martedì 2 maggio 2017

Ormai, se qualcuno invidio...

  Ormai, se qualcuno invidio, è l'albero.
  Freschezza e innocenza dell'albero! Cresce a suo modo. Schietto, sereno. Il sole, l'acqua lo toccano in ogni foglia. Perennemente ventilato.
  Tremolio, brillare del fogliame come un linguaggio sommesso e persuasivo!
  Più che d'uomini ho in mente fisionomie d'alberi.
  Ci sono alberi scapigliati e alberi raccolti come mani che pregano.
  Alberi che sono delicate trine sciorinate; altri come ceri pasquali. Alberi patriarcali vasti come case, rotti dalla fatica di spremer fuori la dolcezza dei frutti.
  C'è l'albero della città, grido del verde, unica cosa ingenua nel deserto atroce.
  Ma più di tutti due alberi ricordo, che crescevano da un letto di torrente, allato, come svelti fratelli.

  Essere un albero, un comune albero...



Questa prosa poetica è tratta dal volume Trucioli, di Camillo Sbarbaro (1888-1967), edito nel 1920 presso l'editore Vallecchi in Firenze e riproposto più volte negli anni, fino all'ultima edizione critica a cura di Giampiero Costa uscita nel 1990 grazie all'editore Scheiwiller di Milano (da cui ho selezionato il testo).

È, a mio parere, tra i migliori frammenti in prosa del poeta ligure che qui, inizialmente dichiara la sua sconfinata ammirazione nei confronti degli alberi; quindi, nelle parole finali, esprime un suo recondito desiderio: trasformarsi in uno di essi, diventare un vegetale. Quell'ormai che apre la prosa, sta ad indicare un percorso mentale dello scrittore che è giunto ad un punto d'arrivo sicuro: gli unici esseri viventi che meritano l'invidia umana sono gli alberi; i motivi sono quindi spiegati nelle successive affermazioni, alcune delle quali terminano con un punto esclamativo, quasi a voler manifestare la propria meraviglia di fronte alle specifiche caratteristiche ed ai privilegi posseduti da tutti gli alberi. Siano essi scapigliati, ovvero con rami e foglie sparsi in modo disordinato, o raccolti come i cipressi; siano situati in città, in campagna o sui monti, gli alberi, secondo Sbarbaro, mantengono sempre delle peculiarità che li rendono migliori rispetto a tutti gli altri esseri viventi, forse, anche grazie a quell'ingenuità citata a proposito di quelli cittadini (e qui, ancora una volta, torna la parola deserto a rimarcare l'estrema aridità della vita all'interno degli agglomerati urbani). Ritornando infine all'ultimo desiderio espresso in modo così intenso, mi vengono in mente alcuni versi bellissimi che fanno parte di un'alta opera di Sbarbaro: Pianissimo, in cui il poeta, consapevole della propria precarietà esistenziale, esprime nel finale un'altra aspirazione: tramutarsi in un rùdere, ovvero qualcosa di inanimato, ma che sia però in grado di resistere al tempo e sopravvivere per secoli e secoli: [...] Inerte vorrei esser fatto, / come qualche antichissima rovina, / e guardare succedersi le ore, / e gli uomini mutare i passi, i cieli / all'alba colorirsi, scolorirsi  / a sera...  

lunedì 1 maggio 2017

Clausura

Io son giunto a limitarmi un regno
tutto per me, mirabile e severo.
Simile a un frate austero
sto in una cella bianca
che ha l'uscio al monte, la finestra al mare.
Trascorrere quivi la mia vita eguale,
lenta ed assorta come una preghiera.
Ma qualche sera che il tramonto incendia
l'ultime nubi e incenerisce il cielo
l'anima sbatte come una bandiera.



