lunedì 14 gennaio 2013

10 poesie di 10 poeti italiani sulle maschere di Carnevale

Arlecchino, Pulcinella, Colombina e tante altre maschere di carnevale nacquero circa cinquecento anni fa nella cosiddetta "Commedia dell'arte" che non era precisamente una rappresentazione teatrale ma molto vi assomigliava e molto si basava sull'improvvisazione. Queste maschere carnevalesche divennero sempre più famose nei secoli ed ancora oggi, anche se non come un centinaio di anni fa, sono largamente conosciute. Andando a cercare delle poesie dedicate a loro, ho notato che il personaggio più presente nei versi dei poeti italiani è Arlecchino. Questa maschera nacque in un quartiere di Bergamo ed ebbe il suo periodo d'oro durante il XVII secolo. Il nome deriva dal francese arcaico: "Hellequin" ovvero un diavolo presente in alcune leggende del Medioevo. Arlecchino è raffigurato con un grosso cappello bianco, una maschera nera e un vestito multicolore. Fu Carlo Goldoni a caratterizzare più nettamente questa maschera, rappresentandola nei panni di un uomo del popolo che, malgrado qualche pecca, aveva un comportamento onesto e assennato.
Corrado Govoni in modo irriverente definisce Arlecchino come un "pitocco" che chiede la carità, questo avviene in un sonetto di cui riporto la prima quartina: «Un tempo egli faceva ridere la gente, / ora va in elemosina con la bisaccia, / un tricorno con il codino che si stacca / e sotto il braccio una mandola sofferente».
Più rispettoso di Govoni è Raffaele Carrieri che dedica ad Arlecchino, tra le altre, una poesia in cui lo definisce "principe": «Arlecchino mio buon principe / Delfino primo / Del salto mortale, / Stracca è l'arpa / Per tanto suonare. / Alla fine di ogni vita / Stringe polvere la calamita».
Gianni Rodari nella filastrocca Il vestito di Arlecchino racconta con grande fantasia la nascita del variopinto costume ad opera di vari personaggi, tutti appartenenti alla tradizione popolare delle maschere italiane: «Per fare un vestito ad Arlecchino / ci mise una toppa Meneghino, / / ne mise un'altra Pulcinella, / una Gianduia, una Brighella. / / Pantalone, vecchio pidocchio, / ci mise uno strappo sul ginocchio, / / e Stenterello, largo di mano, / qualche macchia di vino toscano...».
Roberto Mussapi ha scritto una poesia intitolata Il sangue di Arlecchino dove si parla del ritrovamento della maschera vuota di Arlecchino che si affloscia nell'acqua piovana mentre la gente passando guarda attonita quel mistero: «[...] passanti faticosi e attoniti / guardano il suo costume distrutto dalla pioggia, / cercando resti di carne, densità di polpe / tra i brandelli, tra i colori infiniti / confusi dalla morte e dallo stillicidio / in un unico viola attraversato / da trasparenze e cupe o limpide correnti...».
Un'altra maschera popolarissima in Italia è quella di Pulcinella. Col vestito completamente bianco (cappello, camicia e pantaloni larghi), con una maschera nera che copre gli occhi ed il naso, Pulcinella nacque nella città di Napoli nel XVI secolo grazie all'attore Silvio Fiorillo; ossessionato dal cibo, che cerca di procurarsi in tutti i modi, Pulcinella mostra una pancia sproporzionata. Spesso è stato ritratto col mandolino o con un bastone, arma che usa contro i suoi nemici con grande violenza. Remigio Zena scrisse una poesia su Pulcinella dedicandola alla memoria del comico Antonio Petito, divenuto famoso nell'Ottocento quando, interpretando la maschera napoletana, modificò la sua messa in scena, presentandosi davanti al pubblico con un cilindro e una redingote sovrapposta alla camicia bianca. Ecco una strofa della poesia di Zena: «Perchè su quelle tavole / Nell'età tua più bella, / Salisti colla lurida / Veste di Pulcinella? / Era di gloria un sogno, / Cupidigia o bisogno? / Nol so, ma la miseria / T'affisse senza tregua, / Ed il tuo nome in nebbia / Fin d'oggi si dilegua».
Marco Lessona s'inventa una Epistola di Pulcinella a Colombina nella quale la maschera partenopea esorta la bella Colombina a concedersi alle sue avances: «Bella Colombina, vuoi dirmi di sì? / Del fiore, / Che sboccia dentro il tuo cuore, / Vuoi darne anche un petalo a me? / Vuoi darmi / Un poco d'amore? / Vuoi farmi / Assai più contento d'un re?».
Pierrot è una maschera italiana malgrado il nome francese, nacque nel XVI secolo nella Commedia dell'Arte con le caratteristiche del servo astuto (il cosiddetto Zanni) e col nome originario di Predolino; la maschera divenne famosa anche in Francia ma solo nel secolo successivo, prendendo il nome di Pierrot e assumendo quelle peculiarità per cui ancora oggi è conosciuto; Pierrot è infatti un mimo pallido e malinconico attratto dalla luna che indossa una papalina, una casacca e pantaloni di seta lunghi e bianchi. Il poeta Gian Pietro Lucini scrisse un libro intitolato I monologhi di Pierrot in cui dà la parola alla maschera triste con l'intento di polemizzare e criticare aspramente un certo tipo di società; eccone un passo tratto da Luna crescente: «Contano i gentiluomini che non faticano, / o che miglior fatica dicon l'amore, Gentiluomini frolli / a cui l'onore siede sul cordon bleu, o pur nei molti ornati / justacorps à brevet. I Persiani in Francia. / Salamelech, Salamelech; Pierrot e Pierrettes / fan grandi riverenze alle parvenze d'una celebrità, / e tutto appare azzurro ed ingemmato [...] ».
Olindo Guerrini nei due sonetti che portano il titolo di Giovedì grasso, descrive, all'apparir del giorno, l'uscita di Pierrot e di Colombina da un locale dove si sono appena conclusi i festeggiamenti di carnevale; i due, dopo la veglia, sono stravolti dall'eccesso di cibo e di alcol: «Pierrot, disfatto che mettea spavento, / mezzo briaco e mezzo addormentato, il ritratto parea del pentimento / / e Colombina intanto a lui da lato, / balbettando dicea: - Bada... mi sento... - / E con la testa al muro ha vomitato».
Gustavo Botta immagina un convegno di maschere in una notte di luna piena: «Nel bianco lume, radunate a crocchio / certe maschere attorno a Pulcinella / giulivo, che narrando strizza l'occhio, / s'incantano. E Rosaura ricciutella / squadra Arlecchino, dritto, con la mella / sott'il braccio ed al viso la canina / sua nera grinta. / Rosea, Colombina / ride [...] ».
Tito Marrone infine, vede le maschere dimenticate in un luogo buio tra le cose che non servono più a nulla: «Nell'antro dell'inutile ciarpame, / tra Capitan Spaventa / che si addormenta / per non fare il gradasso / e Arlecchino avvizzito / che basisce di fame / e la magra donzella Colombina / che non trovò marito, / Pantalone si esercita sul contrabbasso. / / Una vita da cani! Senza maschera, / son tutti in maschera!».
 



