lunedì 18 settembre 2017

La scuola in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Da qualche giorno le scuole italiane hanno riaperto i loro cancelli agli studenti: è ricominciato l'anno scolastico. Ecco, allora, dieci poesie che parlano della scuola in diverse sfaccettature. Due poeti crepuscolari: Carlo Chiaves e Marino Moretti, s'indugiano a ricordare qualche vecchio compagno dei tempi della scuola, con un po' di malinconia e un non celato rimpianto. Altri, invece, mostrano una sorta di risentimento nei confronti di un'istituzione che non li ha mai compresi, non li ha considerati abbastanza. Altri ancora, dopo aver inneggiato alla fine del periodo scolastico, fanno una triste riflessione sulla vita non facile che attende chi lascia i banchi delle aule. E a proposito di quest'ultimo argomento, ci sono i versi di Gianni Rodari che sottolineano la difficoltà ben più accentuata dei compiti che si fanno nella "Scuola dei grandi". C'è, infine, chi si limita ad osservare i piccoli studenti o i collegiali che ispirano certamente una sana allegria. Buon anno scolastico a tutti.


LA SCUOLA È FINITA
di Alfredo Baccelli (1863-1955)

Dalla casetta rustica d'abete
cui fiorisce il geranio i davanzali,
fuggono, quasi al pié battesser l'ali,
Le turbe picciolette, agili e liete.

Rompe la festa in giubili corali:
nel mobile brillar delle inquiete
pupille d'aria e sole arde la sete:
squillan di risa tinnule i viali.

La pipa in bocca, immobile sorride
un alpigiano, e pare un monumento:
bionda una lady ancor li guarda e ride.

Ma dalle acacie, allo stormir del vento,
il passeraio garrulo che stride
Risponde come per consentimento.

(dalla rivista «Nuova Antologia», luglio 1911)




IL RIBELLE
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Sempre mi ribellai
al banco angusto, alla voce chioccia dei maestri,
non diedi che il meno rispetto ai professori.
Nessuno mi comprese, mai. Preferiti erano
i grandi sgobboni che correan l'olimpiade quotidiana
del dieci con lode. Oggi chi sa il nome loro,
nel Mondo non dico, ma pur nella Città?
All'aeropago di legno sùcido
la mia presenza poco pesava. Ma, nel silenzio
di quell'oblio volontario delizioso,
maturava il sacro germe della Poesia:
non mi nutrivo che di Sogno:
nasceva l'Avvenire d'un'anima.
E il professore di aritmetica mi diceva - asino! -
Ed io, come nella favola del quadrupede paziente,
fuori volava, verso l'azzurra Consolazione
ch'empiva i quadri delle finestre aperte.

(da "Poema dei quarantanni", Ed. Futuriste di Poesia, Milano 1922)




LA SCUOLA
di Giovanni Cena (1870-1917)

Settembre! Ricominciano gli orari,
bimbo. Tempo è di spolverare i tomi
dei classici, di scander gl'idiomi
dei padri antichi. Mano ai dizionari!

Ah! Gli par di rimovere sudari
polverulenti ond'escon vecchi aromi.
Oh sapienza! Afferra gli assiomi,
piccolo Fausto, e spremi i corollari!...

E con grand'occhi guarda la finestra
onde irrompendo lo turba l'odore
dei fieni e delle rondini il gridìo.

E una voce laggiù: «Fior di ginestra!»
L'infanzia passò. Passa l'amore,
forse. E richiude i vetri. «Addio, addio!»

(da "Homo", Nuova Antologia, Roma 1907)




AD UN COMPAGNO DI SCUOLA
di Carlo Chiaves (1882-1919)

O mio buon compagno d'un giorno,
t'ho visto passar ne la strada,
con l'aria d'un uomo che vada
perdutamente d'attorno

Per turbinose faccende,
immerso nei gravi pensieri,
e lontano dai desideri
che l'anima più non intende.

Non t'ho rincorso, non t'ho
chiamato, o compagno, perché,
lungo la strada, con te,
la mia giovinezza passò.

Intesi che è una dolcezza
morta per sempre e sepolta,
quella che rifulse una volta
magnifica spensieratezza.

Intesi: e la mente inquieta,
sai tu ciò che allora pensò?
che voi vi mutaste ed io no,
io solo, il vostro poeta!

Il poeta che già ne la scuola
cantava le nostre vicende,
che declamava le orrende
sue pagine a squarciagola.

E tu ripetevi quei versi,
e ne scrivevi, benigno...
Ora, con che viso arcigno
vedresti quei fogli dispersi!

E gli altri, ove sono? I cinquanta
compagni, i cinquanta campioni
che dormivano a le lezioni
con la costanza più santa?

Tutti s'aggiran pel mondo
ancora? o non, più avventurato,
alcuno se n'è addormentato
d'un sonno eterno, profondo?

Quanti seguiron la traccia
segnata? e quanti la sorte
ritenne proprio a le porte
donde la vita s'affaccia?

Quanti si sono avvinti
da le catene dei bisogni,
oh! come lontano da i sogni
dai desideri, dagli istinti!?

Quei che piegava tremante
sui classici l'anima onesta,
non piega or forse la testa
nel grembo di una folle amante?

Tutti per diverso destino
quelli che furon tanti anni
uniti in gioie, in affanni
e l'uno a l'altro vicino!

Se tu facessi ritorno,
o compagno del mio passato,
vedresti ch'io non sono mutato,
che il mio cuore è quello d'un giorno!