Questa poesia di Adriano Grande (1897-1972) appartiene alla sezione Pause del volume La tomba verde. La raccolta uscì per la prima volta nel 1929 (edita da Buratti in Torino) ed è stata recentemente riproposta al pubblico della poesia grazie all'editore San Marco dei Giustiniani di Genova. Sono pochi versi che raccontano di una scelta di vita solitaria e isolata: una sorta di clausura. Un uomo (forse il poeta stesso) ha deciso di porre dei limiti al suo mondo (qui definito regno); ha fatto in modo che la sua casa divenisse una cella di colore bianco, simile a quella dei frati, situata sui monti. Questa piccola stanza ha soltanto una finestra, dalla quale, è possibile osservare il lontano mare. L'uomo ha deciso di trascorrere il resto della propria vita fra queste quattro mura anguste, limitando al massimo i suoi spostamenti; in tal modo il tempo trascorre più lento e ne rimane molto per meditare. Sembrerebbe quasi un letargo, un allontanamento da qualsiasi slancio vitale; se non fosse per quella finestra che dà sul mare e che offre all'uomo ormai completamente estraneo a tutto, l'unico, intenso contatto col mondo esterno. Ed è nelle sere in cui, al tramonto, il sole fa splendere (incendia) le ultime nuvole del giorno e, nello stesso tempo, colora il cielo di un grigio simile a quello della cenere, che l'uomo affacciato alla finestra si emoziona e si esalta davanti al solo spettacolo della natura che il luogo può offrirgli. In quel momento la sua anima assopita si risveglia e si esalta proprio come fa una bandiera esposta ad un forte vento.

Si parla, in breve, delle sensazioni che prova chi vive, per scelta o costrizione, in un luogo chiuso e angusto per un lungo periodo di tempo; può essere il frate o il prigioniero, entrambi per diversi motivi, spesso rintanati in una cella; può essere il malato in quarantena o chiunque abbia deciso di estraniarsi dal resto dell'umanità passando numerosi giorni fra quattro mura. Allora, può essere sufficiente un odore, una piccola visione o perfino un rumore a risvegliare l'anima addormentata, così da far rinascere antichi ricordi e impensate emozioni, oppure a creare, grazie alla fantasia, una serie di immagini e di eventi irreali (a questo proposito, molto bello è il testo della canzone La casa in riva al mare). Mi viene anche in mente, per la sintetica ma quanto mai efficace sensazione che l'anima umana prova di fronte a certe situazioni, la brevissima e celebre poesia di Giuseppe Ungaretti intitolata Mattina.    

domenica 30 aprile 2017

Poeti dimenticati: Eugenio Gara

Nacque a Genova nel 1888 e morì a Milano nel 1985. Debuttò nel mondo della letteratura con un libro di poesie, per poi intraprendere una lunga e prestigiosa carriera di critico musicale (specializzato in operistica); negli anni, collaborò con numerosi giornali pubblicando saggi memorabili. Scrisse anche molti libri, tra i quali vanno ricordati quelli concernenti le biografie del tenore Enrico Caruso e della soprano Maria Callas. Giovanissimo, si dedicò alla poesia pubblicando un volume ed altri versi sparsi in riviste d'inizio Novecento; le sue liriche prediligono i temi cari al decadentismo e al crepuscolarismo, ma a volte compaiono anche alcuni accenti romantici.




Opere poetiche

"La canzone del salice", Stab. Tipografico S. Morano, Napoli 1910.




Presenze in antologie

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 1, pp. 96-99).




Testi

SPLEEN

Come diventa triste la vita, triste e vana,
quando non si ha più fede, o sorella lontana:
quando le foglie secche de le nostre illusioni
si staccan da la rama di nostra gioventù,
e fugan senza luci, senza direzioni,
fugano solamente per non tornar mai più:
quando l'anima nostra con lo sguardo angosciato
affissa stranamente lo specchio del passato,
e non si riconosce, l'anima appesantita:
o sorella lontana, com'è triste la vita!

Com'è triste la vita quando non si ha una voce,
una piccola voce, che c'insegni a sperare;
che ci guidi e ci dica: - È questa la tua croce,
è questo il tuo cammino: lo devi camminare.
Una piccola voce che ne i giorni piovosi
ci sollevi lo spirito con i canti armoniosi:
una vocina dolce che ne le notti oscure
ci riconforti l'anima, ingombra di paure:
quando non si ha una voce, che a la nostra sia unita,
o sorella lontana, com'è triste la vita!

Com'è triste la vita quando non si ha una mano,
una manina piccola, che ci guidi lontano:
che ci aiuti a salire il periglioso colle:
che ci aiuti a discendere su le invocate zolle:
una manina piccola, che ci prenda pel viso
e c'imprima sul labbro un allegro sorriso:
una piccola mano che ci apra le pupille,
e ci additi i fantasmi vaganti a mille a mille...
Quando non si ha una mano che a la nostra sia unita,
o sorella lontana, com'è triste la vita!

