domenica 28 gennaio 2018

La poesia neorealista italiana

Il neorealismo è stata una tendenza artistica che ha riguardato la letteratura, la pittura, il cinema e l'architettura. Si è sviluppata a partire dagli anni '30 del XX secolo, fin oltre la metà dello stesso. Come molti sapranno, i maggiori e migliori esiti del neorealismo si ebbero nel settore cinematografico, grazie ai film di registi come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Luchino Visconti: così bravi da esportare il cinema italiano in tutto il mondo. Sempre nel nostro paese, questa tendenza diede ottimi risultati nella prosa letteraria; infatti, scrittori come Alberto Moravia, Corrado Alvaro e Carlo Bernari ebbero il merito di rendere noti, nei loro romanzi, i fatti reali di un'Italia molto povera e oppressa da un regime quale era quello fascista, che, tra l'altro, faceva di tutto per nascondere certe fastidiose e scomode verità (si parla del terzo decennio del Novecento). Rimanendo nel campo letterario, per quanto concerne la poesia - ed è l'argomento di cui maggiormente voglio parlare - si può affermare che il capostipite della poesia "neorealista" fu Cesare Pavese, in quanto fu lui il primo poeta, in un periodo in cui dominava l'ermetismo, a scrivere e pubblicare poesie che trattassero temi sociali. Ciò avvenne, in particolare, nella raccolta Lavorare stanca, uscita per la prima volta nel 1936. Ben dieci anni dopo, praticamente subito dopo la fine della 2° Guerra Mondiale, fu Salvatore Quasimodo, col volume intitolato Con il piede straniero sopra il cuore (1946) a riprendere, seppure in modo nettamente diverso, il discorso di una poesia impegnata che si faccia capire facilmente e che tratti degli argomenti di attualità più coinvolgenti. Da qui in poi molti furono i poeti italiani che cominciarono a parlare della guerra, della lotta partigiana, delle ingiustizie sociali, della politica, della povertà e cose simili. Furono attratti dalla nuova corrente scrittori anziani (Sibilla Aleramo e Umberto Saba), ermetici (Alfonso Gatto e Libero De Libero) e giovanissimi (Elio Pagliarani, Giovanni Arpino e Luigi Di Ruscio). I migliori risultati però, si ebbero grazie alle prime raccolte di Franco Fortini (1917-1994) e all'unica di Rocco Scotellaro (1923-1953), che, purtroppo, uscì postuma. Per il resto, il neorealismo poetico italiano può delinearsi alla stregua di uno stato d'animo diffuso, che produsse versi di non eccezionale valore, ma che, comunque, ebbero il merito di dare una svolta alla produzione poetica nostrana, ancora troppo legata ad un logoro ermetismo. Tra gli altri poeti che si inserirono in questa tendenza, si ricordano i nomi di Elio Filippo Accrocca (1923-1996), Mario Cerroni (1921-1957), Luciano Luisi (1924), Franco Matacotta (1916-1978), Giorgio Piovano (1920-2008) e Cesare Vivaldi (1925-1999).
Chiudo riportando cinque testi poetici emblematici, dove si noterà più di ogni altra cosa l'uso comune del "noi", per sottolineare il fatto che, nei suoi versi, il poeta neorealista dà voce al popolo e ne è parte stessa.

 
Una scena del film "Roma città aperta" di Roberto Rossellini


ALLE FRONDE DEI SALICI
di Salvatore Quasimodo

E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

(da "Con il piede straniero sopra il cuore", 1946)




E GUARDEREMO
di Franco Fortini

E guarderemo dai vetri ancora i fanali e gli scali
Di una stazione di notte dove una folla tace
Di dormienti e di morti d'altri inverni.

La mano ha perduto la mano e la fronte è caduta.
Il cuore ha lasciato il cuore inerte. Passano
Sulla neve, e ripassano, le sentinelle.