Io vorrei ne la mia segreta
anima, raccoglier l'intera
anima di tutta la schiera,
io solo, il vostro poeta.

E attendere che si ridesti,
gagliarda, come non mai,
con tutti i suoi palpiti mesti,
con tutti i suoi palpiti gai!

In una limpida aurora,
attendere che si sprigioni
un'eco possente, sonora,
come di cinquanta canzoni!

(da "Sogno e ironia", Lattes, Torino 1910)




LA SCUOLA È FINITA!
di Carlo Michelstaedter (1887-1910)

È giunta l'ora del distacco, è giunta;
io vi lascio sedili riscaldati
aule sapienti portici affollati
ora e per sempre!

Ansie e battaglie e faticose veglie
liete sconfitte e facili vittorie
e voi quaderni carchi di memorie
io v'abbandono.

Libero sono dalla tirannia
d'ogni minuto; sono rotti i ceppi
che per lunghi anni rallentar non seppi.
Libero sono!

Libero, e innanzi a me s'apre la vita
con gli orizzonti vasti ed intentati
e coi premi lontani ed agognati
nei sogni antichi.

Freme nel petto l'animo convulso:
sete di gloria e sete di sapere
desiderio d'azione e di piacere
in me ribolle.

In un amplesso solo poderoso
vorrei legare a me tutta la terra
vincere il fato e la fortuna ch'erra
cieca nel mondo.

Ma un brivido mi corre per le membra,
la vita è fredda e piena di sgomento,
triste isolato debole mi sento
vo' ritornare.

Vo' ritornare ai banchi della scuola
alla diuturna noia, alle catene
a quel fetore che facea sì bene,
ai professori.

Amici, or vedo quanto abbiam perduto;
della nostra esistenza, calda un'onda
nel buio del passato si sprofonda
inesorato.

Con quel legame che ci die' comuni
ore di gioia ed ore di sconforto
anche un periodo della vita è morto
in quest'istante.

Ma non dobbiam però chinar la fronte.
Col ferro in pugno verso l'ideale
ci batterem con animo leale!
In alto i cuori!

E se fra le battaglie della vita
saremo vinti forse, da lontano
ci volgeremo a stringerci la mano
... addio compagni!

(da "Poesie", Adelphi, Milano 1987)




POGGIOLINI
di Marino Moretti (1885-1979)

O Poggiolini! Lo rivedo ancora
con quel suo mite sguardo di fanciulla
e lo risento chiedermi un nonnulla
con una voce che, non so, m'accora.

Che cosa vuoi? Son pronto a darti tutto,
un pennino, un quaderno, un taccuino,
purché tu venga per un po' vicino
al cuore che ti cerca da per tutto.

Non comparirmi, prego, come sei
ora, avvocato, chimico, tenente,
ché cercheresti invano nella mente
il mio ricordo dandomi del lei.

Saper io non vorrò neppure come
passaron gli anni sopra la tua vita:
voglio l'occhiata timida e smarrita
che rispondeva un giorno al tuo cognome.

Voglio che tu mi renda per un'ora
la parte del mio cuore che non pensi
di possedere da quei giorni intensi,
finché saremo i due compagni ancora.

Noi siederemo ad uno stesso banco
riordinando i libri a quando a quando,
e rileggendo un compito, e guardando
sul tavolino un grande foglio bianco.

Il registro a cui tutti eran diretti
quando c'interrogavano gli sguardi,
io lo sapevo a mente: Leonardi,
Massari, Mauri, Méngoli, Moretti...

Il registro coi voti piccolini
nelle caselle dietro i nomi grandi
tu lo sapevi a mente: Nolli, Orlandi,
Ostiglia, Paggi, Poggi, Poggiolini...

Dio, che tristezza ricordare questi
nomi d'ignoti a cui demmo del tu!
nomi che non si scorderanno più
 perché in fila così, perché modesti...

O Poggiolini, che fai tu? che pensi?
Forse tu vivi in una tua casina
odorata di latte e di cedrina
e sguardi e baci ai figli tuoi dispensi.

Forse la sera giochi la partita
fino alle dieci e mezzo, anche più in là,
con la moglie, la suocera e chi sa,
anche con Poggi o Méngoli... La vita!

Io... nulla. Quello che fu mio lo persi
strada facendo, quasi inavvertita-
mente, e adesso se ho un foglio e una matita
faccio, indovina un po', faccio dei versi.

(da "Poesie scritte col lapis", Ricciardi, Napoli 1910)




SCUOLA
di Sandro Penna (1906-1977)

Negli azzurri mattini
le file svelte e nere
dei collegiali. Chini
su libri poi. Bandiere
di nostalgia campestre
gli alberi alle finestre.

(da "Poesie", Garzanti, Milano 1970)




LA SCUOLA
di Renzo Pezzani (1898-1951)

Chi mai l'ha costruita, un po' appartata
dall'altre case, come una chiesuola,
e poi che l'ebbe tutta intonacata
le ha scritto in fronte la parola «Scuola»?

E chi le ha messo al collo per monile
una campana senza campanile?

Chi disegnò per lei quei due giardini
con pochi fiori e giovani alberelli
difesi dall'insulto dei monelli
da fascetti di brocche irte di spini?

Chi seminò con tanto amor le zolle?
Per che bambino costruir le volle?

non per un bimbo, ma per quanti sono
nel mondo, suona quella campanella;
e la scuola ti sembra così bella,
e quell'aiuola un rifiorente dono

perché col giardiniere e il muratore
vi mise ogni dì mano anche l'amore.

