per te ricorda, sente,
pensa la Giovinezza,

pensa il tempo lontano.
(O creature sparite,
o larve che inseguite
abbiamo sempre invano,

e sempre, invano, amato,
nulla resta di voi,
solo il ricordo in noi,
solo il dolor passato).

Lettere, che canzoni
foste d'ignoti cieli
per cui fummo crudeli
per cui fummo più buoni.

Ora nel cofanetto
siete carta ingiallita
che un palpito di vita
non sa destare in petto.

Passarono gli anni,
e con le cose morte,
e tra le rose smorte
l'ebbrezze e i disinganni.

E travolse l'oblio
le bocche che baciammo,
gli sguardi che scambiammo,
pallidi di desio...

La nebbia lentamente
scende gelida al piano,
svanisce nel lontano
l'amor, gelidamente...

La prima versione fu ripescata da Glauco Viazzi e da Vanni Scheiwiller, che la inserirono nel secondo volume dell'antologia Poeti simbolisti e liberty in Italia, uscito nel 1972 (Scheiwiller, Milano). Questa composizione della Dias anticipa i temi cari al crepuscolarismo, come il piacere di ricordare le cose e gli avvenimenti di un passato ormai remoto; l'occasione di questi malinconici ricordi, possono essere offerti da foto ingiallite riunite in un vecchio album, dal ritrovamento di oggetti frusti e obsoleti che erano nascosti in qualche sgabuzzino della casa o, come nel caso di Cose morte, da un cofanetto che racchiude delle lettere d'amore scritte in gioventù. È, insomma, la ricerca dei feticci, delle reliquie di un tempo beato che ha fatto perdere quasi ogni traccia di sé. Come non citare, in questo preciso ambito, anche le buone cose di pessimo gusto che Guido Gozzano elenca in alcuni versi de L'amica di Nonna Speranza. Il fatto che la rivista creata da Marinetti, dopo ben dodici anni dalla sua prima apparizione, accolse la poesia della Dias, sta a confermare l'attualità di quei versi, seppure inseriti in pagine dove molto spesso ne comparivano altri ben più innovativi, come quelli dei poeti futuristi. Giustamente Viazzi e Scheiwiller non si dimenticarono della scrittrice triestina, inserendola in un'antologia importante, che fu pure la prima ad occuparsi di poeti italiani simbolisti e liberty. 




domenica 7 ottobre 2018

Poeti dimenticati: Riccardo Bacchelli


Nacque a Bologna nel 1891 e morì a Monza nel 1985. Dopo aver frequentato per tre anni la facoltà di lettere dell'Università di Bologna, abbandonò gli studi per dedicarsi completamente alla scrittura. Giovanissimo cominciò a collaborare a varie riviste, tra cui «La Voce», «Il Resto del Carlino», «Primato» e «La Ronda»; di quest'ultima fu anche uno dei fondatori. Partecipò alla Grande Guerra come ufficiale d'artiglieria. Nel 1941 fu nominato accademico d'Italia, ma tre anni dopo rinunciò alla prestigiosa carica; fu socio di diverse accademie, tra cui la Crusca e i Lincei. Scrisse romanzi (tra cui, famosissimo è Il mulino del Po), novelle, saggi critici, poesie e opere teatrali.
Per Riccardo Bacchelli, meglio conosciuto in veste di prosatore, piuttosto che quella di "poeta dimenticato", sarebbe più opportuna la definizione di "poeta trascurato", poiché la sua prima e più importante opera in versi: Poemi lirici - che è stata ripubblicata in tempi recenti - andrebbe considerata alla stessa stregua di altre uscite durante il secondo decennio del XX secolo, che vengono ritenute fondamentali per le innovazioni, le tematiche, la versificazione e l'originalità. Insomma, questa raccolta, che si presenta come un misto di frammenti autobiografici, descrizioni paesaggistiche, meditazioni filosofeggianti e pagine di diario in versi, e che in parte s'ispira alla migliore poesia di Walt Whitman, appare perfettamente inserita in quel clima particolare che si venne a creare grazie ad alcuni scrittori talentuosi, quasi tutti riuniti all'interno delle pagine di una rivista, La Voce, capace di rappresentare la migliore letteratura italiana di quel preciso periodo. Il resto della produzione poetica di Bacchelli non è certo da buttare, anche se appare desueta rispetto ai tempi.



