domenica 11 maggio 2014

La mamma in cinque poesie di cinque poeti italiani del XX secolo

Le poesie qui presenti hanno, come argomento principe, la mamma, e, cronologicamente parlando, appartengono tutte ai primi anni del XX secolo. Al di là del valore di ognuna, ciò che le accomuna è la presenza di una palpabile malinconia, peculiarità fondamentale di quella scuola poetica che fu definita crepuscolare. In verità dei quattro, l'unico vero poeta crepuscolare è Marino Moretti; è pur vero che gli altri quattro, in modi diversi, sfiorarono il crepuscolarismo. Giuseppe Caruso, per cominciare, fu amico di Sergio Corazzini e, nelle poche poesie che scrisse, ne sentì l'influenza. Non fa eccezione A mia madre, seppur uscita nel 1902, quando Corazzini ancora doveva pubblicare i suoi primi versi. Umberto Saba fu in un certo modo crepuscolare soprattutto nella primissima fase della sua carriera poetica, quando molto spesso nei suoi versi si registravano temi e pensieri molto simili a quelli presenti nelle poesie di Marino Moretti (al quale alcuni critici lo paragonarono). Diego Valeri può invece essere definito un epigono o, ancora meglio, un seguace della poesia crepuscolare, specialmente nelle sue prime opere in versi e più di tutte in Umana (dove si trova la poesia Io non ho fiori...). Giuseppe Zucca, infine, durante il breve periodo in cui scrisse dei versi, mostrò una evidente propensione all'intimismo.
Malinconia, tristezza, a volte disperazione emergono da questi versi che a me paiono molto belli e vogliono rappresentare in modo onesto e intenso quei sentimenti basilari che molti figli provano nei confronti della madre.



A MIA MADRE
di Giuseppe Caruso

Ero solo e piangevo...
Il sordo rumore del treno
rompeva il silenzio dei campi
all'ora mattutina.
E passavan veloci,
nell'ombra ancora indistinte,
le verdi campagne
dinnanzi ai miei occhi: e piangevo...
Non so: nella mente confusa
nel cor, pieno d'affetti,
sentivo un affetto a me nuovo,
a me stesso incompreso.
Era l'ultimo addio delle cose?
Era il pianto di mia madre,
che ancor mi bagnava le gote?
Non so: sulle fresche verzure
cantava il colono; per le tacite vie silenti
movevano i carrettieri:
e pensavo mia madre e piangevo...
Vedi, le dicea, sognando,
è l'alba: e ci sembra sì triste,
perché l'anima piange.
Poi quando saremo lontani
vedremo i tramonti dorati,
e piangeremo insieme...
Correva veloce il vapore;
fuggivano i monti ed i piani,
ed io solo piangevo...

(Da «Ateneo Letterario Artistico», aprile 1902)





NELLA CLINICA DEL PROF. MAZZONI 
(CORSO D'ITALIA, 33)
di Marino Moretti (1885-1979)

Mamma, preghiamo insieme.

Il cuore è un po' malato, e ride e geme.
Sporgiti dal marmoreo davanzale,
e guarda il sole del Corso d'Italia
ch'è sì dolce su gli alberi potati.

Mamma, guardiamo insieme
queste Sorelle care al Papa morto,
che han la Madonna nell'orto
e il Crocifisso sul petto,
un Crocifisso benedetto.

Mamma, piangiamo insieme
d'essere soli a Roma
col pensier della casa e del paese,
di ciò che fummo e di ciò che saremo
qui soli, a Roma.

O mamma quasi risanata (quasi),
preghiamo insieme
perché Dio veda l'angoscia che preme
sul cuore di tuo figlio.

Mamma, preghiamo insieme
la Madonna del Buon Consiglio.

Roma, 12 aprile 1916.

(Da «La Diana», aprile 1916)





A MAMMA
di Umberto Saba (1883-1957)

Mamma, c'è un tedio oggi, una non dolce
malinconia, che in ogni
vita à una preda, e fa umili i sogni
de l'uomo che àil suo mondo à nel suo cuore.
Mamma, ritornerà oggi a l'amore
tuo, chi a l'amore più non si rivolge?
Solo, e fuor de l'umano
gregge, questo tuo sempre più lontano
figlio, ti ritornerà?

Ed è un giorno di festa, oggi. La via
nera è tutta di gente, ben che il cielo
sia velato, ed un vento aspro a lo stelo
tolga il giovane fiore, e in onde gonfi
la gialla acqua del fiume.
Passeggiano i borghesi lungo il fiume
torbido, con violacee ombre di ponti.
Sta la neve sui monti
ceruli ancora; e la malinconia
viene in me da l'aspetto de la via,
triste senza l'usato
suono d'opere, o d'una nostalgia
insanabile è il tuo figlio malato? 

E tu pur, mamma, la domenicale
passeggiata riguardi, da l'aperta
finestra, ne la tua casa deserta
di me, deserta de l'unico bene.
Guardi le donne, i marinai; né scordi,
mamma, quel bene; non i tuoi timori
scordi, se gli ebbri o i lavoratori
guardi, che i rudi e lordi
panni, per me superbamente belli, 
oggi a gara lasciati ànno per quelli
de la festa, dai gran colori falsi.
Ma tu, mamma, non sai che sono falsi.
Tu non vedi la luce che io vedo.
Altra fede ti regge, che non credo
più, che sì cara nella puerizia,
m'era, quando il tuo Dio
vagheggiando, supino a mezzo il prato:
pensando ch'egli mi ti aveva dato,
mi salivano lacrime agli occhi.
Or, se i fanciulli a crocchi
vedi la libertà de la festiva
sera splendere in giochi,
ricordi come spesso io da quei giochi
rifuggivo lontano:
e non a la tua mano?

