domenica 12 agosto 2018

I luoghi misteriosi nella poesia italiana decadente e simbolista


Sotto la dicitura: "luoghi misteriosi", ho voluto qui raggruppare delle poesie che parlassero di posti più o meno reali, dove si sono svolti o si svolgono degli eventi incomprensibili e strani. Le ambientazioni variano abbastanza, ma non di rado si ripetono: ci sono mura, palazzi, serre, giardini, valli, paludi, pianure, deserti... A volte, questi luoghi sono inaccessibili, o pericolosi, altre volte fanno da confine invalicabile, nascondendo un mondo inaccessibile e inconoscibile. I personaggi che vi compaiono hanno tutti, come caratteristica principale, una profonda e insondabile enigmaticità; spesso si tratta di figure femminili, come la "Figlia del Passato" della poesia di Baccelli. In più di un caso è il poeta, in compagnia di una donna, a visitare degli edifici non completamente definiti. Spesso, in questi territori tutt'altro che accoglienti, non compare alcuna traccia d'umanità, ma, semmai, esemplari piuttosto inquietanti di fauna e di flora.
Non sono assenti, ovviamente, simbolismi più o meno nascosti. Per esempio, in diverse poesie si assiste ad un'ascesa - per mezzo di scale o arrampicandosi su una montagna -, dove i protagonisti  si avvicinano ad una mèta ignota, o non completamente chiara (la morte?). Palese è invece, in una poesia di Arturo Graf, l'immagine dell'imbarcazione abbandonata, appoggiata su uno scoglio, che rappresenta la vana speranza. Ricorrente è la parola "morte", sia essa ad indicare il nome di un luogo preciso (La valle della morte di Antonio Rubino), sia, come nel caso delle poesie di Corazzini e di Sotto il salice di Arturo Graf, quale terrificante emblema di una situazione, di un fatto o di una collettività. 




Poesie sull'argomento

Alfredo Baccelli: "La valle perduta" in "Poesie" (1929).
Adelchi Baratono: "Muro di cinta" e "La serra" in "Sparvieri" (1900).
Gustavo Botta: "Palude" in "Alcuni scritti" (1952).
Enrico Cavacchioli: "La muraglia" in "L'Incubo Velato" (1906).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Notte d'autunno" in "I canti di Pan" (1920).
Girolamo Comi: "Ne le pianure solitarie" in "Lampadario" (1912).
Sergio Corazzini: "Toblack" in "L'amaro calice" (1905).
Sergio Corazzini: "La tipografia abbandonata" in "Marforio", marzo 1903.
Auro D'Alba: "Lirica Comune" in "I Poeti Futuristi" (1912).
Italo Dalmatico: "La guida" in "Juvenilia" (1903).
Gabriele D'Annunzio: "Eliana" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Luisa Giaconi: "Il deserto" in "Tebaide" (1912).
Corrado Govoni: "Serre" in "Le Fiale" (1903).
Domenico Gnoli: "La valletta bruna" in "Poesie edite e inedite" (1907).
Arturo Graf: "Speranza" e "Paesaggio" in "Medusa" (1990).
Arturo Graf: "Sotto il salice" in "Dopo il tramonto" (1893).
Arturo Graf: "Il canneto" in "Morgana" (1901).
Luigi Gualdo: "Paesaggio" in "Le Nostalgie" (1883).
Giuseppe Lipparini: "Negli orti della saggezza" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Giuseppe Lipparini: "Il rudere" in "Stati d'animo e altre poesie" (1917).
Enzo Marcellusi: "Affricam teneo" in "I canti violetti" (1912).
Nicola Marchese: "Cammeo" in "Le Liriche" (1911).
Pietro Mastri: "Il tabernacolo" e "Il muro" in "L'arcobaleno" (1900).
Angiolo Orvieto: "La Valle senza Sole" in "Verso l'Oriente" (1902).
Aldo Palazzeschi: "Il cancello" e "Il manto" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi: "I prati di Gesù" in "Poemi" (1909).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Il macigno" in "Il Libro dei Frammenti" (1895).
Antonio Rubino: "La valle della Morte" in «Poesia», ottobre 1908.
Cristoforo Ruggieri: "Lo scoglio" in "Ritmi" (1900).
Fausto Salvatori, "Siede una donna taciturna e i piani" in "In ombra d'amore" (1929).
Emanuele Sella: "La primavera celeste" in "Il giardino delle stelle" (1907).
Giovanni Tecchio: "Umbrae mysterium" in "Mysterium" (1894).
Aurelio Ugolini: "Paesaggio intimo" in "Viburna" (1908).
Guido Vitali: "L'aliga" in "Voci di cose e d'uomini" (1906).
Giuseppe Zucca: "Palude pontina" in "Io" (1921).