DIECI POESIE SULLE MASCHERE DI CARNEVALE


"Pulcinella" di Remigio Zena, in "Tutte le poesie", Cappelli, Bologna 1974.
"Luna crescente" di Gian Pietro Lucini, in "I monologhi di Pierrot", Lampi di Stampa, Milano 2003.
"Giovedì grasso" di Olindo Guerrini, in "Le Rime di Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903.
"Plenilunio" di Gustavo Botta, in "Alcuni scritti", Ariel, Milano 1952.
"Arlecchino pitocco" di Corrado Govoni, in "Poesie 1903-1958", Mondadori, Milano 2000.
"Troppe maschere" di Tito Marrone, in "Antologia poetica", Guida, Napoli 1974.
"Epistola di Pulcinella a Colombina" di Marco Lessona, in "Poesie", S.E.L.P., Torino 1930.
"Arlecchino mio buon principe" di Raffaele Carrieri, in "Stellacuore", Mondadori, Milano 1970.
"Il vestito di Arlecchino" di Gianni Rodari, in "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1960.
"Il sangue di Arlecchino" di Roberto Mussapi, in "Poesie", I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1993.

giovedì 10 gennaio 2013

Il Carnevale in dieci poesie italiane

Il Carnevale è una festa dai connotati prettamente profani che si festeggia nei paesi cattolici. Inizia il 17 di gennaio e termina il martedì (detto grasso) che precede il Mercoledì delle Ceneri ossia l'inizio della Quaresima; quest'ultimo varia di anno in anno a seconda del ciclo lunare. La caratteristica principale che contraddistingue la festa del Carnevale consiste nel mascheramento e nel divertimento sfrenato, a volte folle. I poeti italiani hanno spesso parlato nei loro versi del Carnevale, come anche delle maschere tradizionali (particolarmente di quelle italiane); quanto alle poesie scelte, questo post è dedicato più precisamente al Carnevale, mentre, per quel che riguarda le maschere, sarà opportuno un discorso a parte.
È un carnevale capitolino stanco, che si trascina per inerzia, quello descritto da Enrico Panzacchi nella poesia Carnevale romano, nella quale sono ricordati nostalgicamente anche gli ormai antichi fasti : «O stanco carneval, le vecchie istorie / rammenti? Uscivi dal pagan Lupercolo / tutti intronando delle tue baldorie / i vichi di Trastevere. [...] Passò stagione, o carnevale stanco; / passò stagione! La consuetudine / pigra or ti spinge; e tu tramuti il fianco / briaco di cantaridi».
Olindo Guerrini quando pubblicò le sue opere poetiche usò spesso degli pseudonimi, particolarmente famoso fu quello di Lorenzo Stecchetti; con questo nome uscì la raccolta Polemica dove è presente una lirica in cui l'autore, durante i festeggiamenti del carnevale, nasconde il suo dolore con la maschera facciale sorridente e fintamente divertita. Eccone una strofa: «Ben ritornato, carneval giocondo; / Eccomi serio: ecco ripiglio, o mondo, / La maschera bugiarda. / Oh, non tradire il mio dolor segreto, / Pallido aspetto mio! Mostrati lieto, / Chè la folla ti guarda».
Doloroso è anche il carnevale della poesia di Guido Mazzoni: Notte di carnevale in cui il poeta invoca la pioggia (scrosciante nell'ultima notte carnevalesca) affinchè spazzi via tutte le maschere festanti sulla via: «Ben su questa ubriaca follia / D'una gente che ha fame e gavazza, / Bene, o pioggia, tu scrosci: e tu spazza / Dalle maschere urlanti la via!». Ma perchè questo acre risentimento, questa rabbia intensa del poeta? Il motivo è spiegato nella seconda quartina della poesia e si collega ai gravi lutti familiari che lo hanno colpito fortemente: «La mia Nella è laggiù, presso il mare; / È mio padre laggiù, nella fossa: / Oh ch'io possa alla Nella, ch'io possa / A mio padre, a mio padre, pensare!».
È un carnevale triste anche quello descritto dal poeta crepuscolare Tito Marrone, autore di molte poesie dedicate alla festa invernale. Attimo così come la poesia menzionata in precedenza, parla degli ultimi sprazzi del carnevale che "agonizza" e "muor di malinconia": «Agonizza il carnevale / per le strade / con gli ultimi strilli dell'ultime maschere. / [...] A poco a poco, mezz'annoiato / lascia cader le sue gale, / che muta in cenci il fango della via. / Muor di malinconia, / mascherina mia».
Un altro poeta crepuscolare: Carlo Chiaves, nella poesia intitolata Carnevale, riferendosi ai festeggiamenti parla di "volti tristi" nascosti dalle maschere e di "umanità a sé bugiarda", il tutto per sottolineare l'aspetto sostanzialmente falso della festa che costringe ad esibire divertimento e felicità: «Tra gli chiamazzi e la follia, se vuoi, / noi pure andremo. Celeremo i tristi / volti sotto la maschera, e, non visti, / potrem sognare di non esser noi. / / Chissà! Con tanta umanità frammisti / a sé bugiarda ed ai pensieri suoi / potrò creder ch'io t'amo, che tu puoi / volermi bene, che tu sola esisti».
Dai toni decisamente differenti è la poesia di Sergio Ortolani: Carnovale, tutta concentrata sul lato giocoso della festa già nelle prime due quartine: «E tricche-tracche e nacchere / e tamburelli da gitana / tutt'a un tratto schioccano una musica pacchiana. / / Pifferi, chitarrini e ciaramelle / guidano il coro in voce di falsetto. / Sopra i vicoli altissimi del ghetto / fra gronda e gronda ammiccano le stelle».