(da "Odor di cose buone", Paravia, Torino 1950) 




LA SCUOLA DEI GRANDI
di Gianni Rodari (1920-1980)

Anche i grandi  a scuola vanno
tutti i giorni di tutto l'anno.

Una scuola senza banchi,
senza grembiuli né fiocchi bianchi.

E che problemi, quei poveretti,
a risolvere sono costretti:

«In questo stipendio fateci stare
vitto, alloggio e un pò di mare».

La lezione è un vero guaio:
«Studiate il conto del calzolaio».

Che mal di testa il compito in classe:
«C'è l'esattore, pagate le tasse».

(da "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1960)





ASCOLTA LA VOCE DEL MAESTRO
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Ascolta la voce del Maestro
la domanda che resta senza risposta
ecco il gesso, ecco l'unghia che stride
e scrive un nome sulla lavagna.
Sembrano voci di un altro regno
le dolci voci dei compagni.
Il ragazzo è solo nascosto
tra le ortiche delle tombe.
Spreme in pugno il veleno d'ogni foglia.
Ha voglia di morire. E uno squillo
di tromba lo accarezza, un richiamo
forte come un nitrito.
Riassapora l'inchiostro sulle dita:
è il Maestro che suona?


(da "Vidi le muse", Mondadori, Milano 1943)



sabato 16 settembre 2017

Antologie: Poeti Novecento

Questa antologia nacque a seguito del concorso di poesia indetto dall'Accademia Mondadori nel 1926. Dopo un lungo periodo di lettura dei volumi mandati all'editore dai tanti poeti italiani che vollero partecipare al concorso, una commissione di esperti, che decisero di rimanere anonimi, diede alle stampe l'antologia nel 1928. Purtroppo, il risultato fu tutt'altro che soddisfacente: i trentadue poeti scelti risultarono, alla lunga, poco rilevanti, ed oggi ben pochi si ricordano di questa antologia che, pure, nell'anno in cui uscì, fece un certo scalpore. Chi aveva indetto questo concorso poetico avrebbe voluto raccogliere i versi dei migliori poeti in circolazione durante quel periodo specifico, non badando all'età, né alla fama di ciascuno; ebbene si può dire con certezza che il tentativo fallì clamorosamente. Leggendola, si nota la presenza di Paolo Buzzi: un poeta conosciuto che ebbe, negli anni d'oro del futurismo, un periodo glorioso; vi compaiono poi altri nomi di poeti emergenti che non sono da disprezzare come Augusto Garsia, Renzo Pezzani e Giacomo Prampolini, ma nulla di più. Chi leggerà l'elenco (che riporto di seguito) degli scrittori scelti dai curatori di questa vecchia antologia, probabilmente faticherà a trovare qualche altro nome conosciuto, visto che, quasi tutti, ebbero il loro massimo momento di fama proprio in queste pagine. 





POETI NOVECENTO


Giovanni Bizzarri, Gino Bonomi, Paolo Buzzi, Attilio Canilli, Alberto De Brosenbach, Mario De Gaslini, Ettore De Nuvoli, Vincenzo De Simone, Bruno Fattori, Augusto Garsia, Gentucca, Enrico Gerelli, Mario Ghisalberti, Elio Gianturco, Gino Gori, Carlo Kutufà, Giuseppe Longo, Vittorio Malpassuti, Vittorio Mazzarella, Sebastiano Mineo, G. Edoardo Mottini, Tullio Murri, Maria Nastasi, Renzo Pezzani, Mariuccia Piceni, Giacomo Prampolini, Mariano Rugo, Anna Severino, Niccolò Sigillino, Mario Toccolini, Mario Viscardini, G. Zuppone Strani.

sabato 2 settembre 2017

Poeti dimenticati: Augusto Ferrero

Nacque a Bologna nel 1866 e morì a Roma nel 1924. Laureatosi in Legge, esercitò la professione di giornalista e pubblicò, oltre a vari articoli, alcune poesie su riviste come "La Gazzetta Letteraria" e "Nuova Antologia". Fu redattore capo de "La Tribuna". Ferrero, che non fu un poeta molto prolifico (pubblicò un solo volume di versi) può essere accomunato alla generazione che rimase con un piede nell'Ottocento ed uno nel Novecento: romantico, legato alla tradizione, di rado seppe trovare  suggestioni più moderne che, soltanto marginalmente, lo avvicinano alla poesia decadente.



Opere poetiche

"Nostalgie d'amore", Roux, Torino 1893.



Presenze in antologie

"Italian lyrists of to-day", a cura di Elkin Mathews e John Lane, Londra 1893 (pp. 101-103).
"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 159-161).
"Aria sana", a cura di G. Lanzalone e B. Cocurullo, Stab. Tip. F.lli Jovine, Salerno 1909 (pp. 161-171).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, p. 110).



Testi

A VILLA BORGHESE

Qui tra l'elci, qui pei viali solitari
tu mi segui, fida amica, nel pensiero:
forse avvolta dentro il mobile leggero
                    velo della nebbia?

Prati roridi all'autunno, voi, sacrari
taciturni, dalla densa ombra tranquilla,
ove sola s'ode l'acqua che zampilla
                    con mormorio querulo.

Quanta pace qui nel vostro ospite grembo,
quanta pace fra le nere antiche fronde,
quanta pace, bianco cigno, pur tra l'onde,
                    che sereno navighi!

Ecco il sol fende la nebbia: rompe a sghembo
di fra i pini, sovra l'erba che scintilla:
sei tu meco nel mattino di novembre, per la villa
                    sacra, amico spirito?