Testi


IL CANCELLO
di Aldo Palazzeschi

L’oscuro viale dai mille cipressi
che porta al cancello del grande piazzale
è aperto a la gente.
Soltanto il cancello non s’apre.
Va e viene la gente pel lungo viale
che il sole soltanto non lascia passare,
si sosta al cancello che à cento colonne di ferro
la gente a guardare.
In una carretta ch’è piccolo letto
due monache nere conducono attorno
pel grande piazzale, il Signore,
padrone del grande castello.
Cent’anni à il Signore
padrone del grande castello!
Lo portano attorno due monache nere,
attorno al castello ch’è in mezzo al piazzale.
Non ode non vede la gente
che al vano dei ferri del grande cancello
sta ferma a guardare.
Va e viene la gente pel lungo viale
che il sole soltanto non lascia passare,
si sosta al cancello che à cento colonne di ferro
la gente a guardare.
Ogn’anno a quel grande cancello
s’aggiunge una nuova colonna di ferro:
il posto d’un altro a guardare.

(da "I cavalli bianchi")




UMBRAE MYSTERIUM
di Giovanni Tecchio

Languiva ancor ne l'occidente il giorno
con una luce che facea stupore.
Parea quasi funereo l'autunnale
vespro e ci guardavam spesso d'in torno
come presi da un senso di timore.
Quello pareva un vespero fatale:
triste moriva, triste assai quel giorno.

Ne l'aria c'era non so che lamento.
Nel silenzio solenne di quell'ora
sognava forse l'Anima ammalata.
Tristi cadean le foglie gialle al vento.
Ritorna a quel ricordo umiliata
l'Anima ed a quell'erme rive ancora.
Ne l'aria c'era non so che lamento.

Andavam soli, senza meta, errando
per il parco. Tacevan le fontane
che, in quel silenzio antico, armoniose
facean tra il verde un dì murmure blando.
Pur narrava una Venere lontane
storie d'amore liete e dolorose,
che andavan lungi per il parco errando.

Giungemmo ad un castello antico, immenso.
Per l'alta scala tutta quanta bianca
incominciammo taciti a salire.
Incombeva il silenzio cupo e intenso.
Ansare ella s'udìa: forse era stanca,
poi che sentii 'l suo braccio illanguidire.
D'avanti a noi s'ergea il castello immenso.

Ella era stanca. Per la scala, muti,
sostammo allora. Era già morto il giorno;
era triste, assai triste quella sera
in quei luoghi lontani e sconosciuti.
Deserto il parco si stendea d'in torno
tutto ne l'ombra misteriosa e nera.
E discendemmo per la scala, muti.

