mercoledì 30 luglio 2014

Poeti dimenticati: Guido Ruberti

Nacque a Roma nel 1885 e ivi morì nel 1955. Sono poche le notizie che riguardano la sua vita: è noto che si laureo in legge, che in gioventù scrisse e pubblicò versi frequentando il cenacolo di poeti romani molto vicini a Sergio Corazzini; infine si dedicò all'attività di critico teatrale. Le due raccolte poetiche pubblicate da Ruberti evidenziano una simpatia nei confronti della poesia parnassiana e un gusto che si rifà ai classici latini. Non sono assenti elementi che lo accomunano alla lirica crepuscolare, in particolare a quella dell'amico Corazzini. 



Opere poetiche

"Le fiaccole", Roux & Viarengo, Roma-Torino 1905.
"Le Evocazioni", Casa Editrice Centrale, Roma 1909.





Presenze in antologie

"I crepuscolari", a cura di Nino Tripodi, Il Borghese, Milano 1966 (pp. 397-405).
"I crepuscolari", a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 337-344).
"Neoidealismo e rinascenza latina tra Ottocento e Novecento", a cura di Angela Ida Villa, LED, Milano 1999 (pp. 584-609).



Testi

ALLA SOGLIA

Oggi passai, Marcella,
innanzi all'antica tua casa
e le memorie come un flutto
di un subito han l'anima invasa.
Ahi quanto il tempo ha distrutto
dal primo tuo amore,
dalla mia ribellione!...
Fissato ho il vecchio balcone
senza rancore.
Dove se' or tu, bambina?
Mi sembra ch'io debba vederti
spuntar di sotto la tendina
tra i vasi dei rossi gerani,
agitar le piccole mani
o il leggiadro grembiale
ne' brevi segni occulti...

Di fronte, lassù pel viale,
dai filari dei virgulti
a quando a quando una morta
gialla foglia si stacca.
A grandi mucchi le foglie
giaccion su la terra smorta:
autunno! autunno! le tue spoglie
dorate, il tuo virile casco
già cedon al punger della brezza!

La giornata è grigia; ha una tristezza
dolce e pensosa, una lontana
chiarità indefinita:
sei tu dunque partita?
sei tu dunque perduta?
E nulla del passato ti resta,
come a me, nel vecchio cuore?
E la scorsa vita una molesta
pagina di un libro obliato
ti sembra? Pure tutto è stato:
l'amor defunto, l'oblianza;
come la sottile fragranza
di un peccato che non ha ritorno,
l'Autunno dolce, il vecchio giorno,
la soglia appena intravveduta,
la piccola veranda muta
e chiusa sotto il ciel piovorno.


(Da "Le Evocazioni")

sabato 19 luglio 2014

Gli animali in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo (III)

RAGNO
di Sandro Baganzani (1889-1950)

Quel ragno nel fondo del secchio
da giorni da giorni da giorni
non vuole morire.

Da giorni da giorni da giorni
mi fissa dal fondo del secchio,
non vuole morire.

Tu dici: «Perché vuoi lasciarlo morire
quel ragno nel fondo del secchio?»

Allora quel ragno villoso
per te, senza un brivido,
adagio lo aiuto a salire
dal fondo del secchio.

Ma tu, pietosa del ragno,
non vedi chi resta nel fondo del secchio.

(Da "Poesie scelte", Edizioni di «Vita veronese», Verona 1951)





CARO PICCOLO ANATROCCOLO
di Claudio Damiani (1957)

Caro piccolo anatroccolo
adesso è notte, tu ti sei addormentato,
ti sei messo non so se sull'acqua o a terra sulla riva
forse tra le canne nascosto, tra le foglie secche.
Hai chiuso gli occhi, piccolo tesoro,
hai visto la sera venire,
prima farsi rosea la luce poi diventare buio,
un refolo di vento s'è alzato, l'hai sentito?
ed ecco le cose erano diventate nere,
hai sentito tiepide le pietre della riva,
hai avuto paura di qualcosa, non so di cosa,
ma poi hai giocato con una foglia,
col becco volevi affondarla nell'acqua.
Le mani del mio amore erano lontane dalle tue piume,
non ha potuto vederti, non ha potuto baciarti,
ma un dolce sonno è sceso nei tuoi occhi
e ti sei addormentato,
non so se sull'acqua, o a terra sulla riva.