(dalla rivista «Nuova Antologia», agosto 1903)

lunedì 21 agosto 2017

I laghi nella poesia italiana decadente e simbolista

Parlando di laghi, è opportuno ricordare che bisogna sempre riconnettersi al discorso delle acque (escludendo ovviamente le acque correnti). In queste poesie si nota molto spesso la presenza di elementi inquietanti. Nei versi di Mastri, per esempio, le acque del lago assumono un insolito colore rosso che trasmette nella mente del poeta tutta una serie di pensieri orribili. Anche nella poesia di Tumiati: Il lago salato, sembra di vivere in una sorta di incubo dove c'è una figura femminile in preda ad una sete tremenda che infine trova, come unico luogo dove potersi dissetare, un lago dalle acque velenose. A proposito di donne, vi sono vari componimenti che le vedono, giovani e belle, bagnarsi nelle acque dei laghi; a volte però, l'immagine gradevole e invitante delle giovinette svestite che giocano nelle acque lacustri altro non è che una trappola mortale per gli uomini ipnotizzati da tale visione. Si riscontra inoltre, in alcune poesie, l'elencazione di una serie di immagini, figure, rumori; ad esempio, spesso compaiono le nebbie che, gradatamente, coprono le acque dei laghi; oppure i cigni che vagano all'interno del bacino lacustre o, ancora, il suono, in lontananza, di campane. Tutti elementi, questi ultimi, che si ritrovano facilmente in molti altri versi di poeti liberty, simbolisti, crepuscolari e decadenti.



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Ricordo di Lucerna" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Francesco Cazzamini Mussi: "Lago di Bourget" in "Fogline d'assenzio" (1916).
Girolamo Comi: "Intraducibili sono i tuoi splendori" in "Lampadario" (1912).
Gabriele D'Annunzio: "Sul lago di Nemi" in "Elegie romane" (1892).
Alfredo Galletti: "Ombra" in "Odi ed elegie" (1903).
Luisa Giaconi: "Il laghetto" in "Tebaide" (1909).
Cosimo Giorgieri Contri: "Sera di lago" in «Nuova Antologia», aprile 1907.
Corrado Govoni: "Laghi" in "Le Fiale" (1903).
Arturo Graf: "Acqua chiara..." in "Medusa" (1890).
Arturo Graf: "Il lago delle ondine" in "Morgana" (1901).
Giuseppe Lipparini: "Il lago" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Gian Pietro Lucini: "Or all'alba od al vespero..." in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Pietro Mastri: "Il lago rosso" in "L'arcobaleno" (1900)
Mario Morasso: "Il simbolo di Carmen in Helène Hastreiter - Epilogo" in "I Prodigi" (1894).
Domenico Tumiati: "Ricordo di lago" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Domenico Tumiati: "Il lago salato" in «Il Marzocco», novembre 1897.
Diego Valeri: "Pomeriggio sul lago" in "Umana" (1916).



Testi

OMBRA
di Alfredo Galletti

Il lago è già immerso ne l'ombra,
ma in alto un supremo bagliore
                       sfavilla.
Laggiù ne l'azzurra penombra
la stella ch'è sacra a l'amore
                       scintilla.

La nebbia leggiera si spande
su l'acque, su i prati: le cose
                       pallenti
proiettano un'ombra più grande;
somigliano a larve brumose
                       vanenti.

Lontano rumor di campane
da l'acque sonore echeggiato
                       si muore,
par voce d'angosce lontane
che desti un dolore obliato
                       ne 'l cuore.

La luce da i cieli, la vita
da i campi, da i fior la fragranza
                       s'invola;
o anima stanca e ferita,
s'invola da te la speranza:
                       sei sola.

(Da "Odi ed elegie")




LAGHI
di Corrado Govoni

O laghi cristallini e smeraldini
ricamati di bianchi nenufari
candidi come improvvisati altari
con nappe pendule di pannolini;

o laghi azzurri, o laghi oltre marini
circondati da boschi solitari
con i branchi di cigni pellegrini;

o laghi in cui i monti immacolati
flettono la purezza d'innocenti
culmini ornati di perpetuo sfagno;

laghi dove i crepuscoli rosati
muoiono lenti sanguinolenti
come in immensi specchi senza stagno.


(Da "Le fiale")

giovedì 13 luglio 2017

"Nel cielo soffii di deserto passano": l'estate in venti poesie italiane pubblicate tra il 1900 ed il 1919

Il primo ventennio del XX secolo fu caratterizzato, inizialmente, dall'ultima fase della Belle Époque: periodo considerato tra i più felici della storia dell'umanità, soprattutto per i progressi che si ebbero nel campo scientifico. Ma dopo appena tre lustri del secolo nuovo, ecco una devastante guerra che coinvolse un numero sterminato di soldati, molti dei quali, tra il 1914 ed il 1918 (data d'inizio e fine della Prima Guerra Mondiale), trovarono la morte. Quindi gli anni duri e difficili del dopoguerra che, purtroppo, in Italia culminarono con l'avvento della dittatura fascista. Le poesie qui presenti non toccano questi argomenti, ma si limitano a descrivere dei momenti, più o meno intensi, più o meno memorabili, vissuti durante le estati del ventennio citato. I poeti, in maggioranza, sono poco più che sconosciuti al grande pubblico; ma le loro poesie non sono da buttare e magari, potrebbero rappresentare un'occasione per far riemergere, da questo lontano passato, qualche scrittore ormai del tutto dimenticato.