Una filastrocca tra il surreale e il fantastico è Carnevale di Gianni Rodari; qui il protagonista è un cappello senza testa che passeggia tranquillamente per le strade di una città; le persone, vedendolo, reagiscono dicendo queste parole: «- È scappato dalla vetrina! / - Certo, è un cappello ladro! / - Portatelo in guardina!». Ma il copricapo gli risponde per le rime: «- Calma, - disse il cappello, / - oggi ogni scherzo vale. / Molta gente va in giro senza testa / anche quando non è carnevale».
Una semplice e gioiosa scena di una festa provinciale è fotografata da Gian Carlo Conti nella poesia Carnevale in un borgo di pianura: «Una bruna baccante di paese / getta fiori dal carro e saettanti / coriandoli; a lei per un istante / ci unisce una fragile teleferica di carta». Il finale denota un evidente entusiasmo provato dal poeta, sia per l'imminente arrivo della primavera che per la consapevolezza di vivere il periodo più bello della vita: la gioventù: «Il vento reca un lieto presagio, primavera, / ed io lancio l'amore, i miei vent'anni, / a tutta forza contro un alto balcone».
Concludo con due poesie dalle caratteristiche decisamente inquietanti. La prima, di Arnaldo Beccaria, vede la presenza di fantasmi che, in una notte di carnevale, suonano il campanello della casa del poeta per invitarlo ad andare con loro per le strade a festeggiare: «I morti ridono dietro la mia porta. / Hanno suonato il campanello, sanno / che verrò io ad aprire. / Ammiccano, gesticolano fra loro, / si spingono per farsi avanti, e ridono / - il sottoterra li ha semidivorati, / carni e vestiti - ridono, a brandelli, / perché hanno complottato d'invitarmi / ad uscire con loro, tutti in gruppo, / in mezzo al carnevale che per le strade impazza».
L'ultima è in dialetto veneto, l'autore è Fernando Bandini che dà voce ad un bambino vittima di uno spaventoso incubo: durante un giorno di carnevale, in una via il piccolo che è mascherato da Pierrot incontra un tizio travestito da donna grassa che lo ferma e lo invita nella sua casa allettandolo con dei dolci e dei giocattoli: «Ciò, bel toseto, vuto / vegner su a casa mia? / Go confeti e coriandoli, / un trenin co la susta / che fa tuu tuu, na bela scuria e un burlo...». Il bambino lo segue ma una volta entrato nell'edificio scopre di avere a che fare con un mostro e esclama: «Mama, che 'l ga 'l cortelo! / Mama, che 'l perde bava / da la dentiera come un can buldò!».  


 
 
IL CARNEVALE IN DIECI POESIE ITALIANE


"Carnevale romano" di Enrico Panzacchi, in "Poesie", Zanichelli, Bologna 1908.
"Ben ritornato, carneval giocondo" di Olindo Guerrini, in "Le Rime di Lorenzo Stecchetti", Bologna, Zanichelli 1903.
"Notte di carnevale" di Guido Mazzoni, in "Poesie", Zanichelli, Bologna 1913.
"Attimo" di Tito Marrone, in "Antologia poetica", Guida, Napoli 1974.
"Carnevale" di Carlo Chiaves, in "Tutte le poesie", Istituto di Propaganda Libraria, Milano 1971.
"Carnovale" di Sergio Ortolani, in "Poesie", Mondadori, Milano 1957.
"Carnevale" di Gianni Rodari, in "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1960.
"Carnevale in un borgo di pianura" di Gian Carlo Conti, in "Non si ricordano più. Le poesie", Guanda, Parma 1991.
"Carnevale" di Arnaldo Beccaria, in "Sull'orlo del cratere", Mondadori, Milano 1966.
"Carnevale" di Fernando Bandini, in "Santi di Dicembre", Garzanti, Milano 1994.

lunedì 7 gennaio 2013

Antologie: Un secolo di poesia

Tra le antologie della poesia italiana destinate ad un uso scolastico, pubblicate entro i primi anni del secondo dopoguerra del XX secolo, è certamente il caso di ricordare "Un scecolo di poesia", a cura di G. A. Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957. Come specifica il sottotitolo: "Antologia della lirica italiana dal 1850 ad oggi", si tratta di un riassunto della migliore poesia italiana che parte dalla metà dell'Ottocento e giunge fino ed oltre la metà del Novecento. Il libro, in verità molto bello, ha una custodia in cartone e, al suo interno, si avvale di immagini riguardanti sia i volti dei poeti selezionati (fotografie o disegni), sia opere pittoriche di artisti attivi nell'arco del periodo storico menzionato. Piuttosto discutibile appare la divisione in gruppi che il Pellegrinetti attua; infatti, inserire tra gli "ultimi romantici" poeti come Giacomo Zanella, Arturo Graf e Pompeo Bettini mi sembra decisamente una forzatura, così come accomunare i futuristi ed i vociani in un unico gruppo, visto che alcuni dei poeti presenti hanno, come comun denominatore soltanto il periodo temporale in cui pubblicarono i loro versi. Sorprende infine trovare, tra i poeti dialettali, anche il nome di Sebastiano Satta, il quale, se è vero che descrisse in versi la sua regione di nascita, è anche vero che lo fece sempre in lingua italiana. Ecco, per terminare, l'elenco dei poeti presenti in "Un secolo di poesia".
 