(Da "La miniera", Fazi, Roma 1997)





IL CAVALLO BIANCO
di Filippo De Pisis (1896-1956)

Nella sericcia mite del giorno di festa
curvo nel sacco afflosciato per terra
un cavallo bianco
mangia il suo fieno
dopo le lunghe corse
in pace, lento.
Il collo curvo descrive un arco patetico.
Nella penombra, più indietro
sdraiato nel landeau, il vetturale
sonnecchia, scuro sulla tela bianca.
Su tetti taciturni,
la luna tonda, naviga
in una sua blanda felicità.
Mi fermo a guardare di lontano
ed una tenerezza antica
mi lega a questa cara bestia stanca.

(Da "Poesie", Vallecchi, Firenze 1942)





IL CAPRIMULGO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Tornerà sempre l'ironia serena
del sortilegio sulle tue corolle,
fiore disfatto.
E tu che voli e piangi
stridendo coi tuoi grandi occhi oscuri,
o caprimulgo dalle piume molli,
il buio sempre ingoierà la notte
delle farfalle nere, le lucenti
blatte in cui l'uomo misero rattrae
le mani e gli occhi a rispettarle,
umane della pietà per sé.
Per la scala degli inferi discende
il consenso perenne, l'ordinata
congrega delle vittime plaudenti.

O misura dell'uomo in sé dipinto
costretto oltre la morte, mummia salva
a schermo delle mani,
a non aver più limiti, distratta
è la forza latente, il bruco insonne
della materia che ci traccia e insegue.

Un fenomeno oscuro il divenire
l'enfasi sorda che alle sue parole
non crede più, ma giura. Ancora scende
questa scala degli inferi e l'informe
che chiede un senso smania di figure.

(Da "Osteria flegrea", Mondadori, Milano 1962)





DELFINI
di Angiolo Orvieto (1869-1967)

La nave sull'onde sobbalza.
La torma dei cani marini,
dei lievi delfini
la incalza.
La seguon con l'arcobaleno.
Tempesta di cielo sereno!
Con l'arcobaleno raggiante
sull'onde solenni rinfrante
in polvere di diamante.

(Da "Verso l'Oriente", Bemporad, Firenze 1923)





L'USIGNOLO NEL CLAUSTRO
di Renzo Pezzani (1898-1951)

L'usignolo nel claustro
pieno il cuore ha di racconti
e li specchia in cupe fonti
chiuse in coppe d'alabastro.

Col suo canto ricco d'ala
batte ai vetri delle celle
ed inebria le stelle
come una dischiusa fiala.

E tu ascolti, anima mia,
ingemmata del tuo credo,
ciò che in te versa l'aedo
d'un'ignota liturgia.

(Da "L'usignolo nel claustro", Alpes, Milano 1930)





SCENDEVANO UN TEMPO
di Lucio Piccolo (1901-1969)

Scendevano un tempo dai sentieri
delle montagne con lenta andatura
le grandi mule, le mule bianche
fra siepi di cisto, fra siepi di prugno
coi colmi panieri di felci incurvate
e l'aria di giugno portava alle labbra
mosti spumanti di frutta ignorate
- da cima a pianura su l'aia
che avanza dal colle snodava
nastro d'invisibile danza -
Ma poi si dispersero i contorni
delle fresche figure nel muovere tardo
dell'eguale rosario dei giorni,
e ancora: fu buio, che muta
la scena e sui marosi attendiamo
sorgere le statue dorate
le torri incantate...
Ma oggi un respiro che varia
le tempre della luce m'ha detto
che da la china dei monti le bianche
mule sempre scendono, sempre l'aria
di giugno che schiuma i canneti
scuote su la sabbia dei greti
tremula piuma di fonti.