BALLATA DELLE FALCI
di Guelfo Civinini (1873-1954)

Discorron piano sotto al vecchio melo
gli uomini: di lontano un cane abbaia.
Falci d'argento splendono su l'aia,
un'altra d'oro è pendula nel cielo.

Le belle falci che argentò il lavoro
han già tagliato per tutta la valle
la mèsse d'oro, ed ogni spiga è piena:
su l'aia sgorgherà come un tesoro
sotto lo scalpitar delle cavalle
che l'uomo al giro della corda infrena.

Sul colle dove l'aria è più serena,
fra i peschi e i meli vagola una coppia.
«Ti ricordi che fuochi nela stoppia?»
Ma chiamano pel vespero quieto:
«Rosa! Guglielmo!» ed: «Eccoci!» risponde
una voce. O che fanno nel frutteto?
Mangian le pesche? Luccican le fronde
sotto la falce pendula nel cielo.

(da "L'urna", Alighieri, Roma 1900)




BALLATA
di Ettore Botteghi (1874-1900)

Come nacque? da un fuoco alto d'ebbrezze
o da una voluttà spirituale,
o da un gran frullo d'ale,
o da una festa calda di carezze?

Se questa dolce nascita Tu sai,
dimmelo, o purità,
ora che stridon già
le cicale nel folto ed arde il sole.
Dimmi perché più bella ora ti fai,
ora che il sole va
per l'ampia azzurrità,
e fioriscono qui rose e viole,
e son più dolci assai le tue parole?
Come nacque? la spiaggia ha nel candore
pie canzoni d'amore,
e ci carezzan qui lievi le brezze.

(da "Poesie", Tip. Valenti, Pisa 1902)




PUR CHE TUA LUCE...
di Italo Dalmatico (1868-?)

Pur che tua luce fervida consenta,
o benefico sol bianco d'agosto,
il succo ne la botte ampia deposto
una forza novella oggi tormenta.

Spuma ne i tini la vendemmia e tenta
le nari e il capo odor acre di mosto,
quando, per tua virtù, sole, scomposto,
il sangue de la pia vite fermenta.

Canta e schiaccia le miste uve co 'l piede
tinto il villano e sente ampia da sotto
l'onda del vino gemere novello:

e caldo sangue de la terra ei vede
schizzar dal nero grappolo, ridotto
sotto la forza del muscolo snello.

(da "Juvenilia", De Schönfeld, Zara 1903)




LA TENZONE
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

O Marina di Pisa, quando folgora
il solleone!
Le lodolette cantan su le pratora
di San Rossore
e le cicale cantano su i platani
d’Arno a tenzone.

Come l’Estate porta l’oro in bocca,
l’Arno porta il silenzio alla sua foce.
Tutto il mattino per la dolce landa
quinci è un cantare e quindi altro cantare;
tace l’acqua tra l’una e l’altra voce.
E l’Estate or si china da una banda
or dall’altra si piega ad ascoltare.
È lento il fiume, il naviglio è veloce.
La riva è pura come una ghirlanda.
Tu ridi tuttavia cò raggi in bocca,
come l’Estate a me, come l’Estate!
Sopra di noi sono le vele bianche
sopra di noi le vele immacolate.
Il vento che le tocca
tocca anche le tue palpebre un po’ stanche,
tocca anche le tue vene delicate;
e un divino sopor ti persuade,
fresco ne’ cigli tuoi come rugiade
in erbe all’albeggiare.
S’inazzurra il tuo sangue come il mare.
L’anima tua di pace s’inghirlanda.
L’Arno porta il silenzio alla sua foce
come l’Estate porta l’oro in bocca.
Stormi d’augelli varcano la foce,
poi tutte l’ali bagnano nel mare!
Ogni passato mal nell’oblio cade.
S’estingue ogni desio vano e feroce.
Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce;
quello che mi toccò, piú non mi tocca.
È paga nel mio cuore ogni dimanda,
come l’acqua tra l’una e l’altra voce.
Cosí discendo al mare;
cosí veleggio. E per la dolce landa
quinci è un cantare e quindi altro cantare.

Le lodolette cantan su le pratora
di San Rossore
e le cicale cantano su i platani
d’Arno a tenzone.

(da "Alcyone", Treves, Milano 1904)




CANICOLA
di Cesare Rossi (1852-?)

Deh come da le viscere intime ardi,
terra arida, giallastra e sitibonda,
quale ardesti a i Crociati ed a i Lombardi.

Deh come tutti e tronchi e gambi e steli
tendono a l'alto a la benefica onda
di che pur sono palpitanti aneli.

Onde a me par d'esser sensibil fusto,
che metta rami per incantamento,
e da l'orrendo solleone adusto

soffra, o povera Terra, il tuo tormento.

(da "Intermezzo agreste", Balestra, Trieste 1904)




MEDITAZIONE ESTIVA (SUL DAVANZALE)
di Giuseppe Altomonte (1889-1905)

Come sepolta in polvere d'argento
nel mattin tardo stendesi la via;
l'anima beve per un gran fermento
nel mar di luce che il bel Sole invia.

E il dïurn'Astro che giammai ha spento
in vêr ponente i suoi cavalli avvia...
O sol che vai pel terso firmamento,
dona, oh, dona un tuo raggio a l'alma mia!

Donami un raggio. E quando il falso andare
compisci, e vien la notte, e l'ombre adduce,
e ammanta l'alma del suo negro velo,

quel raggio almen per le tenèbre amare
fiaccola ardente fia, l'unica luce
che mi permetta di fissare il cielo.