(da "Mysterium")


Arnold Böcklin, "Landschaft mit Burgruine anagoria"
(da questa pagina)


domenica 5 agosto 2018

"L'arcobaleno" di Pietro Mastri


Pietro Mastri (nome d'arte di Pirro Masetti) è oggi un poeta totalmente ignorato. Pure ebbe un suo periodo d'oro agli albori del XX secolo, quando fu pubblicato, dall'editore Zanichelli di Bologna, un volume di versi intitolato L'arcobaleno. Mastri aveva alle spalle soltanto un altro libro, uscito ben otto anni prima, che ebbe qualche lode da Pompeo Bettini, il quale vedeva nelle prime liriche del nostro, qualcosa che faceva pensare ad un grande, futuro poeta. L'occasione di mettersi in mostra arrivò, per Mastri, grazie alla nascita di una rivista letteraria: Il Marzocco, diretta inizialmente dai fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto e, successivamente dallo stesso Mastri. Questa rivista acquistò in breve tempo grande importanza grazie agli ottimi collaboratori di cui si poteva avvalere e, soprattutto, grazie agli illustri poeti che lì pubblicarono in "anteprima" i loro versi; tra questi spicca senz'altro il nome di Giovanni Pascoli: a quel tempo autentico e forse unico maestro per molti giovani autori di versi, ed anche per Mastri. Quest'ultimo cominciò a pubblicare in modo assiduo sul Marzocco i suoi componimenti poetici a partire dal 1897; molti di questi, con poche varianti, entrarono a far parte de L'arcobaleno: volume di versi uscito nel 1900 presso l'editore Zanichelli in Bologna (fu ripubblicato nel 1920 con alcune varianti). Questa appena citata è un'opera poetica che, in verità, molto deve a Pascoli, in particolare alle Myricae. La predilezione per l'ambiente agreste, la meraviglia e l'attenzione nei confronti delle semplici manifestazioni della natura, le piccole cose e i personaggi umili presenti nelle campagne e nei paesi dell'entroterra sono argomenti poetici che accomunano il poeta romagnolo e quello toscano. Mastri seppe far tesoro della lezione pascoliana per approfondire e proseguire il discorso già iniziato nelle Myricae. La differenza tra i due poeti si nota soltanto in poche poesie, dove Mastri mostra la sua vicinanza e la sua simpatia nei confronti della poesia decadente e simbolista, che allora era nella fase più evolutiva. Alcune di queste poesie le si può trovare nella prima sezione del libro: Le oscure visioni (che già nel titolo mostra molte attinenze con la poetica or ora citata). Altre si incontrano in ulteriori sezioni e sono le migliori (mi riferisco a Il tabernacolo, Il muro e Passeggiata autunnale). Interessante e attinente, da questo punto di vista, è anche la sezione Quarti di luna. Mastri proseguì sulla stessa strada di L'arcobaleno anche negli anni successivi; ne fa testo la raccolta Lo specchio e la falce: uscita dopo sette anni e a cui spero di poter dedicare un ulteriore post. Concludo selezionando, dalla prima edizione de L'arcobaleno, quelle tre poesie che ho testé nominato e che rappresentano uno dei momenti più alti del nostro decadentismo poetico.




IL TABERNACOLO

Vedi? Alla cantonata è un breve armario
chiuso; e dinanzi accesa una votiva
lampada, cui non manca olio d'oliva
giammai, giammai, come in un santuario.

Pure, non vi si ferma anima viva;
nessuno più vi recita il rosario.
Chi dunque ha cura di quel solitario
tabernacolo? Chi la fiamma avviva?

Ascolta: è voce che, se a tarda notte
lo sperso viandante qua s'aggiri,
veda e oda cose onde il cammino affretta.

(Guizza la fiamma: stride una civetta.)
Vede un'ombra che prega, e da sospiri
ode le preci e da gemiti rotte.




IL MURO

Una solinga via fa capo al muro;
alto ed oscuro per crepacci antichi;
dalla cui sommità pendono intrichi
d'ellera, come ancor neri cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi...
Io non lo so, che cinga il vecchio muro.

Di là, nel vespro, il martellar d'un merlo
da invisibili frasche ora mi giunge;
ed un garrir di passeri, più lunge,
da invisibili tetti. Ma che cinga
il vecchio muro in questa via solinga,
io non lo so: né bramo di saperlo.