Ché dei tuoi crucci, dei tuoi molti guai
questa è la fonte, che in quei favolosi
tempi turbava i tuoi scarsi riposi,
come oggi il mio sdegno:
tese l'animo mio sempre ad un segno,
cui non tesero i miei compagni mai.
Tu di questo non sai
vivere lieta, tu che piangi, piangi
sempre, ne la tua casa deserta.
Là ti rivedo; e da non più aperta
finestra, con l'incerta
sera, de le campane entra un profondo
suono, il preludio de la dolce notte,
de l'insonne per te, gelida notte.
Ad ogni tocco, più verso la notte
è roteato il mondo.

Mamma, un tempo ci fu che udendo un suono
di campane, mirando quella sola
nube, che il vespro tinge di viola,
non so quale tristezza il cor più buono
mi faceva, più incline al tuo d'allora.
I miei pensieri ancora
vanno a quel tempo, benché grande e varia
sia la mia vita, con la solitaria
forza, onde godo di che ogni altro trema;
e quanto al volgo appar pena suprema,
d'estasi il cor mi riempie.
Non vidi i passi tuoi farsi più stanchi,
o dolce madre, e i tuoi capelli bianchi
su le povere tempie.

Ed un tempo ci fu, anche, che in ogni
cosa la più sapiente eri tenuta
da me, da me che la tua bocca muta
feci poi, con l'altezza dei miei sogni.
Tu pel fanciullo eri l'infallibile;
eri colei che non conosce errore:
L'umile tua parola nel suo cuore
scolpivasi così, ch'ebbe indicibile
angoscia, quando per la prima volta,
e come ogni altra, la tua mente folta
d'errori discoverse.

Mamma, il tempo fu quello che d'avverse
forze piena sentii l'umana vita;
sì che indugio a la mia casa il ritorno.
Ben mi apparvero eterne
verità, ma infinita
n'è l'amarezza, e in odio ebbi la vecchia
casa, il terrazzo ove leggevo Verne,
pallido d'ansia, ne le rosse sere.
Poi, nel sonno, sognavo l'Oriente
barbaro, e quanta gente
non vinceva la mia piccola mano!
Era incerto fra il riso e il pianto il ciglio
tuo su quel sonno: ora lontano è il figlio
unico, e il tempo fugge.

Mamma, il tempo che fugge
t'ansia, e l'ansia che impera
nel tuo cuore, c'è forse anche nel mio;
c'è, pur latente, il male che ti strugge;
sonvi le cure e le domenicali
malinconie.
Lentamente, ora sfollano le vie
ne la sera di festa, e verdi e rossi
accendono fanali le osterie
di campagna. La chiara
voce si effonde de la ritirata,
di canzoni l'enorme camerata
s'empie, turpi e gioconde. - E' l'ora, mamma,
l'ora che cresce affanno
ai cuori come il tuo, soli ed amanti,
di su gli ultimi mari ai naviganti,
dentro l'orride celle ai prigionieri.
Canterellando scendono i sentieri
del borgo i cittadini.
Torna dolce a ciascuno la sua casa.
Ed il mistero ond'è la vita invasa,
tu con preghiere esprimi. -

Mamma, il tempo che fugge
porta il rimpianto di quello che fu.
La vita intanto il nostro sangue sugge,
non so se dolorosa o bella più. -

(Da "Poesie", Casa Editrice Italiana, Firenze 1911)





IO NON HO FIORI...
di Diego Valeri (1887-1976)

Io non ho fiori da versar sul folto
tappeto di trifoglio e di gramigna
che veste la tua fossa; io non ho quasi
neppur lacrime più da lacrimare
sul tuo povero cuore seppellito
qui, sotto questa terra. Solamente,
io mi guardo, io mi cerco in fondo all'anima,
per veder te, per ritrovare il tuo
viso sfiorito di malata, e il riso
pallido de' tuoi dolci occhi di pianto,
e i tuoi capelli bianchi ancora sparsi
di qualche ciocca bionda, e le tue mani,
le tue ruvide mani ossute e gonfie
di vene azzurre, le tue sante mani
di mamma bruciacchiate al focolare...
E ti chiamo, ti chiamo con la voce
del desiderio mio che non ha pace
e confine non ha, né sa che sia
morte... - Ma in vano. In van mi scruto. In vano
t'invoco. Dentro l'anima mia cupa
che mi fa tanto male... O mamma mia,
tu non odi il mio grido! Ed io son solo,
solo qui presso a te, con te, nel calmo
cimitero, tra i marmi ed i rosai;
solo nella dolcezza stupefatta
di questo pomeriggio azzurro e bianco;
solo nel gran silenzio, in cui non odo
che un fruscìo di lucertola tra l'erba

e il soffio d'una rosa che si sfa.

(Da "Umana", Taddei, Ferrara 1916)





MAMMETTA
di Giuseppe Zucca (1887-1959)

Mammetta, tu che ti ricordi
tutto di me, le parole
piccole e quelle più grandi,
i sonni, i giochi, i pianti,
e solo hai dimenticato
le rispostacce cattive
che il mio rimorso non scorda;

mammetta, tu che mi dici
sempre che ancora mi vorresti
piccino per tenermiti ancora
sulle tue stanche ginocchia,
come quando a notte tarda
s' aspettava papà che tornasse
- papà che ora non torna più ! — ;

mamma mia, tu che ti fai
sempre più piccina, mentr'io
sono di tanto ingrandito
che appena giungi a baciarmi
qui sul petto, qui dove batte,
e io devo un po' chinarmi
per baciarti te sulla fronte

(fronte attenta e animosa,
così scarna qui sulle tempie,
con queste due ferme rughe
tagliate fra ciglio e ciglio
e, in mezzo, una macchiolina
rosea, una voglia di fragola
che intenerisce a primavera);

mammetta, tu che mi guardi
vivere, tu certo te le ricordi
queste cose tanto lontane
che la mia nostalgia rievoca
con un sorriso non so
se amaro o se dolce e un singhiozzo
qui in gola, ma più nel cuore.