 

I - GLI ULTIMI ROMANTICI

Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Giacomo Zanella, Antonio Fogazzaro, Arturo Graf, Pompeo Bettini.
 


 
II - LA SCAPIGLIATURA

Emilio Praga, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Iginio Ugo Tarchetti.
 
 


III - I TRE GRANDI: Carducci, Pascoli, D'Annunzio - Neoclassici, «pascoliani», decadenti

Giosuè Carducci, Domenico Gnoli, Enrico Panzacchi, Mario Rapisardi, Giuseppe Manni, Giovanni Marradi, Guido Mazzoni, Giovanni Alfredo Cesareo, Giovanni Bertacchi, Antonino Anile, Ada Negri, Francesco Pastonchi, Giovanni Pascoli, Severino Ferrari, Angiolo Silvio Novaro, Pietro Mastri, Diego Valeri, Giuseppe Villaroel, Renzo Pezzani, Gabriele D'Annunzio, Vittoria Aganoor Pompilj, Giulio Salvadori, Adolfo De Bosis, Giovanni Cena, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Sibilla Aleramo.
 

 
IV - I CREPUSCOLARI

Giulio Gianelli, Tito Marrone, Guido Gozzano, Corrado Govoni, Marino Moretti, Sergio Corazzini.
 

 
V - FUTURISTI E VOCIANI

Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Papini, Luciano Folgore, Pietro Jahier, Dino Campana, Arturo Onofri, Clemente Rebora, Aldo Palazzeschi, Camillo Sbarbaro, Lionello Fiumi.
 

 
VI - GLI ERMETICI

Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Sandro Penna, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, Antonia Pozzi, Vittorio Sereni, Mario Luzi.
 

 
VII - I POETI DELLA TRADIZIONE

Umberto Saba, Garibaldo Alessandrini, Vincenzo Cardarelli, Vittorio Locchi, Giovanni Titta Rosa, Ugo Betti, Luigi Bartolini, Elpidio Jenco, Giuseppe Gerini, Filippo De Pisis, Adriano Grande, Carlo Betocchi, Cesare Pavese.
 
 

VIII - VOCI NUOVE - I POETI DELLA QUARTA GENERAZIONE - POESIA DIALETTALE

Raffaele Carrieri, Giuseppina Sperandeo Cosco, Nella Zoja, Attilio Bertolucci, Salvatore Comes, Giorgio Caproni, Alessandro Parronchi, Bortolo Pento, Giorgio Orelli, Sebastiano Satta, Cesare Pascarella, Salvatore Di Giacomo, Trilussa, Virgilio Giotti.