Che?... Forse l'orto d'un convento... Suore
pallide in volto d'un pallor di cera,
cui sa d'incenso l'ampia veste nera,
vanno per quelle aiòle; e di lor sogni
vedon fiorire, attorno, sfiorire ogni
rosa che nasce, ogni rosa che muore.

Fors'anche un cimitero abbandonato...
Ferve sulla chiesetta il passeraio?
V'è qualche siepe fatta ora sterpaio,
nido di merli? Ed erbe in gran vigore;
ove, a tratti, un marmoreo biancore
stagna, com'acqua lucida in un prato.

O forse un dolce solitario asilo
d'amore... Ecco il viale dei sorrisi;
mani allacciate, occhi negli occhi fisi.
Bianca nel fondo sta la villa e aspetta.
La luna poi vedrà stamparsi netta
un'ombra in terra, un duplice profilo.

O, chi sa mai ?, come talor si vede
retto da un vecchio un gracile bambino,
regge il muro uno squallido giardino.
E dietro, forse, un giovinetto langue;
e chino l'avo su quel volto esangue,
spengersi mira il suo ultimo erede...

Tace ogni suono ormai. Gl'intrichi neri
d'ellera, al sommo dello scabro muro,
lievemente oscillano nel puro
vespro così, com'ispidi cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi;
fronti che serban chiusi i lor pensieri.




PASSEGGIATA AUTUNNALE

Io vo lentamente sotto la pioggia
di foglie morte, per questo viale.
Oh rigidi olmi nel cielo autunnale,
fra un vel di nebbia! Oh lugubre pioggia!

Ed or crepitanti e come contorte
da fuoco, or tacite come vane ombre,
le foglie cadono, cadono Ingombre
son tutte le cose di questa morte.

Oh! tutto n'è ingombro. La roggia chiazza
adombra il terreno, gli argini, i muri,
i vuoti sedili: cumuli oscuri
qua e là si elevano, lustri di guazza.

Eppure io ben vedo, fra un polverìo
denso, com' è quando turbina il vento,
qualcuno a un suo rude lavoro intento:
spazzare, ammucchiare con gran fruscìo.

E vedo passare carri ricolmi
di queste piccole morte... Che vale?
Oh! senza posa, ma placida, eguale,
cade la pioggia dall'alto degli olmi.

Da tutti, da tutti gli alberi cade
vicino e lontano la triste pioggia,
senza posa, senza posa: la roggia
chiazza si allarga, dilaga ed invade...

Io vo lentamente. Sotto il mio piede,
ecco, via via qualche foglia percossa
manda un lieve scricchiolìo come d'ossa
fragili, e infranta di subito cede.

Ecco: una foglia mi sfiora la mano,
cadendo; un'altra mi passa rasente
agli occhi sì ratta, che più son lente
le ciglia a schermirsi; un'altra pian piano

mi scende sull'òmero e alle mie vesti
s'appiglia... Ebbene: copritemi tutto,
copritemi, o foglie, del vostro lutto,
sì che il mio corpo gravato ne resti.

Anch'io vo' giacere sul nudo suolo,
che vide le nostre fuggevoli orme;
tornare alla terra, cumulo informe,
su cui gli uccelletti fermino il volo.

Non io vi sentii con l'anima (oh Aprile!)
dall'esili gemme schiudervi al sole,
tenere come le prime parole 
ch'escano incerte da labbro infantile?

Non io vi mirai, quando agili e pronte
ad ogni aura, le verdi esultanze
vostre, ampiamente, con tremole danze
d'ombre, stormivano sulla mia fronte?