(da "Canzoniere minuscolo", Garofalo, Bitonto 1905)




ULTIMA ESTATE
di Luigi Orsini (1875-1954)

Muore segnata da stormi 
d'uccelli grigi l'estate,
mentre fra nubi affocate
migrano larve difformi.

Mutan colore le cose,
dal mare a l'ombre del bosco,
per vestir quello più fosco
che un mago ignoto compose.

Alto, con guizzi di spola,
solcano lividi lumi:
i ponti legano i fiumi
con grandi nastri viola,

e per il cielo terribile
cui neri fendono i pioppi,
rotola e romba fra scoppi
un cupo carro invisibile.

Già de l'autunno precoce
rompono i nembi crucciosi:
già i contadini ansiosi
si fanno segni di croce;

ma un dolce cuore si frange
contro tristezze più amare:
c'è, dietro i vetri, a guardare,
un bianco volto che piange.

Vede ne l'acqua che scema,
righe d'un pianto fatale
quasi un'angoscia mortale
da tutto il cielo le sprema;

e il suo dolore infinito
con quell'affanno s'accorda
poi che il passato ricorda
e un caro amore sfiorito.

Geme fra tanto l'estate:
«muore ogni cosa più bella!»
Lungi verdeggia una stella
fra poche nubi affocate.

(da "I canti delle stagioni", De Mohr, Milano 1905)




ESTATE
di Mario Venditti (1889-1964)

  Dicesti: - Il sol d'agosto m'ha bruciate
tutte le rose de 'l roseto antico...
E dopo averle a 'l zefiro sfrondate
da la veranda: - Sol, ti maledico,

sole - imprecasti - che le fai morire!

  Ed io, fra tanto, che le disseccate
rose cadute ne 'l viale aprico
raccolsi, perché avevano sfiorate
le tue manine: - Sol, ti benedico,

- dissi - o bel sole che le fai morire!

(da "Albente coelo", Perrella, Napoli 1906)




NOTTE LUNARE
di Achille Leto (1870-1963)

Su pe' silenzi della notte estiva
erra la luna. Cade dalla torre
nitidamente l'ora fuggitiva,
     l'ora che corre.

E intorno tace la campagna ai colli:
dormon le case: nel sereno albore
perdesi a volo l'anima su molli
     ali di fiore.

(da "La tibia", Spinnato, Palermo 1908)




LA VIA
di G. A. Sanguineti (?-?)

Bello è nel meriggio infocato
andar sotto il fervldo sole
sentendo le arcane parole
de l'anima.... Manda il selciato

un caldo rimbatto a i pensieri
fermi ne la solenne fronte,
solenne come un ermo fonte
rinchiuso da macigni neri.

Son fermi i pensieri, statuari;
il sangue nel cuore ristagna;
o cuore, perché non più bagna
le vene con palpiti vari?

Or più nou ritrovo la vita
mia, spersa nel sole fulgente,
nel vasto splendore lucente
dal petto socchiuso è fuggita:

il sole risplende, fiammeggia
con un desìo caldo ed acuto
e pur la mia vita à voluto
ne l'alta, infocata sua reggia;

ma ancora lo sento, è più forte
la sento. Ed insieme col sole
la vivo, siccome il Dio vuole
che disse: Divine ed assorte

potenze ài nel petto, o mio figlio,
che disse: va, pensa, combatti
e avanza! per te sono intatti
gli allori, se vinci ll periglio.

Bello è nel meriggio solare
andar col suo destino ardente,
andar per la strada silente,
che il Fato fu pronto a segnare!

(da "Il sorriso della sfinge", Montorfano e Valcarenghi, Genova 1909)




ESTATE D'OLTRARNO
di Giannotto Bastianelli (1883-1927)

I palazzi che somigliano a un convento
con gli spaziosi
cortili ombrosi
e le statue del seicento,

con le loggie aperte al vento fiesolano
e gli orti pieni
di fruscìi leni
e di sole meridiano;

le ampie chiese fresche e bianche - di calcina,
cui ripercuote-
si nelle vuote
volte ogni urto delle panche;

le botteghe d'antiquari - luccicanti
d'armi, pugnali,
croci, messali
e d'argentei reliquarî;

le viuzze silenziose - come quelle
disabitate
delle borgate
di provincia, e in cui, rissose,

voli intrecciano le rondini, calando
fulminee e gaie
dalle grondaie
ed il cielo rimbalzando;

tratto tratto il fresco soffio del maestrale
pien di lontane
voci, campane,
e d'un vago odor rurale...

... - O l'estate di Firenze erma d'oltrarno,
l'estate placida
cui rara infradicia
qualche pioggia afosa indarno!

Dolce este, tutta sole, e un poco mesta
che ovunque spande
la pace grande
che àn gli stanchi dì di festa!

lente l'ore passan come ombre di nuvole
sui campanili
alti e sottili
e sui tetti e sulle cupole.

Vien la notte. Il plenilunio allaga lenta-
mente i palazzi
gli orti, gli spiazzi
di freschezza sonnolenta,

mentre su, dalle assicelle dei balconi
scende l'odore
dei vasi in fiore
di geranio e di garofano.

(da "Dal terzo libro di poemi e musiche", Tip. Pulini, S. Giovanni Valdarno 1910)




L'ULTIMO FIENO
di Emanuele Castelbarco (1884-1964)

Come l'odor del fieno in fin d'agosto,
quando la falce miete l'ultima erba,
è acuto e tenue. Forse in sé nascosto
un ricordo e un rimpianto a noi riserba.