E tu cercale, quelle memorie,
qui: son dette «lontananze».
Ciascuna è un bacio di me
fanciullo, a te e a papà:
papà
che dorme là dietro la pietra
dove io scrissi il nostro dolore;

e quelle due rondini di bronzo
si baciano e gli dicono: — Sai?
ti pensano sempre, ti pensano. —

(Da "Io", Formiggini, Roma 1919)

martedì 29 aprile 2014

Le bare nella poesia italiana decadente e simbolista

Le bare sono descritte spesso in movimento verso l'ultima fatale destinazione: il cimitero. Sono l'estrema dimora del corpo esanime e più che mai rappresentano la morte in modo sconvolgente. I poeti mostrano tutta la traumaticità dell'evento mortuario, e sono colpiti soprattutto dalle piccole bare, che naturalmente contengono i corpi dei bambini, ovvero esseri umani scomparsi troppo presto, i quali più di tutti stanno a significare l'assurdità della vita. La morte come unico fatto importante dell'esistenza è simboleggiato proprio da "bare su bare, bare dietro bare" che, una dopo l'altra, si avviano verso Toblack, la città dei morti definita da Corazzini: "ara meravigliosa del mistero", sempre in ansiosa attesa di nuovi arrivi.



LA STRADA DELLE BARE
di Mario Adobati (1889-1919)

Bare su bare, bare dietro bare
nella via polverata. Sempre nere
bare velate nei tramonti. Chiare
vesti i mandorli lasciano cadere.

Cavalli neri e bardature bianche.
Cavalli bianchi e bardature nere.
Nelle stagioni vanno a torme stanche,
pesantemente, senza sonagliere.

Rosse bare d'eroi, bare di bimbi
serene come volti di vegliardi.
Bacche scarlatte incendiano a corimbi
le siepi sopra il tremolio dei cardi.

Aquile rotano nel cielo greve
di nuvole. Le strida dei rapaci
svariano. Cade qualche piuma lieve.
L'orizzonte è in un cerchio di fornaci.

Anemoni in cui bevono gli uccelli
notturni strane gocciole di piogge
lontane tremano. Come gli avelli
scoperchiati respirano le logge.

Un colore funereo rapprende
i luoghi come i volti dei malati
senza speranza. Un lume a tratti splende
per gli sterpeti folli e desolati.

Che cerca quel viandante? Bare dietro
bare, bare su bare, Péste sorde
di cavalli sbandati. Un cupo metro
di canti. Un'eco sempre più discorde.

Gracidano le rane e fanno cori
striduli tra ogni zampa ed ogni ruota.
Gli zoccoli calpestano sonori
e le serpi rimovono la mota.

Eternamente, come per condanna
si seguono i convogli senza fine.
I pastori con zufoli di canna
a sette fóri sono alle colline.

Una piana lor nenia pastorale
fanno. A prodigio lasciano ogni velo
tutte le bare e come in ampie scale
di cenere dirompono pel cielo.

I cavalli s'accosciano. Le bare
sono lungi. La notte oi suoi vessilli
dispiega con un nero fluttuare.
Gli usignoli gareggiano coi grilli.

Tutto affonda. Il mistero della notte
ha il suo segreto. Pallidi, seduti
su le prode, gli amanti ignari frotte
d'uccelli seguono con gli occhi muti.

Il vento irrompe e tosto nubi vanno
sparse, striscianti. I giovani e le belle
alzano i volti. Gioie più non sanno.
Tra nube e nube contano le stelle.

(Da "I cipressi e le sorgenti",  Tip. C. Conti & C., Bergamo 1919)





ORE TRISTI 
di Vittoria Aganoor (1855-1910)

Sotto la pioggia, incontro al vento, passa 
una bara; la portano 
in fretta al camposanto, 
e la buffa ogni tanto 
il nero drappo irreverente squassa 
con derisorio sibilo. 
Ritti sul fango nero 
lungo le vie fuggenti 
croci i fanali sembrano, 
le case monumenti 
d'un lungo cimitero. 

Chi si ricorda più l'aprile, i prati 
verdi, e l'azzurro, e i mandorli 
rosei per la campagna? 
giù la pioggia si lagna, 
in alto è un mar di nuvoli serrati 
e qui dentro una lugubre 
calma, e qui tutto tace 
come in vòta dimora; 
non risa, o canto, o fremito 
di scossa onda sonora; 
è dei chiostri la pace. 

Pace d'anime stanche e di languenti 
fibre, domate al fervido 
martellar dell'affanno, 
che più lottar non sanno 
ma sdegnano i lamenti; 
pace d'antico tumulo 
abbandonato e infranto 
su cui l'ortica crebbe; 
desolato silenzio 
cui men triste sarebbe 
uno scoppio di pianto.

(Da "Leggenda eterna", Treves, Milano 1900)





PICCOLA BARA
di Francesco Cazzamini Mussi (1888-1954)

Stamani ella è morta.
Alla porta
guardavano i bimbi, stupiti...
La morte ?
Com'era, dov'era la morte?
Posava la piccola morta
esangue, stecchita, di cera...
Al vento di marzo esitavano
i peschi fioriti,
e alcuni, tra essi, i più arditi,
toccavano il davanzale,
per salutarti
e per farti,
o bimba, il guanciale.

O bimba, che almeno tu possa,
tranquilla, dormire, la testa
sui fiori che odorano freschi,
sul cuore
l'immenso dolore
di mamma, che almeno tu possa,
vestita del dì della festa,
sognare che questa
che lasci, la vita,
è come una favola bella,
veduta attraverso l'amore,
così, di sfuggita...