Ed ora è la morte... E sia! Cadete,
cadete, o foglie, vicino e lontano.
Sì, tutto è caduco, sì, tutto è vano,
come noi siamo e come voi siete.


domenica 29 luglio 2018

Antologie: "L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo"


Questa antologia è, per me, la migliore mai pubblicata tra quelle che si occupano di poesia italiana dell'Ottocento e del Novecento. Uscì per la prima volta nel 1963, presso l'editore Martello di Milano. I curatori, Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, sono stati a loro volta eccellenti poeti. Rammento che, prima di avere l'opportunità di comperarla, ne captai l'importanza, per il motivo che veniva spesso citata in diversissimi ambiti e su svariati libri, in quanto in essa era possibile trovare nomi difficilmente rintracciabili altrove; inoltre, non sono poche le antologie che usufruirono di questo volume, per selezionare dei testi di poeti poco considerati, i cui libri erano e sono di difficile reperibilità. E la peculiarità dell'antologia è sostanzialmente questa: qui sono stati selezionati alcuni poeti ignorati dalle altre opere similari, oppure inseriti soltanto in antologie settoriali. A tal proposito, mi preme ricordare, tra i nomi qui presenti, a titolo prettamente esemplificativo, quelli di Ernesto Ragazzoni, Guelfo Civinini, Gustavo Botta, Sandro Baganzani, Enrico Somaré, Silvio Catalano, Francesco Flora, Giacomo Prampolini, Libero Bigiaretti, Antonio Rinaldi e Alberico Sala; non mancano, inoltre, un gran numero di poeti dialettali. In queste pagine non si fa distinzione tra grandi e piccoli poeti (a parte lo spazio dedicato a ciascuno di essi): tutti compaiono in fila, uno dopo l'altro, con le loro poesie; ed è anche questa una scelta opportuna, visto che sono veramente troppe le antologie in cui si distinguono i poeti "sommi", "superiori", "minori" ecc. oppure quelle in cui ogni poeta è incasellato in una scuola o in un movimento. L'arco temporale di cui l'antologia si occupa è quello che va dall'unità d'Italia (all'incirca il 1861) ai primi anni '60 del XX secolo. I poeti sono ordinati per anno di nascita e a ciascuno di loro è stata riservata sia una breve presentazione che una bibliografia delle opere e della critica. Ecco infine l'elenco dei 152 poeti presenti nelle 1386 pagine di questo stupendo libro. 

L'ANTOLOGIA DEI POETI ITALIANI DELL'ULTIMO SECOLO



Giosuè Carducci, Domenico Gnoli, Emilio Praga, Vittorio Betteloni, Iginio Ugo Tarchetti, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Arturo Graf, Giovanni Pascoli, Vittoria Aganoor, Salvatore Di Giacomo, Pompeo Bettini, Cesare De Titta, Gabriele D'Annunzio, Adolfo De Bosis, Angiolo Silvio Novaro, Gian Pietro Lucini, Sebastiano Satta, Pietro Mastri, Mario Novaro, Enrico Thovez, Giovanni Cena, Ada Negri, Luisa Giaconi, Ernesto Ragazzoni, Francesco Chiesa, Umberto (Berto) Barbarani, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Guelfo Civinini, Paolo Buzzi, Sibilla Aleramo, Filippo Tommaso Marinetti, Rocco Galdieri, Giuseppe Lipparini, Francesco Pastonchi, Ardengo Soffici, Giulio Gianelli, Gustavo Botta, Francesco Gaeta, Enrico Pea, Giovanni Papini, Sandro Baganzani, Guido Gozzano, Umberto Saba, Carlo Chiaves, Corrado Govoni, Piero Jahier, Clemente Rebora, Marino Moretti, Arturo Onofri, Aldo Palazzeschi, Umberto Zerbinati, Virgilio Giotti, Dino Campana, Delio Tessa, Fausto Maria Martini, Aldo Spallicci, Carlo Michelstaedter, Alfredo Luciani, Sergio Corazzini, Diego Valeri, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Luciano Folgore, Angelo Barile, Camillo Sbarbaro, Edoardo Firpo, Giuseppe Villaroel, Enrico Somaré, Mario Venditti, Luigi Fallacara, Silvio Catalano, Girolamo Comi, Ettore Serra, Oreste Ferrari, Riccardo Bacchelli, Francesco Flora, Vann'Antò, Maria Barbara Tosatti, Manlio Dazzi, Biagio Marin, Luigi Bartolini, Ugo Betti, Elpidio Jenco, Lionello Fiumi, Nicola Moscardelli, Giorgio Vigolo, Luciano Nicastro, Vittorio Clemente, Filippo De Pisis, Eugenio Montale, Adriano Grande, Carlo Saggio, Corrado Pavolini, Giacomo Noventa, Giacomo Prampolini, Sergio Solmi, Vincenzo Guarnaccia, Salvatore Quasimodo, Eurialo De Michelis, Eugenio, Ferdinando Palmieri, Raffaele Carrieri, Mario Dell'Arco, Sandro Penna, Libero Bigiaretti, Cesare Pavese, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, Aldo Capasso, Renzo Laurano, Beniamino Dal Fabbro, Antonio Barolini, Gaetano Arcangeli, Lorenzo Calogero, Guglielmo Petroni, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Lino Curci, Vittorio Sereni, Siro Angeli, Luigi Fiorentino, Umberto Bellintani, Alberto Mondadori, Alessandro Parronchi, Piero Bigongiari, Mario Luzi, Antonio Rinaldi, Vittorio Bodini, Giorgio Bassani, Franco Fortini, Angelo Romanò, Nelo Risi, Margherita Guidacci, Andrea Zanzotto, Biagia Marniti, Pier Paolo Pasolini, Bartolo Cattafi, Luciano Erba, Alberico Sala, Elio Filippo Accrocca, Ottaviano Giannangeli, Roberto Roversi, Franco Costabile, Paolo Volponi, Luciano Luisi, Mario Gori, Elio Pagliarani, Roberto Sanesi. 