(Da "La seta e altre poesie inedite e sparse", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1984)





PER UN CANE
di Antonia Pozzi (1912-1938)

Sei stato con noi per undici anni. 
Una sera siamo tornati: 
eri disteso davanti al cancello, 
il muso nella polvere della strada, 
le zampe già fredde, il dorso 
tepido ancora. 
Ora sei tutto 
nella buca che ti abbiamo scavata. 
Ma gli undici anni 
della tua umile vita, 
il gemere 
per ognuno che partiva, 
il soffrire di gioia 
per ognuno che ritornava 
– e verso sera 
se qualcuno 
per una sua tristezza 
piangeva 
tu gli leccavi le mani: 
lo guardavi 
e gli leccavi le mani – 
oh, gli undici anni 
del tuo muto amore 
tutto qui 
sotto questa terra 
sotto questa pioggia 
crudele? 
Esitavi 
sulla ghiaia timida: 
sollevavi 
una zampa – tremando. 
Ora nessuno ti difende 
dal freddo. 
Non ti si può più chiamare. 
Non ti si può più dare 
niente. 
Solo le foglie fradice morte 
cadono su questo pezzo 
di prato. 
E pensare che altro rimanga 
di te 
è vietato: 
di questo il nostro assurdo 
pianto si accresce.

(Da "Parole", Garzanti, Milano 1998) 





PER UNA TARTARUGA
di Francesco Tentori (1924-1995)

Tartarughina, tu
dallo sguardo sagace di chi ha visto
scorrere epoche e vite
che ricordi del tempo che mia madre
gettava ombra, non ancora un'ombra
e con sguardo sagace districava
nel fitto dell'esistere la trama
giusta per sé e per gli altri
seguendo dall'origine alla fine
il percorso del filo la scia
che ciascuno si lascia dietro
                              e aveva
il dono giusto per ciascuno e a me
dette il suo muso aguzzo ché imparassi
da te forse (ma non l'ho fatto poi)
la pazienza e il coraggio
di rifiutarmi quando è in giuoco il più?

(Da "Migrazioni", Passigli, Firenze 1997)





IL MERLO CHE TUTTO IL GIORNO...
di Diego Valeri (1887-1976)

Il merlo che tutto il giorno ha saltato
tra l'erba alta e a pie' dell'irta siepe,
ora che scende la sera
è volato sul ramo alto del pero.
Di lassù guarda il mondo che si oscura,
e fischietta sommesso
come parlasse a se stesso.
Certo è salito sull'albero
per prendersi l'ultimo sole.
Ma sole non c'è già più, né giorno.
Il merlo si rituffa nell'erba:
piccola ombra nera nell'ombra verde.

(Da "Calle del Vento", Mondadori, Milano 1975)

lunedì 14 luglio 2014

L'erotismo nella poesia italiana decadente e simbolista

L'erotismo è un elemento assiduo nei versi dei poeti simbolisti e vuole esprimere la vita nella sua massima fisicità. Sempre e soltanto attraverso il corpo femminile si estrinseca questa pulsione che suscita sentimenti di estrema passionalità, i quali a loro volta, in alcuni casi, assumono aspetti mistico-esoterici. D'altra parte, la sensualità suscitata dalla visione di una donna affascinante è qualcosa che, per molti poeti, possiede componenti misteriose; da ciò è facile per alcuni di essi tramutare le figure osservate in vere e proprie divinità che a volte assumono aspetti pagani, a volte invece si rifanno ai simboli classici della cristianità (primo fra tutti quello della Madonna).