Lasciaci gli occhi, sonno, e il loro male nel buio
Finché non cresca il giorno a riscuotere i visi
E a riconoscere i morti in quel giorno non gridi

E fiamma e pianto invada la mano gelata.

(da "Foglio di via e altri versi", 1946)




CORO DEI REDUCI
di Cesare Vivaldi

E noi gialli di sete, rotti di stanchezza, pieni
di freddo e di pidocchi, con tutta la nostra vita
passata a urlare di fame davanti ai campi di grano,
noi che partecipammo della natura dei deserti
come la pietra o come l'arbusto spinoso,
senz'altra casa che le ruote rorolanti
sotto i vagoni dove c'ingabbiarono come porci,
senz'altro conforto che l'odore della pioggia,
e il rumore della pioggia sui teli della tenda,
potremmo rileggere le parole dei morti? potremmo
resuscitare dalla terra quei corpi? Noi
che sempre patimmo arsura, e che combattemmo
senza sapere d'essere schiacciati!

In qualche posto, sotto qualche ignoto cielo
punteggiammo le sabbie d'iscrizioni: molti portarono
la sete delle loro bocche dove non ci son più fontane;
radici parlano di loro. Ma noi
sui vagoni non nostri, e alla fine del viaggio
per campi sterminati, duri al piede, guardammo
levarsi la polvere degli acquazzoni tra le baracche,
e ogni mattina un sole diverso dal nostro,
e stelle non nostre la sera, e la terra
fumante di caldo, e i remoti falò
dei nomadi tra le stoppie. Era dolce pensare
allora alle cose che aveva di buono la vita:
la frescura dei boschi, le ragazze, le stelle di casa,
ritrovarle nel cielo.
Ora di tutto quel tempo non resta che un sapore di polvere
secca nelle nostre gole, come la polvere
dei nostri cammini d'allora. L'oggi è la sposa
patria che ci sta accanto, il bambino malato di vermi,
la voglia di farla finita. I nostri ricordi, le voci
dei vecchi amici non sono che sbiadite immagini,
o parole che il rombo degli autotreni
lascia vivere un attimo. Ma chi ci ridarà
quel sole acceso sulla nostra giovinezza,
quei sospiri sugli usci, quelle donne snelle
in corso tra gli alberi verdi?
                                 Lo sconnesso
gergo dell'avvenire attendiamo si faccia parola.

(da "Ode all'Europa ed altre poesie", 1952)




CANTO DI LUCA MORO, IV
di Franco Matacotta

Chi siamo noi?
Siamo gente di ferro, di calce, di fango,
siamo gente di legno, di spago, di chiodi,
siamo gente senzatetto, senzaterra, senzarango,
eppure siamo qualcosa, odi.
Chi ha fatto le strade di pietra?
Chi ha fatto le strade d'asfalto?
Chi ha innalzato le piramidi
al suono di frustate sulle reni?
Chi ha scoperto la prima scintilla
strofinando due selci sul sentiero?
Chi ha scoperto per primo il battello
dando al vento la sua camicia di tela?
Chi ha seguito la strada di Cristo
chi lo ha accompagnato colle palme alle mura?
Chi ha dato il primo pilone alle travi
chi ha dato il tetto all'amore?
Chi ha posato per la statua di David?
Chi scava la camera ai morti
e dà all'assenza un piccolo posto d'ombra e di gerani fioriti?
Chi batte il martello
sull'architrave di cemento?
Chi mette il primo bullone alla carena?
Chi tesse le vene d'acciaio sulla terra
spingendo la locomotiva come una nube di tuono?
Chi aggioga la coppia di buoi?
Chi prende per mano la rossa folgore del toro
per aprire la fecondità delle mucche?
Chi pompa il fiume bianco delle mammelle?
Chi colora giugno di trifogli?
Chi lancia sulla pianta le mele?
Chi dà alla luna lo specchio dei pozzi?
Siamo gente di sottoterra, di sottoscala, di sottovento,
gente di sottopioggia, sottofonte, sottopiede,
senza padre e senza amore
senza fede e senza patria
senza famiglia e senza cuore,
eppure, siamo noi il grande giardino dei bambini,
siamo noi la grande musica di periferia
che impedisce alla città di marcire,
siamo noi la carne delle guerre
siamo noi il bersaglio delle decimazioni
siamo noi il fronte che indietreggia, che avanza,
seminando medaglie nelle retroguardie dei generali,
siamo noi la grande patria degli alberi e delle messi
siamo noi i padri delle pallottole future
siamo noi il muro, il fonte, il piedistallo, l'arco.