È nel fondo di lui vano un desio
per la lontana morta primavera,
come d'un dolce amor l'ultimo addio
in un'anima amante, che dispera.

(da "Pei sentieri della vita", Baldini Castoldi & C., Milano 1910)




FINE D'AGOSTO
di Francesco Gaeta (1879-1927)

Declina agosto: il sonno hai tu pesante,
simile ancora a 'l sonno d'un infante
cui fiaba son la notte e la civetta
ne 'l viso donna, il resto gallinetta,
ed, a lui presso, il vigile lumino
che se ne muor ne i raggi del mattino.

Domani rivedrai, di nuovo desta,
di pesche e di cocomeri una festa,
appena de i colombi il primo volo
coroni l'orologio torraiolo,
e il gallo risaluti il fresco albore,
solare uccello la cui testa è un fiore.

Sol io stanotte, sveglio, a 'l limitare
de l'orizzonte vidi già spuntare
l'autunno con sue stelle, e su i fanali
per le gole de i vichi e su i mortali,
triste, ma più ne 'l suo presentimento,
mettere un vago brivido ne 'l vento.

(dalla rivista «La Riviera Ligure», novembre 1911)




AFA
di Corrado Govoni (1884-1965)

Nel cielo soffii di deserto passano,
la sera violacea viene;
nel giardino le belle rose muoiono
olimpicamente serene.

E là nei campi di frumento plumbeo
si sentono orrendi fragori;
come uccellacci d'inferno fantastici
svolazzano rossi bagliori.

È lo scoppio dell'uragano. Franano
le nere valanghe del tuono;
la pioggia che rimbalza sulle tegole
produce un dolcissimo suono.

Fulminei nel cielo si stiracchiano
diabolici metri di fuoco;
sopra zuffe di nuvole si squassano
bandiere stracciate di croco.

Passa la raffica. Sul fienil madido
lucente d'un rosso più vivo
all'improvviso s'apre il fresco circolo
dell'arcobaleno sportivo.

Ma non è pace; se quassù è già limpido
e stemprasi l'arco, sottile,
laggiù come uno spegnitoio livido
profilasi il bel campanile.

ed un oscuro all'orizzonte seguita
percorso da un sordo romore,
come in un cuor che ha perdonato restano
residui di amaro livore.

Sul cimitero spensierato, tremule
s'accendon le stelle incorrotte,
s'accendon le fosforescenti lucciole,
e cade la splendida notte.

Oh dolce spalancar le imposte al turbine
e prima di mettersi a letto
indugiarsi col vento in faccia a attendere
danzare laggiù sopra un tetto

le incandescenti vertebre dei fulmini
e chiudersi e aprirsi nei campi
su panorami candidi di nuvole
le brecce turchine dei lampi!

(da "Poesie elettriche", Ed. Futuriste di "Poesia", Milano 1911)




UN'ESTATE...
di Riccardo Bacchelli (1891-1985)

Un'estate, che d'estate son i tramonti lenti,
pesante quant'il sonno e la stanchezza medesima,
non avrei voluto altro che riposare, se fosse stato
possibile. Non reggeva più neppure la voglia
amara d'inasprire in me stesso il mio male.
Non avrei voluto cedere in nulla, ma invece
mi toccava assopirmi al sole in materia
stanca. E dalla stanchezza un filo di melodia.
Supino, ombre e sole, foglie
e cielo, silenzio e cicale. Le mani
le abbandonavo sull'erba riarsa, si tuffava
nell'estate l'anima e tornava d'ogni parte
carica d'ogni cosa, non articolava, non distingueva,
tornava stanca. E non poté credere a sé stessa
la mattina che le filtrò un'estatica canzoncina...

(da "Poemi lirici", Zanichelli, Bologna 1914)




TORREFAZIONE
di Luciano Folgore (1888-1966)

Piazza di vetro ardente,
sollevata di colpo
negli alti forni del sole.
Papaveri di luce 
avanti alle pupille. 
Spille nel sangue. 
D’intorno le case, 
affondate 
nei marciapiedi 
liquefatti dal caldo. 
Camminare evitando 
colonne ubbriache di rosso, 
sfondare col petto 
semicerchi di solleone, 
e invidiare l’ombra di un ragnatelo 
ad un insetto addormentato. 

(da "Ponti sull'Oceano", Ed. Futuriste di "Poesia", Milano 1914)




NOTTURNINO DEI BASTIONI DEMOLITI
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Quando la notte calda urge i viali
della città, pochi alberi schierati
sono testimoni d'anime con ali.

Amanti passan lenti estasiati:
bevon frescure che non son per l'aria
e fanno cose che non son peccati.

Io, dalla mia finestra solitaria,
guardo: e prego il Signor per i mortali
a cui la bella notte è necessaria.

(da "Bel canto", Studio Editoriale Lombardo, Milano 1916)




CORTILE
di Giuseppe Lipparini (1877-1951)

Un fandango di Granados mi tempesta nel cervello;
invece è l'organetto giù nel cortile
con le ragazze e i bimbi che ballano e schiamazzano.
Meriggio caldo di estate dopo la pioggia,
raggi obliqui di sole sulle pozzanghere,
spruzzi di mota alle gonne delle ballerine.
Stracci variopinti tesi ai balconi
come note sospese sul ritmo della danza.
Una ragazza bruna in camicetta azzurra
canta e occhieggia tra i gerani
rosei rossi purpurei violacei paonazzi,
poi si spoglia e si getta nuda sul letto
tendendo l'anca tonda alla musica che circola.
A una finestra pendono le poppe
flaccide di una donna che si pettina.
Un secchio di rame oscilla
impiccato sull'orlo verde del pozzo.
Gabbie di canarini gialli
presso al merlo che fischia e che impazza.
E il fandango strepita e salta
con le coppie che sudano e si affannano,
e tutto il cortile rotola con lui,
salto mortale dell'afa meridiana
verso la frescura azzurra dell'infinito.