domenica 6 gennaio 2013

Il rimpianto del passato in dieci capolavori della poesia italiana

«La mia immaginazione, che nella giovinezza andava sempre in avanti ed ora va a ritroso, compensa con quei dolci ricordi la speranza che ho perduto per sempre. Non vedo più nulla nell'avvenire che mi tenti, solo ritorni del passato possono lusingarmi, e quei ritorni così vivi e così veri nel periodo di cui parlo mi fanno spesso vivere felice nonostante le mie sventure». Questa frase fa parte delle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau e ben rispecchia un preciso pensiero e una particolare visione della vita. Il passato può diventare, per chi non ha un presente particolarmente entusiasmante e per chi non vede nel futuro nulla di positivo, un'ancora di salvezza, il luogo dei ricordi cari, dei bei tempi, dell'inconsapevolezza infantile in cui tornare con l'immaginazione, unica possibile via praticabile, poichè è chiara la coscienza di non poter più rivivere ciò che è indietro nel tempo. Certo, insieme alla nostalgia del passato è facile che ci sia anche del rimpianto, soprattutto perchè chi riconosce i propri errori è pronto anche a confessare che, se potesse tornare indietro nel tempo, in alcune occasioni si sarebbe comportato in maniera diversa, oppure avrebbe fatto delle cose che non fece mai; a questo proposito c'è un passo della poesia Cocotte di Guido Gozzano che rende perfettamente l'idea: «Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state...». Se si riflette su queste parole, si ha la chiara impressione di una deviazione mentale che induce una persona a preferire tutto ciò che riguarda il passato, compreso quello che non è mai esistito, ma che con l'immaginazione si può comunque inventare. Sempre Gozzano, nella famosa poesia L'amica di nonna Speranza, fa un elenco di vecchi oggetti che passeranno alla storia come le "buone cose di pessimo gusto", anche in questo caso c'è un evidente tendenza a ricordare, elencare e rimpiangere una serie di elementi appartenenti al passato che acquistano un valore spropositato nella mente di chi prova immenso piacere nel rievocarli: «Loreto impagliato ed il busto d'Alfieri, di Napoleone, / i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto), / il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti, / i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro...». Ma quali sono i periodi della vita più rimpianti?, quali sono gli anni che ricordiamo con più nostalgia? Senz'altro il periodo dell'infanzia e quello della gioventù sono ai primi due posti; l'infanzia è certamente un periodo irripetibile della vita, se è possibile per qualcuno vivere una seconda gioventù, è sicuro che nessuno vivrà mai una seconda infanzia. Tra i poeti che spesso nei loro versi rievocano il periodo infantile c'è Giovanni Pascoli, assertore, fra l'altro, della poetica del fanciullino; in Le ciaramelle, poesia appartenente alla raccolta I Canti di Castelvecchio, il poeta emiliano ha la sensazione di rivivere momenti della fanciullezza sentendo suonare da alcuni zampognari, in giorni vicini alle feste natalizie, le ciaramelle, antichi strumenti popolari a fiato, usati soprattutto in occasione del Natale quando, con le ciaramelle e con le zampogne, venivano eseguite le classiche canzoni natalizie: «O ciaramelle degli anni primi, / d'avanti il giorno, d'avanti il vero, / or che le stelle son là sublimi, / conscie del nostro breve mistero; / / che non ancora si pensa al pane, / che non ancora s'accende il fuoco; / prima del grido delle campane / fateci dunque piangere un poco». Anche Giuseppe Ungaretti e Leonardo Sinisgalli in due brevi poesie rimpiangono il periodo infantile: Ungaretti nella poesia Tutto ho perduto dichiara la propria amara consapevolezza di aver perso per sempre l'età più bella e di vivere in un presente assai doloroso: «L'infanzia ho sotterrato / nel fondo delle notti / e ora, spada invisibile, mi separa da tutto. [...] La vita non mi è più, / arrestata in fondo alla gola, / che una roccia di gridi». Non lontana da quest'ultima è la poesia di Sinisgalli, che con poche, bellissime immagini rievoca quell'imparagonabile periodo della vita: «La luce era gridata a perdifiato / le sere che il sole basso / arrossava il petto delle rondini rase». Nell'ultimo verso, indimenticabile per originalità e bellezza, il poeta lucano confessa un quotidiano, nostalgico ritorno con la mente in quell'età lontana: «Ogni sera mi vado incontro a ritroso». Anche Giosue Carducci mostra tutto il suo rimpianto per l'età della puerizia nella sua celebre lirica Davanti San Guido dove, tornato in un luogo molto caro della sua infanzia, il viale alberato tra l'oratorio di San Guido e Bolgheri, s'immagina che i "cipressetti" posti intorno alla strada lo chiamino perchè torni, come usava fare da bambino, a giocare con loro; e il poeta gli risponde che non può più tornare ma lo farebbe molto volentieri, se solo potesse, per rivivere quel tempo meraviglioso: « - Bei cipressetti, cipressetti miei, / fedeli amici d'un tempo migliore, / oh di che cuor con voi mi resterei - / guardando io rispondeva - oh di che cuore! / / Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire: / or non è più quel tempo e quell'età. / Se voi sapeste!... via, non fo per dire, / ma oggi sono una celebrità». Un rimpianto molto sincero e doloroso è quello descritto da Salvatore Quasimodo nella poesia Vento a Tindari che parla della sua infanzia trascorsa in Sicilia come di un tempo mitico, fuori dal tempo, quasi fosse un sogno e non sia invece stato vissuto veramente dal poeta: «Tindari, mite ti so / fra larghi colli pensile sull'acque / dell'isole dolci del dio / oggi m'assali / e ti chini in cuore». Marino Moretti nella poesia Poggiolini rimpiange il periodo passato sui banchi di scuola e in particolare il suo compagno di banco Poggiolini, ma non solo, perchè nel componimento riesce a ricordare con nostalgia l'elenco dei cognomi di molti ex compagni di scuola: «Il registro a cui tutti eran diretti / quando ci interrogavano gli sguardi, / io lo sapevo in mente: Leonardi, / Massari, Mauri, Mengoli, Moretti... / / Il registro coi voti piccolini / nelle caselle dietro i nomi grandi / tu lo sapevi a mente: Nolli, Orlandi, / Ostiglia, Paggi, Poggi, Poggiolini...». Per ricordare un momento o una stagione del passato spesso può essere sufficiente ascoltare una vecchia canzone o, come nel caso della poesia di Guelfo Civinini Una romanza dimenticata, note ormai sbiadite dal tempo che però posseggono un fascino unico per chi, riascoltandole, torna a rivivere un'epoca felice come la gioventù: «una canzone dolce e bizzarra, / parole e musica di primavera, / che accompagnavo con la chitarra / vagabondando con la guerriera / dei miei verd'anni giovin tribù / lungo le siepi della speranza». Voglio chiudere con la poesia più importante: Le ricordanze di Giacomo Leopardi, i cui versi iniziali sono semplicemente grandiosi: «Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea / tornare ancor per uso a contemplarvi / sul paterno giardino scintillanti / e ragionar con voi dalle finestre / di questo albergo ove abitai fanciullo, / e delle gioie mie vidi la fine». Il poeta torna, dopo un'assenza di tre anni, nella casa paterna, a guardare e a parlare con le stelle, così ritornano tutti i ricordi, le speranze, le illusioni e le gioie vissute nell'età infantile e giovanile; ma tutte queste cose oggi non sono più e malinconicamente Leopardi si rende conto di aver perso, con quel periodo felice, la parte migliore della sua vita: «Ahi, ma qualvolta / a voi ripenso, o mie speranze antiche, / ed a quel caro immaginar mio primo; / indi riguardo il viver mio sì vile /e sì dolente, e che la morte è quello / che di cotanta speme oggi m'avanza; / sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto / consolarmi non so del mio destino».
 