Poesie sull'argomento 

Ugo Betti: "Serenata dell'orco" in "Il Re pensieroso" (1922).
Giovanni Camerana: "Io sarei là, in ginocchio, a contemplarla" in "Poesie" (1968).
Ricciotto Canudo: "Il Fiore piacente" e "L'Iniziazione" in "Poesia" n. 9/12, 1906.
Enrico Cavacchioli: "Canto di una sera di languore" da "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Ebe" in "Poesie" (1912).
Arturo Colautti: "L'Amante" in "Canti virili" (1896).
Girolamo Comi: "Denuda le libidini tue molli" in "Lampadario" (1912).
Edmondo Corradi: "L'udii parlare in sogno, e la parola" in "Nova postuma" (1904).
Cosimo Giorgieri Contri: "Ridesta" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).
Corrado Govoni: "Caffè-concerto" in "Poesie elettriche" (1911).
Luigi Gualdo: "Storia di mare" in "Le Nostalgie" (1883).
Virgilio La Scola: "Seduzione" in "La placida fonte" (1907).
Gian Pietro Lucini: "Li Amanti" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Gian Pietro Lucini: "La collana" in "Poesia", marzo 1908.
Gian Pietro Lucini: "Di «Un Pomo»" in "Le antitesi e le perversità" (1971).
Gesualdo Manzella Frontini: "Monaca" in "Le rosse vergini" (1905).
Tito Marrone: "Serenata nuziale" in "Cesellature" (1899).
Marino Moretti: "Diva" in "Poesie 1905-1914" (1919).
Arturo Onofri: "Chi è questa improvvisa dea che appare?" in "Terrestrità del sole" (1927).
Nino Oxilia: "Ecco, del seno tra le eburnee sponde" e "S'è addormentata nuda sul divano" in "Canti brevi" (1909).
Enrico Panzacchi: "Est dea..." in "Poesie" (1908).
Giuseppe Piazza: "Euriale" in "Le eumenidi" (1903).
Romolo Quaglino: "Le etere strette in vesti di broccato" in "I Modi. Anime e simboli" (1896).
Romolo Quaglino: "Antica e nova" in "Cibele Madre" (1903).
Romolo Quaglino: "Il segreto" in "Poesia" n. 12, 1906.
Emanuele Sella: "Trittico della voluttà d'amore" in "Monteluce" (1909).
Teofilo Valenti: "La donna del serpente" in "Le Visioni" (1906).
Giuseppe Villaroel: "Ninfa" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).



Testi

DENUDA LE LIBIDINI TUE MOLLI
di Girolamo Comi

Denuda le libidini tue molli
innanzi ai miei desiri sofferenti,
pungi l'inerzia mia d'acri tormenti
ed infiltrami i brividi più folli.

Perirò dei piaceri di cui bolli
musicando il fulgor dei tuoi portenti
col lusso dei miei sensi onnipotenti
e con l'oblio dell'ideal che volli.

I nostri corpi saran la fanfara
degli spasimi acerbi e dei desiri
e della voluttà spumante e rara:

e sul mare nel quale ti rimiri
risplenderà la gioventù mia cara
ripetendo in eterno i miei sospiri.

(Da "Il Lampadario")





CHI È QUESTA IMPROVVISA DEA CHE APPARE?
di Arturo Onofri

Chi è questa improvvisa dea che appare?
Occhi diafani stellano di luna
sotto il manto ondeggiante delle chiome.
Da quella bocca, che sui denti abbonda
nelle labbra imbronciate, come un fiore,
la voce non la intende altri che il mare.
Perché venne fra noi come una donna?
Quel suo piccolo capo trasparisce
di mattinate, d’angioli e di giochi,
e nel girarsi addita in sua dolcezza
che le pietre traboccano di foglie,
le flore mettono ali, e mandre brute
s’appassionano d’ansie e di pensieri.
E noi, pregando che assuma una figura
di beltà, la parola in noi rinchiusa,
ne intravediamo, come un sogno, il volto
nel modello che in lei donna respira.

(Da "Terrestrità del sole")

domenica 29 giugno 2014

L'erba nella poesia italiana decadente e simbolista

A rigor di logica, la simbologia dell'erba e del prato dovrebbe riferirsi principalmente al colore di cui si compone: il verde; quindi dovrebbe avere a che fare con la gioventù e la speranza. In verità, per i poeti simbolisti ciò non vale: si nota infatti, leggendo gli sporadici versi che vedono al centro dell'attenzione erbe e prati, una sorta d'immersione nella natura che sfiora il panismo. In casi più rari l'erba assume il significato di "anima", in altri quello di "nutrimento". È infine presente un concetto di "dolore", già caro a Giacomo Leopardi, come si evince dalla lettura di questo frammento tratto dallo "Zibaldone":

Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce miele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e bruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è róso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro.