(da "Canzoniere di libertà", 1953)




E CI METTIAMO A MALEDIRE INSIEME
di Rocco Scotellaro

La stagione che alimenta
l’orgasmo tutto nostro è questa:
dai rosmarini bianchi di polvere
dai fiaschi delle rondini ai nidi.
Siamo nel mese innanzi alla raccolta:
brutto umore all’uomo sulla piazza
appena al variare dei venti
e le donne si muovono dalle case
capitane di vendetta.
Gridano al Comune di volere
il tozzo di pane e una giornata
e scarpe e strade e tutto.
E ci mettiamo a maledire insieme,
il sindaco e le rondini e le donne,
e il nostro urlo si fa più forte
come quello della massaia che ha sperso
la gallina e bandisce alle strade
solitarie il suo rancore,
come quello di borea che si sente
soffiando basso alla fiamma del sole
ora cresce le molli spighe alla falce.


(da "È fatto giorno", 1954)

domenica 21 gennaio 2018

A San Lorenzo in Lucina

Solo con Cristo nella chiesa vuota 
e scura di San Lorenzo in Lucina. 
Appesa sulla croce la divina 
immagine del dolore umano esprime 
e compatisce la mia stessa pena 

e la mia crocifissa solitudine 
che questa sera sanguina più sola, 

più sconsolata e schiaffeggiata e affranta.



Questa poesia di Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983) si trova alla pagina 86 del volume Poesie religiose e altre inedite, Aracne, Roma 2001. La curatrice di questo libro, Giuliana Rigobello, riunì 36 componimenti in versi che il poeta romano aveva scritto in un taccuino tra 1960 ed il 1966, e che mai aveva precedentemente pubblicato (a parte due liriche in versione completamente diversa). Come dice il titolo, si tratta per lo più di poesie ad argomento religioso; Vigolo non si può definire un poeta religioso a tutto tondo, ma, in molti suoi versi, si ritrovano numerosi riferimenti alla religione cristiana e non solo. Affascinato dalla città di Roma, dove nacque e visse, non smise mai di decantare la bellezza dei paesaggi, dei monumenti e degli edifici (compresi quelli di culto) della città eterna. Questa poesia, che in un manoscritto porta la data 27 gennaio 1965, probabilmente nacque da una delle infinite passeggiate di Vigolo per le strade di Roma, che lo portò, come gli capitava spesso, anche a visitare l'interno di una delle tante chiese capitoline. In questo caso il poeta varca la soglia di San Lorenzo in Lucina e si sofferma ad osservare il bellissimo Crocifisso dipinto da Guido Reni, che si trova sull'Altar Maggiore. Da questo momento scaturiscono i versi drammatici di Vigolo, la cui sostanza è ottimamente spiegata dalla curatrice nell'introduzione al libro, e che in parte riporto:

Componimenti come questo documentano uno stato d'animo profondamente afflitto, che ha le sue motivazioni, da una parte, nella vecchiaia sofferente di Vigolo, nell'isolamento, nell'oblio in cui è lasciata la sua opera, nel pensiero della morte più vicina, in un senso amarissimo di frustrazione, di scacco, come se la vita fosse stata spesa invano, marcata da un destino avverso, e, dall'altra, nell'iniquità dei tempi che vedono illanguidirsi i valori ideali, col crescere di una società materialista e lo sviluppo della civiltà tecnologica, indifferente, se non ostile, alla poesia.