Tu pura ritorni
di dove venisti: dal nulla
nel nulla.
Un fiore s'aperse, si chiuse.
La mamma, sola, s'illuse,
cantando, alla culla.
E tu come un sogno passavi.
Non anni, i tuoi, ma dei giorni
soavi.

I ceri t'han messo vicino,
piangendo t'hanno vestita,
per farti men triste il cammino
che lascia la vita...

Ma dove la morte? Chi dice
morire?
Tu dormi, tranquilla.

Da presso ti veglia e scintilla
la luce dei ceri.
Domani più freddi, più neri
ti veglieranno i cipressi.
Ma dolce, sott'essi, —
o tu felice! —
dormire.

Ma quelli che lasci, ma quella
che piange, ed a stento sostiene
il volto tra l'aride mani?
E tu, sorridile, bella.
E dille: non siamo lontani,
se nel ricordo è il tuo bene...

Sfiorasti la vita, sfiorasti
gli inutili odi e gli amori
che durano un dì.

O piccola bara
che salpi tra i fiori,
non forse la vita è più cara
così?

(Da "Le allee solitarie", Ricciardi, Napoli 1920)





PICCOLA BARA
di Giovanni Cena (1870-1917)

In riva al mare opaco io vedo andare 
un marinaro con un passo stanco: 
porta una bara sotto il braccio manco 
come una culla e con lui piange il mare. 

Segue una donna pallida che pare 
una morente e tre bambini a fianco: 
guardano il cielo in oriente bianco 
ed hanno risi le pupille ignare. 

Lungo la diga dove il mar si frange, 
dove si frange il mare opaco e nero 
la triste comitiva si dilunga. 

Oh quant'è quella strada eguale e lunga! 
Dov'è, dov'è l'antico cimitero? 
Là giù, tranquillo in riva al mar che piange. 

(Da "In umbra", Streglio, Torino 1899)





TOBLACK
di Sergio Corazzini (1886-1907)

... E bare e bare senza tregua; aperti
sono sempre i cancelli, o cimitero
ara meravigliosa del mistero,
sacrificante ai cieli alti e deserti!

E bare bare senza tregua; esperti
sono i tetri cancelli nel pensiero
della morte, e ben sanno che del Vero
sono i custodi più sicuri e certi.

Cimitero che attendi e che disperi
nell'attesa, abbi pace, accoglierai
tutti, col tempo, e forse non avrai

terra a bastanza, e non daran le buone
primavere bastevoli corone,
cimitero che attendi e che disperi.

(Da "Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1968)





«NOVIZIA DEL NULLA»
di Giulio Gianelli (1879-1914)

Oh malinconia!
Novizia del nulla
vestita di bianco
la portano via.

Oh malinconia!
Con ritmo di culla
monotono e stanco
la bara s'avvia.

(Veicolo strano
la bara va piano
perché il suo cammino
è un altro destino
più triste e più vano.)

Ma giunta al confine  la bara s'arresta
la piccola morta  solleva la testa
si trova risorta  per sempre di là

C'è un mare infinito  color della sera
La cassa diventa  una barca veliera
che scivola in mare  che rapida va

portata lontano  da un vento che piange
soffiando nel nulla,  da un'onda che frange

(Da "Tutte le poesie" di Giulio Gianelli, IPL, Milano 1973)





LA VIA DELLA CERTOSA
di Corrado Govoni (1884-1965)

Strada disabitata, in mezzo a gli orti
pieni di fiori e di malinconia,
strada che mena al soggiorno dei morti
che frequenta la mia nostalgia:

strada silenziosa, dove l'erba
prospera come in vecchio monastero,
solitaria straducola, che serba
come un sentor di ceri e di mistero.

Quante bare passarono, per questa
via da cui non si ritorna mai!
quante bare emigrarono a la mesta
devozione dei funebri rosai!

Talune erano simili ad altari
di festa (oh come bianche le corone!);
ed eran altre simili a calvari
di lutto, e senza alcuna orazione:

strette casse di gracili fanciulli
morti tra i fiori, morti d'etisia,
corpicciuoli ravvolti in fini tulli
di amare lacrime e di liturgia;

lunghe casse di poveri mendichi
la cui vita fu un'agonia lenta:
vecchi senza famiglia, mendichi
di cui nessuno piange e si rammenta.

O tristezza d'andare al camposanto
senza la compagnia di qualche fiore,
tristezza de la bara senza pianto
che procede per l'ultime dimore!

La stradicciuola è stretta in mezzo a gli orti
pieni di rose e di malinconia...
Oh pensate, pensate a tutti i morti
che passarono lungo questa via!

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", Lumachi, Firenze 1903)





LE BARE
di Enzo Marcellusi (1886-1962)

Mi piacevano in lei il rigido e molle
andamento di vergine e quella chiarezza
degli occhi, che dà allo sguardo un'indefinita larghezza.
Quando pregava, la sua pietà mi rendeva folle.

Quante stagioni dai nostri capi innocenti
vedemmo fuggire? La primavera, che illude
ahi me! come la giovinezza, le piegò sulle braccia nude
i suoi liquidi cieli, sospirando fiumi e venti

entro i larghissimi pesanti roseti
dei capelli, come
nell'AUREA CATENA di Dante Gabriele Rossetti (ohi! nome
d'arcangelo fra due nomi di poeti).

...Dopo tanti anni d'amore, la catena s'infranse.
La vita mostruosa ghermì nei freddi artigli
colei che m'amava e che amavo. Ma non le videro tra i cigli
la lagrima nera, quando sulla nuziale corona ella pianse?

Lontana, - il fantasma d'una felicità improbabile
divenne il signor trismegista del mio castello: e, alla fresca
aura d'aprile, i gufi cantavano la ballata grottesca
e piagnucolosa; molto amara e, anche, un po' adorabile.