TESTI SULL'ARGOMENTO



«È NEL MIO SOGNO...» 
di Vittoria Aganoor (1855-1910)

È nel mio sogno un prato tutto verde 
     solitario, tra due 
spalle di monte, e l'erba trema al soffio 
     dell'ombra.

Di là, nel sole, cantano, 
ma il canto va lontano e poi si perde. 
     Più solitario resta 
     e più silenzïoso, 
nel mio sogno, quel prato tutto verde.

(Da "Leggenda eterna", Roux e Viarengo, Torino-Roma 1903)





AD UN ALVEO
di Antonino Anile (1869-1943)

Alveo deserto, che sentisti lieti
i palpiti del fiume e delle vive
linfe il fragore, nudo ora a' quieti
meriggi appari delle ardure estive;

ma l'erbe, che fioriron pei tuoi greti,
son volte ancor verso lontane rive,
come se ancor sentissero segreti
avvolgimenti d'acque fuggitive.

Si piegarono l'erbe alla fiumana
irrompente così che son rimaste
volte al mar, lungo l'alveo inaridito.

Qual soffio, quale irrompere di vaste
onde travolse un dì l'anima umana
che s'è rivolta verso l'infinito ?

(Da "Sonetti dell'anima", Ricciardi, Napoli 1907)





L'ERBA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Erba che il piede preme, o creatura
umile de la terra, tu che nasci
ovunque, in fili tenui ed in fasci,
e da la gleba e da la fenditura,

e sempre viva attendi la futura
primavera nei geli orridi, e pasci
l'armento innumerevole, e rinasci,
pur sempre viva dopo mietitura,

erba immortale, o tu che il piede preme,
io so d'un uomo che gittò nel mondo
un seme come il tuo dolce e tenace;

e nulla può distruggere quel seme...
– Pensa l'Anima un carcere profondo
ove l'erba germoglia umile in pace.

(Da "Poema paradisiaco; Odi navali: 1891-1893", Treves, Milano 1893)





ERBA
di Giulio Gianelli (1879-1914)

Precorritrice dell'arborea vita
nascesti a specchio delle prime fonti,
erba che regni piani colli e monti
e ti compiaci della margherita;

da millenni ripalpiti fiorita
in ogni zona; sfumi agli orizzonti,
se nell'onda t'immergi e poi sormonti
a rivedere il sol, rinvigorita:

abbondi all'uomo come l'acqua e l'aria,
gli nutri il gregge, l'accompagni, santa,
fino alla tomba se ramingo egli erra;

sul tuo verde perenne il cielo svaria
e nello spazio ad altri mondi canta
l'eterna giovinezza della terra.

(Dalla rivista «Riviera Ligure», gennaio 1913)





L'ERBA
di Corrado Govoni (1884-1965)

Ancella solitaria, neve verde,
elemosina verde di malati
lungo le porte chiuse, sui selciati.
Oh la decapitazione verde!

Ama le bianche statue, sulle soglie
arse con le sue mille aperte gole
sospira l'acqua o scherza con il sole,
ed è bara di velluto alle foglie.

Preferisce i cortili umidi e oscuri
e i marciapiedi interni dei conventi,
dove non passa piede che la strazi:

solo rospi seduti contro i muri
si riscaldano al sole, flatulenti
come rognosi mendicanti sazi.

(Da "Gli aborti", Taddei, Ferrara 1907)





SULL'ERBA
di Arturo Graf (1848-1913)

L'erba è una buona cosa 
Per l'insetto e pel branco, 
E ancor per l'uomo stanco, 
Per l'uom che si riposa. 

Mentr'ei siede sull'erba, 
Fuor dell'usata gabbia, 
Ogni rancor ch'egli abbia 
Si smorza e disacerba. 

Mentre supino giace 
Sui flessuosi steli, 
Vede nell'alto i cieli 
E può sognare in pace. 

Si rizza a lui dattorno 
Qualche succinto fiore: 
Vive il fior poche ore; 
Vive l'uom qualche giorno. 

Una minuta plebe 
Ivi presso fatica: 
Come l'uom la formica 
Si struscia per le glebe. 

Adagio un grillo miete; 
Vïaggia nel rigagno 
Una chiocciola; il ragno 
Distende la sua rete. 