Ma, oltre alla citata poesia, in questo prezioso volume se ne trovano altre ancor più drammatiche, che mostrano un Vigolo estremamente amareggiato dalla vita. Accanto a queste, per fortuna, ve ne sono alcune che esternano pensieri positivi: come se il poeta fosse continuamente soggetto a sbalzi d'umore, tali da compromettere anche una fede religiosa mai persa del tutto. Per concludere, affermo la grande importanza di quest'opera, dove è possibile leggere ulteriori versi di un grandissimo poeta (e lo ribadisco per l'ennesima volta) troppo spesso trascurato o marginalizzato per oscuri motivi.  



lunedì 15 gennaio 2018

Antologie: "Brucia, invisibile fiamma"

Tra le antologie poetiche ad argomento religioso uscite nell'ultimo ventennio, un posto di prim'ordine merita senz'altro Brucia, invisibile fiamma, a cura di Enzo Bianchi e Riccardo Larini, Edizioni Qiqaion, Magnano 1998. Per meglio chiarire il titolo ed il contenuto delle 228 pagine di questo libro, mi pare necessario riportare per intero la sinossi pubblicitaria dello stesso leggibile sul piatto posteriore:

Questo libro nasce dall'esigenza di restituire alla bellezza la centralità che le compete nella vita cristiana. La bellezza è infatti, come ricordava Hans Urs von Balthasar, "la manifestazione immediata di quel qualcosa di irriducibile che si scopre in tutto quanto è rivelato, di quell'eterna gratuità che abita l'essere di ogni esistente". La poesia veicola nelle nostre vite la bellezza della parola, che possiede un'energia capace di trasformare il nostro cuore, facendoci penetrare nel suo intimo, fino a ravvivare quell'invisibile fiamma che attende soltanto di ardere nella pienezza della vita. Alcune delle più belle poesie religiose del Novecento, disposte in modo da accompagnare la meditazione del mistero cristiano lungo i vari tempi dell'anno liturgico, sono così offerte a ogni lettore, vicino o lontano che sia dalla vita cristiana, per aiutarlo a penetrare i più profondi interrogativi su Dio, sull'uomo e sull'indicibile bellezza che sgorga dal loro incontro.

Quindi, l'opera è stata realizzata con l'arduo intento di esaltare, nello stesso tempo, la bellezza e la divinità della parola poetica, capace di riaccendere quell'invisibile fiamma presente nell'intimo di ogni anima umana. Il titolo è la traduzione italiana di un verso della poetessa russa Ol'ga Sedakova. I curatori, come già accennato, sono Enzo Bianchi e Riccardo Larini, ovvero l'ex priore ed un monaco della comunità religiosa di Bose. Bianchi è anche l'autore della prefazione.
Come spiegato nell'ultima parte dello scritto, le poesie seguono un ordine decisamente anomalo, parlando di antologie poetiche religiose: i tempi dell'anno liturgico. Per tale motivo i versi si leggono divisi nelle seguenti sezioni:

Tempo di Avvento; Dal Natale all'Epifania; Settimana di Passione; Tempo di Pasqua; Trasfigurazione; La Madre di Dio; Piccolo santorale poetico.

L'arco temporale preso in considerazione è l'intero secolo ventesimo. I poeti selezionati, sia italiani che stranieri, sono 62. Compaiono nomi più o meno noti; chi è presente con una sola poesia, chi invece, con oltre dieci. Anche la lunghezza dei componimenti in versi può variare di molto. Aggiungo infine che fa piacere, almeno per come la penso io, ritrovare qui alcuni nomi di poeti italiani ormai caduti nell'oblio o, meglio, mai abbastanza valorizzati (mi riferisco soprattutto a Elena Bono e a Donata Doni); e forse, il motivo di questa lacuna sta proprio nel fatto che costoro scrissero versi per lo più religiosi, in tempi in cui la religiosità veniva considerata quale elemento di nessun valore o, addirittura, discriminatorio (parlo, naturalmente, di certa critica letteraria militante, molto presente durante la seconda metà del XX secolo). Per chiudere, ecco, in ordine alfabetico, l'elenco dei poeti presenti in questa antologia.