Poi, nell'inverno, le sale della mia reggia
furono aperte a donne lussuriose, dipinte, discinte,
e tutte io nelle sconvolte alcove ho vinte,
per uccidere un ricordo di purezza.

Trista e triste la mia dotta, la mia strana, la mia torbida vita!
E vana!... Se levo gli occhi dalla tortura insidiosa
delle pagine, - sopravi la fronte posa,
ansante amazzone tramortita -,

io vedo una processione di bare.
Dinnanzi crucifera va una bara più nera!
E rivedo la mia stanza di bambino, severa,
a settentrione, con due finestre verso il mare.

Dalla strada giunge un cupo ritmo di martello:
- tra le flaccide fibre dell'abete i chiodi
scivolano, stridendo ai rossi nodi
del legno. - Notte. La cassa non ha, ancora, il suo coperchio-suggello.

Come allora, cantando, l'oscuro operaio
adempie la tragica bisogna. Come allora,
mi levo sulla coltre, che odora
di bontà materna, e ne fo saio

al mio corpo tremante, e corro ad affacciarmi per meglio
vedere, per udire più dappresso
il lugubre rombo, confuso nel battito stesso
del cuore fattosi adulto, umiliato, perplesso.
E paurosamente veglio.

(Da "Intensità Encausti", Arti grafiche, Chieti 1920)





LE BARE
di Tito Marrone (1882-1967)

Perché chiudere la porta
dietro la bara che se ne va?
Forse così nessuna cosa morta
dentro la casa, dopo, resterà?

Ah, quando co' suoi fiori,
co' suoi ceri,
con le preci pe' i defunti,
co' visi smunti e con le vesti nere
degli accompagnatori,
per sempre il povero
morto se ne va;
quando il piccolo feretro,
l'umile compagnia
hanno voltato di là dall'ultima
casa della via,
non chiudete la porta!
Se quello che vi lascia
tornasse indietro,
invisibile, per rivedervi un momento...
che sgomento
trovar la porta chiusa,
la sua porta chiusa;
e non poterla aprire,
e doversene andare!

Non temete la bara
che non rientra
- ed è una sola! -
voi che ne avete tante
vicine, occulte e non se ne dipartono!
Amen, per quelle che partono;
amen, per quelle che restano
sempre e dovunque,
nel piacere nel dolore,
presso il nostro desco,
sotto il nostro letto,
o già seppellite nel cuore!

Non temete le bare
che non tornano indietro,
efimeri viventi della terra!
Tregua alla vostra guerra
breve: aspettate in pace.

Dolce, una notte
di maggio, navigare l'infinito,
fraternamente
giacendo nella stessa
bara, la madre Terra,
compagni forse d'altri morti ignoti
composti in altre
bare sorelle,
verso un cimitero fiorito
di stelle di stelle di stelle.

(Dalla rivista «Riviera ligure», novembre 1905)





FUNERALE
di Edoardo Mottini (1884-1935)

Il nero forno sforna un biscotto,
un biscotto dorato, con la croce;
ma l'odore non è di pasta fina,
è un odore di cera e di cantina.
E il dolce è secco, rotola sui rulli
con un rimbombo sordo. Sei garzoni
l'hanno afferrato per le sei maniglie,
lo imbucano nel gurge della chiesa
ove il gran pasticcere lo conforta
col cognac extra dell'asperges teso.

Presto, presto, che il dolce non infrolli!
Cantando l'inno, al lume di candele,
lo si deponga sul desco fiorito
del vermineo convito!

(Da "Rose nel pruneto", Taddei, Ferrara 1921) 





IL GAIO EBANISTA
di Térésah (1877-1964)

Son belle le tue bare: hai gusto ed arte
per adornarci la dimora: trista
non vuolsi compagnia, quando si parte!

Son belle, chiare, tappezzate in vista
del lungo sonno con pesanti rasi,
i fregi ne scolpì buon ebanista.

Forse tu, quello? Oh narrami i tuoi casi.
Eri tu che cantare udii stamane,
sì che stupita io non credetti quasi?

Niuno canta pel suo duro pane
in questa casa: il vecchierel non canta
mentre mischiando va le pozzolane;

lo spaccapietre tra la selce infranta
tace, che troppo il suo martel l'assorda;
tace nel vico la campana santa.

Tu cantavi, stamane! Eri una corda
stridula di chitarra indemoniata,
una cicala che nel sol si scorda.

Cantavi lieto della tua giornata
che non fé grave, del tuo bel lavoro;
cantavi... Ma non hai l'innamorata?

Le facevi, coi morti, il vezzo d'oro.

(Da "Il cuore e il destino", Carabba, Lanciano 1911)

venerdì 25 aprile 2014

Da "Uomini e no" di Elio Vittorini

Questo forse era il punto. Che si potesse resistere come se si dovesse resistere sempre, e non dovesse esservi mai altro che resistere. Sempre che uomini potessero perdersi, e sempre vederne perdersi, sempre non poter salvare, non potere aiutare, non potere che lottare o volersi perdere. E perché lottare? Per resistere. Come se mai la perdizione ch’era sugli uomini potesse finire, e mai potesse venire una liberazione. Allora resistere poteva esser semplice. Resistere? Era per resistere. Era molto semplice.