Tra' fuscelli si spalla 
Una lumaca inerme; 
Ronza un moscone; il verme 
Disprezza la farfalla. 

E l'uom che si riposa 
Sente d'esser fratello 
Del verme e del fuscello 
E d'ogni nata cosa. 

Mentr'ei giace sull'erba 
Nauseato, sfinito, 
Gli passa ogni prurito 
Ed ogn'idea superba. 

Mentr'ei stassi a giacere, 
Vede fuggir per l'aria 
L'illusïone varia 
Dalle nubi leggiere. 

Mentr'ei giace supino, 
Vede assai lunge il cielo; 
Sente, fra stelo e stelo, 
La terra assai vicino. 

(Da "Le rime della selva", Treves, Milano 1906)





L'ANSIA DELLE ERBE
di Giuseppe Lipparini (1877-1951)

Maggio, nel tuo cominciare, un giorno parlai con i fiori;
semplici fiori di campo, stellanti fra il verde: vermigli
e violetti, cerulei e gialli: corolle dischiuse
dentro la notte di luna nel palpito delle rugiade.

"Come tu porti il tuo cuore purpureo nel fondo del petto,
tale ogni filo di verde ha noi per suo piccolo cuore;
e se tu palpiti all'urto d'amore e ti vince il desio,
noi, piccole arpe, vibriamo al soffio fugace del vento.

"Ogni qual volta si appressa un uomo, tremiam di spavento;
l'ansia profonda risale gemendo dai tuberi e dalle
fitte radici; e vediamo, incontro ai tramonti infocati,
dentro a le mani callose brillare nel filo le falci.

"Onde sarà su la terra un fascio di cuori recisi.
Tu, ne la notte odorosa, ascolta il profumo che sale
dai grandi mucchi di fieno. È l'anima nostra, ch'esala
verso le stelle lontane il vano dolore dell'erbe".

(Da "L'ansia", Puccini & figli, Ancona 1913)





LA RUTA 
di Pietro Mastri (1868-1932)

Il volgo afferma che in te, ruta, sia 
una virtù meravigliosa e tale 
che, dove alligna il tuo cespuglio, vale 
a scongiurar la più nera malìa. 

(E ben io so che chi ti guarda e fiuta 
pensa ad un qualche tuo mistero, o ruta; 

pensa a certe putredini di bosco, 
a rettili disfatti, dal cui tosco 

sien germogliate le tue foglie grame 
e fetide, color di verderame !...) 

Ond' io ti vedo, o ruta, al davanzale 
d'umili case, in qualche oscura via: 
ma la sventura ti fa compagnia, 
e sale e scende per le anguste scale. 

(Da "L'arcobaleno", Zanichelli, Bologna 1900)





MENTRE IL VERDE IN RECLUSA ERBA S'AFFANNA
di Arturo Onofri (1885-1928)

Mentre il verde in reclusa erba s'affanna
per salir su dal prato, e dilatarsi
in archi blu, da ripioverne in manna
d'oro sui propri frutici giù sparsi;
      piomba sul mio silenzio
      l'astro che ha nome Assenzio.

Un lembo del futuro si delinea
dallo squarcio che s'apre all'occhio interno;
e al colpo d'una spada rettilinea,
odo il suolo bollir d'un fuoco eterno,
      nel sangue mio, che vuole
      già ringoiare il sole.

Calmati, o sangue impaziente! Aspetta
che il Nome sia santificato, e il Regno
del Padre venga a far l'alta vendetta
cosmica, onde, per ora, non sei degno
      di ringoiare in te
      il sole del tuo Re.