Anna Achmatova, Renzo Barsacchi, Lucian Blaga, Aleksandr Blok, Dietrich Bonhoeffer, Yves Bonnefoy, Elena Bono, Martin Buber, Gesualdo Bufalino, Cristina Campo, Roberto Carifi, Angelo Casati, Paul Celan, Giuseppe Centore, Guido Ceronetti, Domenico Ciardi, Giovanni Cristini, Marina I. Cvetaeva, Roberta De Monticelli, Donata Doni, Thomas Stearns Eliot, Ugo Fasolo, Giovanna Fozzer, Luca Ghiselli, Margherita Guidacci, Marco Guzzi, Dag Hammarskjöld, Clemence Hawking, Seamus Heaney, Francis Jammes, Else Lasker-Schuler, Mario Luzi, Osip Mandel'tšam, Biagio Marin, Umberto Marvardi, Mat' Marija, Alda Merini, Thomas Merton, Davide Maria Montagna, Eugenio Montale, Roberto Mussapi, Ada Negri, José García Neto, Gino Nogara, Arturo Onofri, Boris Pasternak, Fernando Pessoa, Antonia Pozzi, Salvatore Quasimodo, Bino Rebellato, Clemente Rebora, Rainer Maria Rilke, Claudio Rodriguez, Ol'ga Sedakova, Sergio Solmi, Sr. Marie-Pierre di Chambarand, Giovanni Testori, Ronald Stuart Thomas, George Trakl, Giuseppe Ungaretti, Cesare Viviani, William Butler Yeats.


venerdì 5 gennaio 2018

Le false identità di Domenico Gnoli

Domenico Gnoli (Roma 1838 - ivi 1915) è stato un poeta anomalo nel panorama della nostra letteratura ottocentesca e non solo. Infatti, fin dalla sua prima raccolta di versi, uscita nel 1871, ebbe l'idea di modificare la propria identità, assumendo un altro nome. La cosa non si ripeté sempre, ma in altri, ulteriori momenti in cui si ripeté, questa falsificazione d'identità divenne un caso letterario; e fu proprio alle soglie del Novecento, quando lo Gnoli, ultra sessantenne, fece pubblicare una raccolta di poesie intitolata Fra terra ed astri, con lo pseudonimo di Giulio Orsini. Molti insigni uomini di lettere furono ancora una volta ingannati dal poeta romano e, poiché i versi di quest'ultimo si dimostravano più che mai validi e innovativi, inneggiarono al "nuovo poeta": il giovane Giulio Orsini che, finalmente, superava la soglia del XX secolo con un'opera fuori dal comune per le tematiche e per l'arditezza della forma. Questa illusione durò ben poco; presto, infatti, si scoprì che dietro quel giovane e baldo poeta si nascondeva l'anziano Gnoli, il quale, pur essendo già identificato, volle firmarsi col medesimo, falso nome, anche nella successiva raccolta poetica: Jacovella, che uscì due anni dopo e che rinnova e approfondisce i modi e gli argomenti della precedente. Soltanto nel 1907, in occasione dell'uscita di un volume che ricapitolasse la sua produzione poetica più significativa, Domenico Gnoli ritornò alla sua vera identità. Da ricordare che, precedentemente a Fra terra ed astri, il poeta romano aveva dato alle stampe un altro libriccino facendosi spacciare addirittura per una donna: Gina D'Arco. Malgrado non sia da annoverare tra i più interessanti e innovativi poeti del Novecento, lo Gnoli va ricordato, così come altri poeti attempati che nei primissimi anni del nuovo secolo andavano pubblicando le loro ultime raccolte (Vittorio Betteloni, Olindo Guerrini e Arturo Graf), per aver contribuito al rinnovamento della poesia italiana, già da anni in una fase di stallo, che vedeva all'orizzonte soltanto imitatori ed epigoni delle cosiddette "tre corone" (Carducci, Pascoli e D'Annunzio). Fu anche grazie allo Gnoli se, in quei tempi così sterili, si fece lentamente strada un nuovo modo di far poesia, che presto sarebbe esploso con i poeti crepuscolari e, un po' di tempo dopo, coi futuristi. Per quel che concerne il resto della produzione poetica, c'è da dire che Gnoli iniziò sulla falsa riga della Scuola romana, per poi avvicinarsi, come dimostrano le Odi tiberine, al Carducci; tracce di D'Annunzio si ravvisano nell'esile raccolta Eros, in cui si firmò, come già detto, con lo pseudonimo di Gina D'Arco. Ricordo infine che recentemente, la casa editrice Nuova S1 ha pubblicato una ristampa del libro più importante di Domenico Gnoli: Fra terra e astri.  Dopo le notizie bibliografiche, riporto quattro poesie che, grosso modo, rappresentano le fasi poetiche dello scrittore romano.