 
 
IL RIMPIANTO DEL PASSATO IN DIECI CAPOLAVORI DELLA POESIA ITALIANA


"Le ricordanze" di Giacomo Leopardi, in "Canti" (1831).
"Davanti San Guido" di Giosue Carducci, in "Rime nuove" (1887).
"Le ciaramelle" di Giovanni Pascoli, in "Canti di Castelvecchio" (1903).
"Poggiolini" di Marino Moretti in "Poesie scritte col lapis" (1910).
"L'amica di nonna Speranza" di Guido Gozzano in "I colloqui" (1911).
"Cocotte" di Guido Gozzano, da "I colloqui" (1911).
"Una romanza dimenticata" di Guelfo Civinini, in "I sentieri e le nuvole" (1911).
"Vento a Tindari" di Salvatore Quasimodo in "Acque e terre" (1930).
"La luce era gridata a perdifiato" di Leonardo Sinisgalli, in "Vidi le muse" (1943).
"Tutto ho perduto" di Giuseppe Ungaretti, in "Vita d'un uomo: Il Dolore" (1947).

venerdì 4 gennaio 2013

Poeti dimenticati: Riccardo Balsamo Crivelli

Nacque a Settimo Milanese nel 1874 e morì a Bordighera nel 1938. Di origini nobili, dopo una gioventù spensierata si dedicò agli studi letterari e cominciò a lavorare per la "Gazzetta letteraria" di Torino, nella cui redazione conobbe Enrico Thovez, Giuseppe Giacosa e Carlo Linati, di quest'ultimo divenne inseparabile amico. Completamente estraneo alle tendenze poetiche del suo tempo, Balsamo Crivelli fu grande appassionato della lirica trecentesca e quattrocentesca, lo dimostrano molti tra i suoi versi, che si rifanno evidentemente a quel periodo. La sua opera poetica ebbe apprezzamenti importanti da critici quali Benedetto Croce e Pietro Pancrazi, mentre i suoi romanzi e i suoi racconti non riscossero molto successo e finirono presto dimenticati. Il suo libro più famoso è "Boccaccino", poema satirico pubblicato per la prima volta nel 1920.
 
 
 
Opere poetiche


"Rime Satiresche e Burlesche", Tipografia del Rinascimento, Milano 1896.
"Boccaccino", Laterza, Bari 1920.
"Rossin di Maremma", Mondadori, Milano 1922.
"La Fiaba di Calugino", Laterza, Bari 1926.
"Il poema di Gesù", Ceschina, Milano 1928.
"Cammin lungo", Preda, Milano 1931.
 
 

 
Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 1, pp. 36-42).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (p. 236).
 
 

 
Testi

NEL BOSCO

Fontanella che sgorghi di quel sasso
e sdruccioli giù giù per il dechino,
t'ho scoperta e ti seguo passo passo
e mi par tanto bello il tuo cammino.

Tu sai che mi dà noia il puzzo, il chiasso
della città, ogni fumo di camino,
e ch'Iddio prego e prego Satanasso
che la distrugga insino a un muro, insino!

Tu che sei così pura e così bella
e così stietta e vai tra l'erbe e i fiori,
sei 'l fatto mio, vezzosa fontanella.

Il mattin frange tutti i suoi colori
nell'acqua tua, mentre fugge e saltella:
tu vai col cielo e io co' miei dolori.

(Da "Il Rossin di Maremma")




giovedì 3 gennaio 2013

Gennaio in 10 poesie di 10 poeti italiani del '900

Il primo mese dell'anno, nei versi dei poeti italiani del XX secolo appare per quello che è: freddo, a volte gelido, altre volte ancora mite; alcuni si concentrano sulle speranze (quasi sempre non realizzate) di cui gennaio si rende portatore, quando regala in anticipo delle giornate primaverili così tiepide che alcune piante cominciano a gemmare. Nella maggior parte delle situazioni però domina la neve o il ghiaccio, e la natura dorme ancora profondamente nell'attesa del risveglio primaverile ancora lontano.
 


 
FLORA NIVALIS
di Arturo Graf (1848-1913)


Bianco di neve, lucido di gelo,
Grandeggia il bosco in cupo sonno immerso:
Scintillante di stelle, algido, terso,
Traspar fra i rami irrigiditi il cielo.

E la crescente luna di gennajo,
Che nel sommo del ciel splende falcata,
Sembra una squamma d’oro intarsïata
In uno specchio di brunito acciajo.

Trema per l’alta notte e pei divini
Soporati silenzii a quando a quando
Teneramente doloroso e blando
Un gorgheggio di flauti e di clarini.

Chi è costei che così sola e franca
Per la foresta, in mezzo all’ombre, incede,
E segna appena con lo scarso piede
In suo cammin la intatta neve e bianca?

Chi è costei che in verde gonna, cinta
L’aureo capo di sì pia corona,
Raggia da tutta la gentil persona
Il dolce lume onde l’aurora è tinta?

Di quanti fior la primavera i piani
Allieta e i clivi ed ogni erboso lembo,
Tu fiorite hai le trecce e pieno il grembo,
E piene, o cara, ambe le bianche mani.

O donzelletta, cui benigno elesse
A così nova meraviglia il cielo,
Stringe ogni gleba aspro e tenace il gelo:
Tu dov’hai colta sì gioconda messe?

O cara e pia! se amor non anche è morto,
Spargi lungo la via; spargi i tuoi fiori:
Troppo è la via selvaggia ed aspra, e i cuori
Vengon men per l’angoscia e lo sconforto.

(Da "Morgana", Treves, Milano 1901)


 
 
 
GENNAIO
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

Ormai passò la rosea cavalcata
dei giovinetti mesi ingannatori,
che vestita l'avean tutta di fiori
e di sole e d'azzurro incappucciata.

Or ripensa la grande traviata
d'Aprile i ricci e i facili rossori;
e derelitta guarda i suoi squallori
e fa l'ammenda delle sue peccata.

E viene per perdono a fra' Gennaio,
dicendo l'atto di contrizione,
e s'umilia e gli bacia il vecchio saio.