(Da "Uomini e no" di Elio Vittorini, Mondadori, Milano 2003, p. 190)






Uomini e no di Elio Vittorini (Siracusa 1908 – Milano 1966), può essere definito, cronologicamente parlando, il primo romanzo italiano che si occupi della Resistenza. Fu pubblicato per la prima volta nel giugno del 1945 dall’editore Bompiani di Milano. Nella città meneghina è ambientata la vicenda, che parla delle imprese dei partigiani durante l’inverno del 1944. Le parti prettamente narrative, si alternano ad altre in cui lo scrittore siciliano commenta i fatti narrati; da una di queste parti, è tratto il frammento che ho qui sopra riportato.


lunedì 21 aprile 2014

La stazione nella poesia italiana decadente e simbolista

La stazione è un luogo che, parlando di poesie, fa sorgere malinconie e tristezze, soprattutto perché, quasi sempre, ci si va per partire, e quindi per allontanarsi da un posto caro, oppure perché vi si accompagna una persona amata che è costretta ad andar via. Se il tempo non è bello la malinconia aumenta, come dimostrano i versi  di Giosuè Carducci. Nella lirica crepuscolare la stazione diviene luogo nostalgico (soprattutto se piccola, se dotata di un giardinetto o di una sala d'aspetto); è l'occasione per esprimere il rimpianto di una vita tranquilla che ormai non esiste più. Altre volte la stazione ha caratteristiche mondane: qui si incontrano persone che vengono da tutte le parti del globo terrestre e nello stesso tempo si possono sognare viaggi verso mete lontane e agognate. Da segnalare infine il lato comico (con sfumature grottesche) di chi va alla stazione perché si è invaghito di una locomotiva, con la quale instaura un dialogo esponendo i suoi desideri e i suoi sentimenti.



ALLA STAZIONE IN UNA MATTINA D'AUTUNNO 
di Giosuè Carducci (1835-1907)

 Oh quei fanali come s'inseguono 
 accidïosi là dietro gli alberi, 
 tra i rami stillanti di pioggia 
sbadigliando la luce su 'l fango! 

 Flebile, acuta, stridula fischia 
 la vaporiera da presso. Plumbeo 
 il cielo e il mattino d'autunno 
 come un grande fantasma n'è intorno. 

 Dove e a che move questa, che affrettasi 
 a' carri foschi, ravvolta e tacita 
 gente? a che ignoti dolori 
o tormenti di speme lontana? 

 Tu pur pensosa, Lidia, la tessera 
 al secco taglio dài de la guardia, 
 e al tempo incalzante i begli anni 
 dài, gl'istanti gioiti e i ricordi. 

 Van lungo il nero convoglio e vengono 
 incappucciati di nero i vigili, 
 com'ombre; una fioca lanterna 
 hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei 

 freni tentati rendono un lugubre 
 rintocco lungo: di fondo a l'anima 
 un'eco di tedio risponde 
 doloroso, che spasimo pare. 

 E gli sportelli sbattuti al chiudere 
 paion oltraggi: scherno par l'ultimo 
 appello che rapido suona: 
 grossa scroscia su' vetri la pioggia. 

 Già il mostro, conscio di sua metallica 
 anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei 
 occhi sbarra; immane pe 'l buio 
 gitta il fischio che sfida lo spazio. 

 Va l'empio mostro; con traino orribile 
 sbattendo l'ale gli amor miei portasi. 
 Ahi, la bianca faccia e 'l bel velo 
 salutando scompar ne la tènebra. 

 O viso dolce di pallor roseo, 
 o stellanti occhi di pace, o candida 
 tra' floridi ricci inchinata 
 pura fronte con atto soave! 

 Fremea la vita nel tepid'aere, 
 fremea l'estate quando mi arrisero; 43 
 e il giovine sole di giugno 
 si piacea di baciar luminoso 

 in tra i riflessi del crin castanei 
 la molle guancia: come un'aureola 
 piú belli del sole i miei sogni 
 ricingean la persona gentile. 

 Sotto la pioggia, tra la caligine 
 torno ora, e ad esse vorrei confondermi; 
 barcollo com'ebro, e mi tócco, 
 non anch'io fossi dunque un fantasma. 

 Oh qual caduta di foglie, gelida, 
 continua, muta, greve, su l'anima! 
 io credo che solo, che eterno, 
 che per tutto nel mondo è novembre. 

 Meglio a chi 'l senso smarrí de l'essere, 
 meglio quest'ombra, questa caligine: 
 io voglio io voglio adagiarmi 
 in un tedio che duri infinito. 

(Da "Nuove odi barbare", Zanichelli, Bologna 1887)





ELEGIA FERROVIARIA
di Guelfo Civinini (1873-1954)

Le piccole stazioni 
dove i treni diretti 
passan senza fermarsi!
Fra un ondeggiar di chiome 
di eucalipti giallastri 
le piccole stazioni 
solitarie, coi tetti 
rossi e una panchina 
verde sul marciapiede,
e sul muro hanno il nome 
d'un ignoto paese 
che non si vede:
qualche piccola pieve 
fra ombrie di castagneti 
e tremolii d'ornelli 
al monte, o pei declivi 
d'un colle entro una mite 
serenità d'olivi;
ignoti paeselli 
che colui che viaggia 
sovra i treni diretti 
non conoscerà mai, 
sperduti chi sa dove, 
per chi sa quale spiaggia, 
per chi sa quali greppi, 
ancora ad otto o nove 
ore di diligenza 
dalla strada ferrata, 
e si chiaman con nomi 
un poco letterari: 
San Lorenzello, Albata 
Mongiglio, Valfiorenza, 
Sant'Agata dei Frari... 

Le piccole stazioni
di quarta classe,
coi loro giardinetti
conventuali:
due piante di cedrina
dei bordi d'erbe grasse,
e in una delle aiuole
una gran zucca gialla
che si crògiola al sole
fra i gerani e l'ortaglia.
Trascorron l'ore e l'ore
a aspettare i diretti
che passano in gran fretta
senza fermarsi,
per salutarli appena
con una bandieretta,
sulla strada maestra
da certe impolverate
solenni giardiniere
le mule infiocchettate
scuoton le sonagliere,
e una ragazza bionda
pallida e spettinata
guarda da una finestra
sulla lampisteria
con una faccia mesta
piena di nostalgia
il «4 bis» che passa
e scompare fugace
fra due siepi d'acacie,
rincorso da una breve
fuga di foglie gialle
come da un volo lieve
di piccole farfalle.