(Da "Terrestrità del sole", Vallecchi, Firenze 1927)





I PRATI DI GESÙ, V
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

È una perpetua continua processione
di centomila persone
ogni giorno, che a quel prato
s'aggiran torno torno
per ore e ore.
Centomila persone
che s'intrecciano, s'incontrano,
si guardano, s'inchinano,
senza far romore.
Il più assoluto silenzio
deve regnarvi attorno, giro giro,
si deve potere udire un respiro.
Nel mezzo del prato
c'è un uomo addormentato,
c'è sempre stato.
La gente è sempre stata
nella più grande ammirazione,
giro giro, tondo tondo,
da che mondo è mondo.
Tutti ammirano perplessi
quell'eterno placido sonno,
tutti colla massima devozione,
ogni giorno centomila persone.
L'uomo è là, nel mezzo del prato,
steso in mezzo addormentato,
sempre giovine uguale, sempre biondo,
sempre colla sua veste
bianca di candore.
Dorme colla più gran tranquillità
il più bel sonno del mondo,
forse per l'eternità.
La gente giro giro
sta fissa ad ammirare
l'alzarsi e l'abbassarsi di quel petto,
sta in orecchi per udire
il placido respiro.

(Da "Poemi", Tip. Aladino, Firenze 1909)





SIMILITUDINE
di Mario Venditti (1889-1964)

In mezzo all'erbe sfolte
agonizzano al sole
tutte quelle viole
che non furono colte.

Ed hanno la tristezza
di giorni non vissuti,
di baci non goduti,
di non dette parole
d'amor - quelle viole
che non furono colte
e che, prive di brezza,
morran tra l'erbe sfolte.

(Da "Il terzetto", Parrella, Napoli 1911)

giovedì 26 giugno 2014

Poeti dimenticati: Francesco Cazzamini Mussi

Francesco Cazzamini Mussi nacque a Milano nel 1888 e morì a Baveno (Novara) nel 1952. Amico di Marino Moretti, di cui curò una monografia, scrisse versi intimisti che, per certe caratteristiche, lo avvicinano ai crepuscolari. Seppure le sue poesie mostrino dei pregi evidenti, fu quasi totalmente ignorato dai critici del suo tempo, e oggi il suo nome è caduto nell'oblio.



Opere poetiche

"Canti dell’adolescenza", Soc. Tip. Ed. Naz., Torino 1908.
"Le amare voluttà", Baldini e Castoldi, Milano 1910.
"Fogline d’assenzio", Ricciardi, Napoli 1913.
"Le allee solitarie", Ricciardi, Napoli 1920.
"Il cuore e l’urna", Treves, Milano 1923.
"La fiamma e le ceneri", Treves, Milano 1930.
"Lacrime e sole", Formiggini, Roma 1938.
"Passi sulla sabbia", Guanda, Modena 1941.
"Le spiagge dell’oblio", Guanda, Modena 1947.
"Poesie", SEI, Torino 1953.






Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 2, pp. 42-47).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (CXXVIII-CXXXI).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 425-431).



Testi

TRISTEZZA

È il tardo autunno, più non vi son rose;
ecco la morte dell'umane cose;
cadon le foglie secche ed avvizzite,
cadon dal cuor le mie speranze ardite.

Nel languire del vespero odoroso
l'anima invoca il placido riposo;
laggiù, laggiù, nel bianco cimitero,
v'è tutto quello che nel mondo è vero.

(Da "Canti dell’adolescenza")





 FANALE

Oh quel fanale
che s'apre come occhio smarrito
nel grigio silenzio infinito
della notte invernale,
or bianco or ardente;
oh quel fanale vicino
e lontano
nel piano,
in striscie di sangue il cammino
preclude
al nero convoglio che invoca
con voce stridula e roca,
la libera via;
oh quel fanale è la mia
anima, forse, che chiede,
e dolce si perde e s'illude
nel sogno, e non vede?

Fremono i fili sonori,
un globo elettrico illumina
la strada, spicchio di sole
nel fango, nell'acqua raccolta
negli interstizi d'asfalto...
O quel fanale è una scolta
sperduta,
che vigile attende un assalto?

Occhio di sangue, baleni
or nella notte, scolori
tremuli palpiti muori,
nei cieli oscuri e sereni...

E romba il treno lontano
nel piano,
scompare.
Non s'ode che il vasto silenzio infinito.
Silenzio — a vespro — sul mare.
Ma l'occhio vaneggia, mi guata:
si apre: si chiude smarrito:
l'enorme pupilla dilata.
E il treno — lontano
nel piano è un punto...

Ma dove, ma quando sia giunto...


(Da "Le allee solitarie")