domenica 22 luglio 2018

L'infanzia in due frammenti in prosa e una poesia


Se ripenso alla mia infanzia, spesso provo sensazioni così emozionanti che mi vien da piangere. È come se, in quel favoloso e irripetibile periodo, io abbia vissuto in un'altra realtà; era, il mio, un mondo di favola, dove tutto appare più bello, più colorato e più emozionante. Quegli anni, ormai lontanissimi, mi sembrano semplicemente meravigliosi, al di là di ciò che erano veramente (furono definiti "gli anni di piombo", perché in Italia e non solo, alcuni gruppi di terroristi portarono a compimento una serie di azioni violente, che lasciarono sul campo parecchie vittime). Mi succede di pensare a certi momenti che ho vissuto: dei lampi della mia lontana esistenza che ora, a ricordarli, sembrano appartenere ad un universo a sé stante, inverosimile, fantastico. Nascono, questi miei ricordi, da frammenti di tempo, minuti o secondi che si sono impressi nella mia memoria per non andarsene più; ora, sono diventati come le apparizioni della Madonna per i credenti: dei veri e propri sogni ad occhi aperti. Così, quando con la mente rivado a pescare qualcosa di quel mio mitico periodo, mi sembra che allora, la mia vita così come quella di tutti coloro che erano vivi in quegli anni, fosse più che mai felice e spensierata; la vedo, insomma, come un'età dell'oro. Naturalmente, mi rendo ben conto che questa non è la verità, e che le mie sensazioni erano tali perché stavo vivendo il periodo più bello della mia vita. Con il passare degli anni, mi sono accorto che, gradualmente, ho perduto quel modo unico di vedere le cose che appartiene solamente all'infante; crescendo, sempre più dai miei occhi sono caduti quel veli che coprivano la vera e dura realtà delle cose. A proposito di ciò, voglio qui inserire due frammenti tratti da altrettanti libri, in cui a mio parere viene precisato in modo eccelso, quel concetto di "infanzia mitica" che, con parole meno forbite ho voluto esprimere in queste poche righe. Il primo frammento appartiene a Feria d'agosto di Cesare Pavese, e si trova nel sottocapitolo intitolato: Del mito, del simbolo e d'altro.

Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico. Ciò s’accompagna all’altro noto fatto che nessun bambino sa nulla del “paradiso infantile” a cui a suo tempo l’uomo s’accorgerà d’esser vissuto. La ragione è che negli anni mitici il bambino ha assai di meglio fare che dare un nome al suo stato. Gli tocca vivere questo stato e conoscere il mondo. Ora, da bambini il mondo s’impara a conoscerlo non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva e lo conteneva. Al bambino questo segno si fa simbolo, perché naturalmente a quel tempo la fantasia gli giunge come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione (Che l'infanzia sia poetica è soltanto una fantasia dell'età matura). Ma questo simbolo, nella sua assolutezza, solleva alla sua atmosfera la cosa significata, che col tempo diviene nostra forma immaginativa assoluta. Tale la mitopeia infantile, e in essa si conferma che le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. Poiché, rigorosamente, non esiste un «veder le cose la prima volta»: quella che conta è sempre una seconda.

Ora, volendo meditare su questo scritto di Pavese, trovo che, particolarmente nella prima parte, abbia pienamente centrato il bersaglio; l'inconsapevolezza della propria felicità è palese nel bambino, preoccupato soltanto di vivere quel tempo seguendo i suoi istinti, senza pensieri esistenziali che non appartengono a quell'età. Infatti, io mi ricordo che ebbi, per la prima volta, una vaga sensazione della mia felicità, quando avevo già compiuto dodici anni: ero quindi quasi al limite dell'infanzia. Verissimo anche il concetto relativo alla fantasia infantile, che fa divenire le cose, le persone e tutto ciò che ci capita sotto gli occhi, qualcosa di stupendamente bello (e anche di irreale).
Ecco, come secondo frammento, la parte iniziale de Il fanciullino di Giovanni Pascoli.

È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell'età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima d'onde esso risuona. E anche, egli, l'invisibile fanciullo, si perita vicino al giovane più che accanto all'uomo fatto e al vecchio, ché più dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d'un passato ancor troppo recente. Ma l'uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l'armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d'un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora.

Quindi, il Pascoli afferma che il bambino (o fanciullino che dir si voglia) rimane in noi anche dopo la fine dell'infanzia, ma, se durante la giovinezza sembra quasi assente perché viene rinnegato con una certa vergogna, a mano a mano che gli anni passano, tende a rifarsi vivo e diventa sempre più fondamentale per l'uomo maturo, che lo ama e lo ricorda dolcemente. Personalmente, devo dire che non ho mai rinnegato la mia infanzia, neppure in età giovanile, ma l'ho rimpianta fin dall'adolescenza, perché già la percepivo quale periodo indiscutibilmente migliore della mia vita. Oggi, come ho già detto, adoro la mia infanzia come fosse un Dio.
Termino questa mia dissertazione con una poesia di Tito Marrone intitolata Un fanciullo; fa parte della raccolta Liriche, pubblicata dall'editore Artero di Roma nel 1904. In questi ventiquattro versi il poeta racconta una storia che potrebbe essere un sogno, o un fantasioso, ipotetico mondo che immagina possa esistere dopo la morte; è, alla fine, un desiderio di ritornare indietro nel tempo e rivivere l'età infantile.



UN FANCIULLO

Tu che mi guidi per mano
lungo le gelide vie,
senza parlarmi, straniero,
dove mi porti? Io ti seguo

docile: sono un fanciullo
docile. Oh, portami al sole!
Io non so stare nell'ombra
senza la mamma vicina.

Quando, la notte, dormivo,
io non temevo di niente;
c'era con me la mia mamma
c'era nell'ombra la luce.

Ora, non so perché faccia
questo infinito viaggio;
sono stanchissimo: cade
sopra il mio petto la testa.

Sembrami che di lontano
vengano voci infantili.
Per ch'io sorrida, mi porti
verso i piacevoli giochi?

Vedo lontani fanciulli.
Sono i miei piccoli amici?...
C'è la mia mamma con loro?...
Sono contento. Sorrido.