Un attimo, e son già 
scomparse: «Che stazione 
era? - Non so, signora: 
non ho guardato il nome... 
Il paese è lontano: 
dev'esser giù di là...» 
Per un poco si tace, 
poi: «Lei viene a Milano? 
- Forse, dopo Torino... 
- Ci rivedremo, allora... 
- S'imagini, signora». 
Il giuoco cittadino 
ci riprende e ci piace; 
la piccola stazione s'è perduta lontano, 
la piccola stazione 
dove non ferma il treno,
con l'ignoto paese 
fuori di mano 
che non conosceremo, 
con la tacita pieve 
che non si vede,
che non sappiamo come 
si chiamerà,
ed avrà forse nome
Serenità.

(Da "I sentieri e le nuvole", Treves, Milano 1911)





ALLA STAZIONE CENTRALE
di Guglielmo Felice Damiani (1875-1904)

Portami teco, mostro che t'involi
verso i monti paterni e i glauchi laghi
onde per l'odorate ombre mi paghi
con te, Virgilio pio, di questi soli!

E che le guerre mie stolte consoli
rustica pace e il desiar s'appaghi,
e la febbre che m'arde alfin dismaghi
cantar di fonti e trepidar di voli!

Sparve l'errante macchina e con essa
d'una straniera vagabonda e stanca
l'affacciata visione: o mano bianca,

rimasta nella mia pupilla impressa
come l'orma d'un sogno, a chi nel muto
cenno mandavi l'ultimo saluto?

(Da "Lira spezzata", Zanichelli, Bologna 1912)





ALLA STAZIONE
di Arturo Foà (1877-1944)

Sotto l'arco sonoro della stazione, io aspetto
tra la folla l'arrivo di un treno. Di che treno?
io non lo so; io mi sono confuso tra la densa
folla per aspettare. Eccoli. Una turba
che fluttua dai larghi cancelli e in mezzo a noi
si spande e ondeggia; tutte le età, tutte le foggie:
femminee grazie, maschi volti barbuti, chiome
senili, strilli e risa giovinette.
Onde vengono? da mari azzurri, da grigie nebbie,
da fragorose strade di metropoli?
E a te che importa, anima mia? da qualunque contrada
essi vengano, siano essi i benvenuti.
Nella lor terra si ama, si lotta, si soffre e si muore
come si soffre e si muore nella mia terra.
Sotto ogni cielo è uguale la rigida legge, fra cui
gli uomini si dibattono, nel tempo, senza uscita.
Ma essi sono per me l'ignoto e il sogno, due
meravigliosi amici della mia solitudine.
Ed io posso - o anima, mia complice ingenua o pietosa!
immaginar più forti, più saggi e più magnanimi
della folla ben nota che circola intorno ai miei passi
in ogni ora del giorno per queste vie ben note,
solo perché con essi mi sembra che giungami l'eco,
il respiro, il sorriso d'una più dolce vita,
da qualche spiaggia in cui giocondamente errai,
o da qualche città ignota e lontanissima
a cui da tanto io penso e che giammai vedrò.

(Da "Le vie dell'anima", Lattes, Torino 1912) 





IL GIARDINO DELLA STAZIONE
di Marino Moretti (1885-1979)

Giardino della stazione
di San Giovanni o San Ciro
tutto fiorito all'ingiro
di fiori della passione,

chiuso da siepe corrosa
di brevi canne sottili
cui s'attorcigliano i fili
de' bei convolvoli rosa!

Brilla nel mezzo un tranquillo
disco di limpida vasca,
oscilla un petalo e casca
presso il minuto zampillo;

par che gli zefiri mossi
lancin le blande farfalle
su le gaggie, su le palle-
di-neve, sui cacti rossi;

che il sol, disceso da un regno
d'oro, d'azzurro, d'opale,
entri siccome un mortale
dal cancelletto di legno,

mentre la buona stazione
che s'alza rosea d'accanto
dice il suo nome di santo
quasi con circospezione!

E noi si va chi sa dove,
poveri illusi, si va
in cerca di felicità,
verso città sempre nuove,

verso l'ignoto e la sera!
Invece lì nel giardino
veduto dal finestrino
c'è tutta la primavera!

E c'è una gaia fanciulla
che ride un riso sereno
e non si cura del treno
e non si cura di nulla...

Giardino della stazione
di San Martino o San Celso
con quel cipresso o quel gelso
che a lato fa da padrone,

giardino di devozione
che ascolta attento e tranquillo
la voce dello zampillo,
il rombo del calabrone!

Chi scenderà dal vagone
per rimanere ed amare
le tue belle iridi chiare,
figlia del capo-stazione?

(Da "Poesie 1905-1914", Treves, Milano 1919)





3022
di Nicola Moscardelli (1894-1943)

O locomotiva, come sbuffavi triste
sotto il padiglione affumicato della stazione!
M'avvicinai ma non osai toccarti
perché ansimavi come una bagascia.

3022 sempre tu!
T'ho rivista chissà quante volte
più lustra e più pulita
e ho allungata la mano
per carezzarti i fianchi,
ma cento padroni
m'hanno fatto tornare indietro -
E mi son contentato di guardarti
dietro i vetri del buffet. -
Oh poterti offrire un caffè
prima di partire!
ma il capostazione non vuole.

M'hanno detto che una volta sei caduta
ma - non completamente perduta -
ti sei salvata a tempo.
Non essere così sventata...
ahi! non fischiar così
tu mi strappi le orecchie. -
Hai ragione, bisogna partire!