«Padre - gli dice - voglio farmi monaca.»
E quei sorride incredulo e le impone
di neve fugacissima una tonaca.

(Da "Resine", Caimo, Genova 1911)
 


 
 
14 GENNAIO
di Giovanni Papini (1881-1956)


C'è sulla terra, in mezzo a tanti scompigli, una gran pace anticipata. Par d'essere di già in primavera. Un sole chiaro e tepido di marzo si glorieggia sui ponti scoperti e sui marciapiedi sereni, sul capo dei ragazzi e sulle bucce dei mandarini. Rispondono, tra i fili fitti dell'erba bambina, le pupillone gialle delle prime margherite. Non c' è zoppo che non t'offra manne di violette dall'undici alle cinque; le mostre dei fiorai son paradisi di rose sotto vetro: rose rosse come gote di ballerine; rose di carnato insensibilmente giallo come la pelle diaccia delle creole. E da parecchie mattine c' è uno strazio di rami stroncati di mandorlo, infiocchettàti di bianchezze innaturali.

(Da "Giorni di festa", Libreria della Voce, Firenze 1919)
 
 


 
GENNAIO
di Alfredo Baccelli (1863-1955)


Pure notti dall'alito di gelo,
dal terso plenilunio d'alabastro,
quando, berillo o diamante ogni astro,
d'occulto incendio disfavilla il cielo.

Solo nel prato il pallido asfodelo:
canuto di pruine l'oleastro:
nel presepe il pastor col suo vincastro:
ischeletrito il pero e 'l grisomelo;

ma nelle membra insolito vigore,
chiara e serena luce entro il pensiero,
e nell'intimo cuor lieto calore,

ché il nuov'anno promette, ed è foriero
di Primavera Inverno, e presto il fiore
smalterà i verdi labbri del sentiero.

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1929)
 
 


 
23 GENNAIO: SOLE
di Carlo Betocchi (1899-1986)


Anzi, quando l'onda è azzurra
devi pensar - non è nulla;
un sole bianco sul campo
è il manzo che riposa stanco.

Gennaio dai mille aghi sciolti
nel bianco fiore sepolti,
manca la viola al prato,
adunque tepor dissennato.

Che fa! ma gorgoglia bianca
l'onda che la riva incanta,
il sole giunge, si sfalda,
brilla, tocca l'acqua, salta.

I candidi ponti, le case,
un fervido biondo invase,
e il mendico, in solare palma
si distende con fede calma.

Al declinare impallidito
ti vedo, giorno infinito;
va la solitaria luna,
terra, sassi, deserta schiuma.

(Da "Realtà vince il sogno", Il Frontespizio, Firenze 1932)
 
 


 
GEMME DI GENNAIO
di Angiolo Orvieto (1869-1967)


Verdi gemme, bocciolini
chi vi ha fatto saltar fuori?
Non è ancor tempo di fiori
sugli spini.

Pur vedervi di gennaio
spande in me nuova dolcezza
e m'infonde tenerezza
per rosaio.

Quasi che il mio cuore stesso,
del suo verno al limitare,
speri ancor gli sia concesso
di gemmare.

(Da "Il gonfalon selvaggio", Mondadori, Milano 1934)
 
 


 
TRAMONTO
di Antonia Pozzi (1912-1938)


Fili neri di pioppi –
fili neri di nubi
sul cielo rosso –
e questa prima erba
libera dalla neve
chiara
che fa pensare alla primavera
e guardare
se ad una svolta
nascano le primule –
Ma il ghiaccio inazzurra i sentieri –
la nebbia addormenta i fossati –
un lento pallore devasta
i colori del cielo –
Scende la notte –
nessun fiore è nato –
è inverno – anima –
è inverno.

S. Martino – Milano, 10 gennaio 1933

(Da "Parole", Mondadori, Milano 1939)
 
 


 
GENNAIO 1946
di Franco Fortini (1917-1994)


Milano, cieche viscere ti colano
per le vie, di macerie nere; i fumi
che dai camini volano
son torvi e verdi; la vita, acre e sciatta.

Ma di quassù visibili
sono, nell'aria netta, l'Alpi. Ecco
lontane, irraggiungibili,
bianche e celesti le grandi montagne.

1946

(Da "Poesia ed errore", Feltrinelli, Milano 1959)
 
 


 
DOVE I RAGAZZI AMMAZZANO IL GENNAIO
di Giorgio Orelli (1921)


Con un passo men cauto mi precedi,
taciturno compagno, sulla strada
gelata. Non è il fuoco delle case
che mi chiama e soverchia questa sera
nell'intatto paese, ma lo strepito
inatteso che sale
con i fiati infingardi dell'inverno
dalla riva remota, irraggiungibile,
dove i ragazzi ammazzano il gennaio.

(Da "L'ora del tempo", Mondadori, Milano 1962)
 
 


 
GENNAIO VENEZIANO
(dopo vent'anni)

di Alberto Mondadori (1914-1976)


Propaga angoli morti l'alba tra ciuffi d'erbe
e nulla si disperde sottacqua
nel crogiuolo dove tutto diventa vegetale.
E ogni cosa risale dal rigurgito al ritmico
colpo della pertica: la zavorra semimossa,
una tregua al riparo che non lenisce
l'ombra sepolta, la sarabanda dei silenzi
che si disperdono laggiù e qui si riaffacciano
in termini clementi, e l'iride annebbiata
per il livido tanfo che l'incrosta
è di sopravvissuti istinti. Di più, dall'arcobaleno
di nafta fuoriesce il vértice spezzato. Ogni ordine
di affetti è qui un ossuto patteggiamento
col domani nel suo vòlto marino e ha un suo arduo
peso, faticoso, spesso strozzato in una fuga ansante
da scordare al più ilare andare della gondola con te.
Non ti spaura, come me, l'enigma di brulicanti
estensioni che qui stringe col suo cappio
il primo chiaro del mattino: dopo lo scontro
delle correnti sulla pista notturna esso brusco
si scioglie e a noi appare come visto nei due specchi
del coiffeur o moltiplicato nei più che mille brani
ghiacciati dalla bora. Si fa diverso per ogni gamma
che sale il bel tempo freddo a oriente, via scivola
con il pezzo di legno attraverso la laguna sterminata
di cui spegne i segnali mentre un barbaglio accende
rosso sanguedibue sulla dogana: vince il tuo sapere
leggere nei segni. Lucente lo scroscio delle eliche
rompe il giro del cordame, si destano le cupole
semiconsunte al rimbombo improvviso del bronzo
e non ci sbugiarda, questo gennaio almeno!,
inattesa la sofisticata morgana di Venezia
che seccamente disegna la tua bilanciata verità.