(da "Stati d'animo ed altre poesie", Zanichelli, Bologna 1917)




BIBITA AL GHIACCIO
di Arturo Onofri (1885-1928)

   Sotto le foglie accese della pergola, vedo rilucere i tuoi occhi verdi, come due frutti dolcemente acquosi nella fiera maturità dell'estate.
   Incurante la tua mano, dove un raggio tra la verdura sveglia dai gioielli uno straziato sorriso, scherza con la paglia dorata della ghiacciata come con un filo di sole spezzato per giuoco; e la curva di polpa delle tue labbra infantili si distende un attimo appena, nell'ombra azzurra del cappellino, svegliando dai tuoi denti di perla un assopito sapore di golfi lontani e di sangue.
   Che strana orgia di contentezza guardarti!

(da "Orchestrine", Libreria della "Diana", Napoli 1917)




NOTTE DI S. LORENZO
di Francesco Meriano (1896-1934)

Stelle a casaccio pel cielo d'estate,
stelle a manciate - un po' d'oro e d'argento -
oasi tropicali profumate
nel deserto notturno senza vento.

(da "Croci di legno", Vallecchi, Firenze 1919)


Angelo Torchi, "Grano al sole"

domenica 2 luglio 2017

Antologie: I poeti della Scuola romana (1850-1870)

È, questa, un'antologia singolare, visto che il curatore può definirsi un rappresentante del gruppo poetico protagonista del libro. Domenico Gnoli, quando uscì il volume, aveva settantacinque anni e da molto tempo ormai non pubblicava più nulla. Eloquente, interessante e bellissimo è l'incipit del suo saggio di presentazione con cui si apre questa antologia. Eccone un passo:

«È una visita ad un piccolo camposanto, lontano, ombroso, solitario, senza lacrime e senza fiori, dove riposano da tempo pressoché immemorabile i miei parenti ed amici! Quasi tutti morirono giovani o toccata appena l'età matura; e rileggendo sulle lapidi i loro nomi, mi vien fatto di ricercare sopra alcuna di esse anche il mio, come quello di una persona morta già da gran tempo insieme co' miei più cari; e mi par quasi ch'essi si meraviglino e mi facciano rimprovero che io, compagno dell'attività e della vita, sia sfuggito al loro riposo, per cacciarmi innanzi tra le file di nuove generazioni.
La cosiddetta "Scuola romana" è una cosa dimenticata, di cui non rimane vestigio che nella memoria mia e di pochi altri, un oggetto dei nonni rimasto in fondo ad un vecchio armadio. Benedetto Croce accennava alla «non gloriosa scuola romana, una scuola poetica inferiore perfino alla napoletana dello stesso periodo, e non superiore a quella siciliana». Io non sono in grado di far quei confronti, ma noto solo che della produzione romana sparsa in raccolte e volumetti, parte dei quali non sono forse mai usciti di Roma e quasi introvabili, non è facile dar sicuro giudizio con piena cognizione di causa». [...]

In effetti la "Scuola romana", nell'ambito della poesia ottocentesca italiana non è stata mai troppo considerata, venendo sempre relegata tra la produzione in versi meno innovativa che si rifaceva al Leopardi idillico e quindi meno rivoluzionario. Tutto ciò è vero, ma non significa che da questo cenacolo di poeti capitolini non siano nati dei versi di rara bellezza; disimpegnati, arcadici e fuori del tempo forse, ma gradevolissimi alla lettura. In particolare si distinguono, nel folto gruppo qui selezionato, i due fratelli Giambattista e Giuseppe Maccari; entrambi morti precocemente, di loro esistono pochi volumetti di versi, alcuni dei quali uscirono postumi. Anche se lo Gnoli pone come confini cronologici dell'attività poetica di questo gruppo il ventennio compreso tra il 1850 ed il 1870, in realtà il meglio si potrebbe racchiudere nel periodo che va dal 1856 al 1869 (gli anni coincidono con la pubblicazione della prima e dell'ultima opera poetica di Giambattista Maccari).
Questa antologia, insieme ad un'altra curata da Ferruccio Ulivi ed uscita ben cinquanta anni dopo, è utilissima per non dimenticare e, anzi, riscoprire i versi semplici e a volte notevoli di questi poeti romani attivi nel cuore del XIX secolo. Ecco infine l'elenco degli scrittori presenti nel volume.



I POETI DELLA SCUOLA ROMANA (1850-1870)


Giuseppe Bustelli, Augusto Caroselli, Guido Carpegna, Paolo Emilio Castagnola, Luigi Celli, Ignazio Ciampi, Pietro Cossa, Domenico Gnoli, Elena Gnoli, Teresa Gnoli, Luigi Lezzani, Giambattista Maccari, Giuseppe Maccari, Basilio Magni, Achille Monti, Fabio Nannarelli, Ettore Novelli, Ludovico Parini, Carlotta Marcucci Parini, Giovanni Torlonia.