Opere poetiche

"Versi di Dario Gaddi", Galeati, Imola 1871.
"Odi tiberine", Loescher, Torino 1879.
"Nuove odi tiberine", Loescher, Roma 1885.
"Eros" (con lo pseud. di Gina D'Arco), Forzani, Roma 1896.
"Vecchie e nuove odi tiberine", Zanichelli, Bologna 1898.
"Fra terra e astri" (con lo pseud. di Giulio Orsini), Roux & Viarengo, Roma-Torino 1903.
"Jacovella" (con lo pseud. di Giulio Orsini), Roux & Viarengo, Roma-Torino 1905.
"Poesie edite ed inedite", Società Tipografico-editrice Nazionale, Torino-Roma 1907.
"I canti del Palatino. Nuove solitudini", Treves, Milano 1923.





Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 194-199; pp. 282-284).
"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (pp. 1179-1184).
"I poeti della scuola romana (1850-1870)", a cura di Domenico Gnoli, Laterza, Bari 1913 (pp. 147-175).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 206-207).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 97-102).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 82-91).
"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 342-347).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 140-153).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 115-118).
"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp. 1195-1215).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 11-17).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 677-700).
"I poeti della scuola romana dell'Ottocento", a cura di Ferruccio Ulivi, Cappelli, Bologna 1964 (pp. 139-163).
"Secondo Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Zanichelli, Bologna 1969 (pp. 1214-1223).
"Poeti italiani del XX secolo", a cura di Alberto Frattini e Pasquale Tuscano, La Scuola, Brescia 1974 (pp. 69-74).
"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 323-334).
"Bizantini e decadenti nell'Italia umbertina", a cura di Elsa Sormani, Laterza, Bari 1981 (pp. 248-257).




Testi

IL PASSEGGIO

È un verde colle aperto
Con fonti chiare e fiori e piante elette
E amorosi garzoni e giovinetti
Che pare un paradiso.

Quando presso a la sera
Soglion l'aure portar nova freschezza
Salgon le belle giovinette a schiera
Mostrando agli atti amore e gentilezza,
Sì che il colle ne olezza.
I garzoni si narran lor novelle,
Vengono e vanno e pure alle più belle
Tengon lo sguardo fiso.

Ha questa occhio d’amore,
Van dicendo, e quell’ha guancia rosata,
E quella ha un nuviletto di dolore
Sul bel viso che pare innamorata.
Taluno intorno guata,
Qual sotto un oleandro si riposa,
E quale in bianco vel tutta gioiosa
Raggia d’un gaio riso.