Oh accendere un cerino
sul tuo ventre caldo:
fumare una sigaretta
insieme col tuo fumaiolo!
- fuggiamo insieme - mi strepiti da un'ora
ma tu sai bene ch'io non voglio partire.
E se mi porti via a tradimento
mi confonderò col tuo fumo lento lento
- Saranno i baci che mi mandi non vista -
(il capo stazione è lontano):
rannicchiato come un topo che va per mare
cercherò d'essere locomotiva io pure.
E nelle gallerie piene dei tuoi baci
verserò una lagrima,
una povera lagrima perduta,
mentre sotto i miei piedi
tutti i demoni scatenati danzeranno
qualche fantasia per te che amano
e cantano con voce di metallo
caldo strisciante affebbrato.

Alla prima stazione ti lascerò
e ti manderò una cartolina illustrata
dal mio paese dove non t'hanno mai vista.
Vedrò per l'ultima volta di lontano
il tuo fumo che gira che gira per l'aria
e mi sembrerà il fazzoletto rosso
che agitano gli emigranti
prima di partire per l'America.
Giunto a casa ritornerò bambino
con una locomotiva di latta
(fosti il mio primo amore!).

Oh potrei fare una dichiarazione,
ma il capostazione non vuole!
Che ci sia qualche relazione
fra te ed il capostazione?

O locomotiva, come sbuffavi triste
sotto la piccola stazione
quando non ebbi cuore di toccarti!
Che forse soffrivi
perché lasciavi il capostazione?

(Da "Abbeveratoio", Libreria della Voce, Firenze 1915)





ALLA STAZIONE
di Yosto Randaccio (1880-1965)

È tardi. Non li senti
tu questi brividi dell'aria?
Sempre un'ala di gelo che svaria
d'intorno. Che vespero triste!

Su i rudi passoni,
là, nel molo, ero solo. Nessuno
dei soliti, sai, v'era. Ero solo.
Che vespero triste, che cielo!
Nel cielo stendevano un velo
di duolo.
Il mare facevansi bruno,
il grecale fischiava.
Che sbattiti di cavalloni!
Levavasi a volo un gabbiano,
guardavami in fretta, gridava
e fuggiva lontano.
Un'anima stanca penava.

E sono venuto qui di corsa.
È sabato, oggi: forse
arriverà molta gente.
Arriveranno signore... Rammenti
quanta folla sabato scorso?
Potrebbe venire anche lei
certo. Chi sa che lontana non senta
l'anima mia che la vuole!
Ma il cuore ripete
tre cupe parole:
- Demente demente demente!

Certo, arriverà qualcuno.
Così sarò lieto. Dove vanno
questi miei giorni convalescenti?
A quale profondo mistero
de l'anima? Ritorneranno?
Ma senti: è la vaporiera.
Tarda molto stasera.
Pare moribonda quando
giunge qui la vaporiera!
Perché? si direbbe, mio Dio,
che senta qualcosa di morto.
Ma questa è la riva de l'oblio?
La terra de la morte?
Mi dimenticheranno?

Chi arriva? Nessuno, nessuno
a gli sportelli. Vedi, 
non è venuto nessuno,
stasera. Che tristezza!
Non piango di dolore, vedi
è una lagrima di tenerezza
che viene quando penso a te.
Tu non mi dimentichi, mamma!
Non piango. Non spasimo più così forte.
Ma tu non mi credi.
È vero, stasera, è venuto
un nero convoglio di morte.

(Dalla rivista «Riviera ligure», marzo 1905)





SALA D'ASPETTO
di Diego Valeri (1887-1976)

Arrivato anche a questa stazione
del viaggio della mia vita.
Nell'attesa di ripartire
verso un'altra stazione
del viaggio della mia vita.

Poche lampade fioche,
annegate in un giallastro grigiore
viscido di vernice...

Dentro la nera cornice
del finestrone di fondo,
vedo la sera che muore,
tenero barlume biondo,
soave musica muta,
sui tetri giardini
della città sconosciuta.
Alle spalle, sento il lucido gelo
della strada d'acciaio che va,
immota sotto l'immoto cielo,
attraverso l'immensità.

Un fischio lontano; un vicino brusio
di voci; un trito scampanellio,
senza posa, senza posa.

Tra un cupo silenzio improvviso,
venuta chissà di dove,
una campana d'avemaria
mi posa
una molle carezza sul viso,
m'apre il cuore, vi piove
la dolcezza della casa lontana,
il sorriso della donna lontana,
tutto il canto e tutto il pianto
della mia vita lontana.
O passione vana
della mia vita vana,
ti chiamo e t'amo disperatamente,
come nell'ora dell'agonia!
T'amo e ti chiamo disperatamente,
con tutta l'anima mia...

Guardo intorno. Qualche triste ombra umana
si muove per il grigiore giallastro.
Le vetrate sono ora turchine,
d'un terso turchino, trasparente, incantato,
con qualche bianco brivido d'astro.

Chi mi trarrà da questo fondo di perdizione?
Chi strapperà alla sua sorte
il ferito senza nome,
il disperso,
abbandonato alla notte e alla morte,
solo, con la sua disperazione,
su l'ultimo confine dell'universo?...

(Da "Ariele", Mondadori, Milano-Roma 1924)





STAZIONE
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

In sere d'eterno
diluvio m'è grato rifugio
la cupola inferna
della stazione; e mi basta
sentire l'odore di solfo
del fumo dei treni
perché subito si sfreni
la mia fantasia sedentaria
e via se ne fugga
fuor della scura tettoia
cercando nel buio dei prati
la gioia
dell'erba nera che succhia la pioggia.

Cammino su e giù per l'asfalto
di questa gran piazza coperta
che simula un vuoto mercato
o una cattedrale smessa.
I greci avevano il portico candido,
ma a noi meglio si conviene
questo fumoso chiesone
sconsacrato, ridotto a stazione.
Chiaror di lampi celebra
sotto l'arco di ferro
il puro altare delle montuose nevi.

(Da "Conclave dei sogni", Novissima, Roma 1935)