 Opere poetiche

"Poemi lirici", Zanichelli, Bologna 1914.
"Amore di poesia", Preda, Milano 1930.
"Parole d'amore", Officina Tipografica Gregoriana, Milano 1935.
"La notte dell'8 settembre 1943", Garzanti, Milano 1945.
"Memorie del tempo presente", Rizzoli, Milano 1953.
"Versi e Rime. Primo Libro. La Stella del Mattino", Mondadori, Milano 1971.
"Versi e Rime. Secondo Libro. Bellezza e Umanità", Mondadori, Milano 1972.
"Versi e Rime. Terzo Libro. Giorni di Vita e Tempo di Poesia", Mondadori, Milano 1973.





Presenze in antologie

"Poeti d'oggi: 1900-1920", a cura di Giovanni Papini e Pietro Pancrazi, Vallecchi, Firenze 1925; nuova edizione: Crocetti, Milano 1996 (pp. 43-46).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 226-228).
"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 546-547)
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 687-692).
"Letteratura dell'Italia unita 1861-1968", a cura di Gianfranco Contini, Sansoni, Firenze 1968 e 1994² (pp. 761-764).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio, Garzanti, Milano 1980 (volume primo, pp. 346-354).
"Il canto strozzato: Poesia italiana del Novecento", a cura di Giuseppe Langella e Enrico Elli, Interlinea, Novara 1997² (pp. 381-382).
"L'altro Novecento. Volume III. La poesia etico-civile in Italia", a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi Foggia 1997 (p. 64).
"Poesia del Novecento italiano. Dalle avanguardie storiche alla seconda guerra mondiale", a cura di Niva Lorenzini, Carocci, Roma 2002 (pp. 104-107).




Testi

Da "PAESAGGI"

1.
Improvvisa, la fantasia m'ha condotto per le strade
rettilinee del Bolognese, bordate di rami
freddolosi, toccati dall'ottobre , con prospettive
di persiane verdi allineate sulle facciate.
Il Reno si stacca dai monti con incantevoli
indugi  e prende spazio  in pianura, alberi
e frutteti si spogliano con incredibile bellezza,
riposano al sole le terre. È il tempo
adesso che le cantine odorano di fermentazione,
e il contadino esce senz'arnesi a guardare
forse se qualche fosso non scola. Le terre,
gli uomini, il paese fortunato nelle adiacenze
del fiume, godono questo sole breve.
Gli uccelli son di passo.

In fiore, gli oscillanti canapai ubbriacavano.
Dai fieni mézzi che dan la febbre, da ondate
di frumenti pesanti, chi passa lungo le siepi
ne vede uscire i campanili rossi e i pioppi
senz'ombra annegati nella canicola, che non si sa
a che vento mai trovino il modo di tremare
in queste calme di luglio.

(da "Memorie del tempo presente")




MALIE DI STAGIONE

Io credetti già un tempo, autunno, che
Una sapida angoscia ed il sentore
Cenerigno che infondi nel mio umore,
Simile chi di mal sottile attende
Di finire al cadere delle foglie,
Fosse presagio
D'inverno, che accoglie
Nell'arie rilucenti ed estenuate
Delle tue squisitissime giornate.

Or mi ravvedo; e non so poi il perché
La novità mi annuncia d'invecchiare:
Nelle luci argentine tanto rare
Dove settembre i suoi colori accende
Come la febbre su un volto distrutto,
Che adagio adagio
Riluce e manca, tutto
Sento consunto l'ardor dell'estate,
Con quelle che non tornano giornate.

Autunno, io guardo indietro, e non so che
M'invoglia e svoglia acre e dolce malia
Sensuosa e ricca di melanconia:
Oh, ben so che il color che adesso prende
La foglia, è il mal di morte, e che nel sangue,
In un contagio
Sottile, ferve e langue
Veleno di passioni consumate,
Rancor che sian passate le giornate.

Pallido autunno, quest'inutil voglia
In cui mi adagio,
Sol al passato intende
Con voluttuosa doglia, come se
Non più avesser dimani le giornate.

(dalla rivista «Poesia», marzo 1947)




IMMORTALE AMORE

Chiunque io pensi di trovar di là,
M'è argomento e ragione di timore,
E di rimorso e di pudore: solo
Con te, mia amata, come nella vita
Così di là da morte io confessato
E fidente mi sento ed affidato,
Con te mia amata in vita e oltre la vita.
E tu accoglierai tremando queste
   Parole mie di felicità,
   La mia, la tua, e non potrà finire
   Poi ch'essa è nata d'immortalità.

(da "Versi e Rime. Secondo Libro. Bellezza e Umanità")