1961

(Da "L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", Martello, Milano 1963)




FINIS

martedì 1 gennaio 2013

Una poesia di Eros Alesi

La bellissima poesia che Eros Alesi (Ciampino 1951 - Roma 1971) ha dedicato a suo padre è stata definita da alcuni critici una "lettera" o un "testamento", certo è che possiede un'intensità, una drammaticità e un misticismo difficilmente ritrovabili in altri testi poetici; non vi sono dubbi poi sulla sincerità delle parole scritte dal poeta che si suicidò a vent'anni, dopo un periodo di gravi problematiche connesse all'uso di stupefacenti. Forse, l'unico paragone proponibile è quello con un'altra poesia-testamento: Desolazione del povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini; le accomuna soprattutto la indiscutibile schiettezza e la consapevolezza della morte imminente, per il resto esistono delle differenze sostanziali, visto che Alesi decise di togliersi la vita mentre Corazzini fu ucciso dalla tisi; c'è poi da evidenziare che Alesi nei suoi versi, altruisticamente si rivolge al padre, la cui figura acquista, grazie alle parole del figlio, una sorta di redenzione. Corazzini invece fa un discorso interiore, concentrato sui propri dolori e i propri lamenti.
La poesia di cui vorrei analizzare il testo è senza titolo, comparve per la prima volta sull'Almanacco dello Specchio n. 3 del 1973; fu poi inserita in varie antologie, tra queste vorrei ricordare le seguenti: Il pubblico della poesia, a cura di A. Berardinelli e F. Cordelli, Lerici, 1975; Poesia degli anni settanta, a cura di A. Porta, Feltrinelli, 1979; Poesia e realtà 1945-2000, a cura di G. Majorino, Tropea, 2000; La poesia italiana oggi, a cura di G. Manacorda, Castelvecchi, 2004.
Straziante è già il secondo verso della lirica, in cui Alesi parla al padre avendo la sicurezza che sia da qualche parte ad ascoltarlo, forse in un mondo ultraterreno: «Tu che ora sei nei pascoli celesti, nei pascoli terreni, nei pascoli marini». Successivamente il poeta insiste sul concetto già espresso, rafforzandolo con dichiarazioni d'amore filiale che probabilmente non ebbe mai modo di fare direttamente al padre, quando era in vita. Sembra quasi che la morte di quest'ultimo non sia mai avvenuta: «Tu che ora sei chiamato morto, cenere, mondezza». Segue una parte in cui Alesi descrive il cambiamento del suo giudizio nei confronti del padre attraverso gli anni, da: «Bello - forte - orgoglioso - sicuro - spavaldo» a «violento, assente, cattivo», le parole del poeta ci mostrano una situazione famigliare particolarmente difficile, col padre che ha perso il controllo della situazione e, con l'uso della violenza, cerca disperatamente di raddrizzare un rapporto (sia col figlio che con la moglie) ormai definitivamente compromesso: «Che vedevo che tu vedevi mia madre allontanarsi. Che vedevo che tu vedevi l'inizio di un normale drammatico sfacelo». Di qui l'abuso di alcol da parte di un uomo che non trova altre alternative alla disperazione e all'allontanamento dei suoi famigliari, un padre orgoglioso, come lo aveva definito Alesi, che rimane solo con sè stesso. La conoscenza della tossicomania del figlio e dell'attesa di un bambino da parte della moglie, che nel frattempo aveva iniziato un rapporto con un altro uomo, non possono che peggiorare le cose, e ancor più le peggiorano il rifiuto totale del poeta alla possibilità di ogni tipo di pacificazione: «Che ho visto che tu hai visto la tua mano stesa in segno di pace, di armistizio. / Che ho visto che tu hai visto sulla tua mano uno sputo». E siamo giunti al momento in cui la composizione poetica raggiunge l'apice della drammaticità: «Che ho visto che hai visto 3 anni passare. Che ho visto che hai visto che il giorno 9-XII-69 non sei venuto a trovarmi al manicomio. Perchè eri morto». Queste parole sono veramente strazianti soprattutto se si pensa che tutto ciò è accaduto veramente; si resta affranti, senza voce. Ma la poesia di Alesi continua con un'altra dichiarazione d'amore illimitato nei confronti del padre, e unisce al suo anche quello di sua madre: «Che ora vedi che io vedo che mia madre rimpiange. ALESI FELICE PADRE DI ALESI EROS». Negli ultimi versi il poeta confessa la sua ennesima fuga verso la solitudine e il suo pessimismo, lo stesso pessimismo che era presente nel padre, dice Alesi: «Che tu vedi che io vedo solo grande grandissimo nero lo stesso nero che io vedevo che tu vedevi. / Che ora continuerai a vedere ciò che io vedo». L'ultimo verso evidenzia un'immedesimazione tra padre e figlio, il poeta pensa alla stessa stregua del padre e vede ciò che vedeva il padre, quasi che la mente e gli occhi non siano più i suoi ma quelli del genitore scomparso.