E poi suon di stormenti
Che dolcemente fan l’aria tremare,
E le belle dagli occhi rilucenti
Quasi tratte dal suon paion volare.
E dopo il sol calare
Pel ciel di rosa oltre ad un picciol monte.
Più d’uno allor, com’e’ dimostra in fronte,
Parte d’amor conquiso.

O giovinette al volto,
Belle e amorose e al cor false o spietate,
Quante bellezze ha il cielo in voi raccolte
A’ nostri danni par ve l’abbia date.
De la vostra beltate
Qual alma è dura si che non s’invoglie?
Ma poi null’altro che dolor si coglie,
Donne, dal vostro viso.

(da "Versi" di Dario Gaddi)





LO SGOMBERO

È tuo quel carro che torreggia avanti?
E che pensi? che fai? —
Quel carro è mio: seguo i penati erranti.
Muto casa, non sai? —

E muti in meglio? — Non lo so: che quella
Casa onde vengo via
Me la faceva stranamente bella
La matta fantasia.

Dico matta: per noi, uomini gravi,
Il giardin, la casetta
Dove passeggia il ricordo degli avi,
E dove ogni stanzetta

Ha una storia, e l'ascoltano i nepoti
Cheti, levando il mento,
Per noi son frasche, baie da idioti,
Ubbie del sentimento.

Noi gente seria ce ne andiam vagando
Dove il vento ci porti,
Per le case degli altri seminando
Andiamo i nostri morti.

(da "Odi tiberine")




VEGLIA

Saliva dai tetti, recinta di pallido nimbo,
con tacito passo la luna,
con passo di madre che mova a spiare se il bimbo
riposi a la tepida cuna.

Ed io sul balcone vegliavo, che il sonno da' stanchi
miei occhi è bandito :i pensieri
novelli d'amor senza posa l'inseguono a' fianchi,
qual muta d'alati levrieri.

Un'alta fenestra, sui tetti, splendeva lontano
lontano. Chi veglia a quest'ora?
È forse una povera madre cui stanca la mano
si piega sui lini, e lavora

lavora pel pane de' figli? È un convegno d'amanti?
Là dentro è un infermo? un morente?
Si trama là dentro un delitto? son risa? son pianti?
Ascolto, ma nulla si sente.

Sui tetti dormenti, recinta d'un nimbo leggero,
la pallida luna salìa:
confuso vegliava de l'alta fenestra il mistero
con quello de l'anima mia.

(da "Eros")




LA BASILICA

Ho nell'anima una deserta
Basilica: è umida e odora
Di vecchio. Lo spazio colora
La luce del vespero incerta

Che scende dai vetri appannati.
Vecchia pur essa, indolente
Stende le tinte sonnolente
E si perde tra i colonnati.

Entro il sacro silenzio dorme
Lo spirito degli anni grave;
Sorreggono il lungo architrave.
Varie di giro e di forme,

Le colonne, antichi frammenti
Di vaste moli ruinate,
Visioni pietrificate
Di macabri congiungimenti.

Le volute sui capitelli,
Le logore foglie d'acanto
Come un desiderio di pianto,
Si ripiegano sui listelli.

Sono frammenti d'antiche
Terme, di lieti triclini.
Di portici intorno a giardini
Ora coperti d'ortiche,

Di curvi teatri, di sale;
Sono frammenti di danze,
Sono memorie di speranze,
Sono ruderi d'ideale!

È lastricato il pavimento
Di morti: hanno levigate
Le faccie, le mani incrociate
Sul ventre, nell'atteggiamento

Ultimo. Qui nessuna arriva,
Tra i brividi del passato, nessuna
Aura del presente: nella bruna
Lontananza d'ogni cosa viva,

Non un suono, non una voce.
In fondo, sotto l'abside d'oro
Dove ritti a concistoro
Stanno gli apostoli, una croce

Nuda, nera, sul solitario
Altare le braccia spande.
È forse, o Umanità, la grande
Croce del tuo Calvario?

(da "Fra terra e astri")