Adesso, sorellina, io non so che viare,
viare lentamente, senza giammai sostare:
io non so che viare lungo i fondi sentieri
con il triste fardello de' miei tristi pensieri:
viare senza mèta - sia lontana o vicina -,
viare trascinando l'anima pellegrina:
viare etrnamente senza luce d'amore,
senza gloria di cielo, col mio pesante cuore...
O sorella lontana, mi vorresti aiutare?
Io non so che morire, e viare, viare...
.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .


(Da "La canzone del salice")

domenica 23 aprile 2017

La gondola come simbolo di morte nella letteratura decadente e simbolista

La gondola, caratteristica imbarcazione veneziana, in certa letteratura decadente e simbolista, diventò simbolo di morte. Lo attestano dei versi e delle prose pubblicate tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Ecco due esempi che confermano questa tesi. Il primo è un sonetto di Alessandro Varaldo (1876-1953), tratto dal Il 1° Libro dei Trittici (Tipografia di Pietro Gibelli, Bordighera): opera poetica decisamente sui generis uscita nel 1897 , in cui sono presenti poesie in forma di sonetto "a tema" dell'autore menzionato, di Alessandro Giribaldi (1874-1928) e di Mario Malfettani (1875-1911). Originale è anche l'impaginazione orizzontale dei testi. Poco conosciuto, questo libriccino è da considerarsi tra i più riusciti nell'ambito della poesia simbolista italiana. 


LA GONDOLA DAL LETTO DI ROSE

Passano i morti solo in questa pace
sopra quest'acque nere e lentamente?
Forse scorre veloce una silente
gondola di giustizia o di fallace

vendetta? Sul Canale Orfano sente
il marinaio un tremito: si tace
ogni canto, ogni bacio in questa pace
funebre: stanno le civette intente.

Ma una gondola passa in un istante
di terrore ed à rose in su i cuscini;
rose bianche d'amore e di desio,

e scorre sopra tanti morti e tante
vendette sola poi che ai mattutini
sogni i fantasmi cantano l'addio.



La poesia di Varaldo si trova nel capitolo intitolato Trittico de le acque ed è quanto mai misteriosa: la prima quartina è composta da domande inquietanti relative ad un non ben definito passaggio sulle acque scure del canale veneziano; forse di morti, oppure, di una gondola che simboleggi la giustizia o la vendetta. Il canale, definito "orfano", è circondato da un grande silenzio, da una pace "funebre". Poi l'apparizione terrificante della gondola che ha, al suo interno, dei cuscini ed un letto di rose bianche (esse, come dice il testo, simboleggiano amore e desiderio). L'ultima terzina del sonetto è inesplicabile: parla del passaggio solitario dell'imbarcazione sopra le acque che coprono tanti morti e tante vendette; quel "poiché" dell'ultimo verso sembrerebbe spiegare il motivo di tale passaggio nel fatto che i fantasmi (forse quelli dei morti citati in precedenza) cantano l'addio ai mattutini sogni.


Molto più limpido è il frammento che ho estratto dal racconto breve di Thomas Mann (1875-1955): La Morte a Venezia (Der Tod in Venedig, S. Fischer, Berlin 1912). 

Ma chi non ha mai avuto da reprimere un brivido passeggero, una misteriosa timidezza nel salire per la prima volta, o dopo lunga dissuetudine, in una gondola veneziana? Quella strana barca, tramandata dai tempi delle ballate e tanto singolarmente nera, come lo sono soltanto le casse da morto, ricorda avventure silenziose e scellerate nello sciabordio della notte, ricorda forse di più la morte stessa, la bara, il tetro funerale e l'ultimo, taciturno viaggio. E si è mai osservato che il sedile d'una tale barca verniciato in nero feretro, la poltroncina imbottita in nero opaco, è il sedile più soffice, più voluttuoso, più prostrante del mondo? Aschenbach se ne rese conto quando, ai piedi del gondoliere, di fronte ai suoi bagagli raccolti in ordine a prua, vi si accomodò sopra. I vogatori stavano ancora litigando, rudi, incomprensibili, gesticolando minacciosi. Ma la calma particolare della città acquatica sembrava accogliere mite, smaterializzare e disperdere sui flutti le loro voci. Faceva caldo là nel porto. Sfiorato dall'alito tiepido dello scirocco, sull'elemento cedevole, appoggiato al cuscino, il viaggiatore chiuse gli occhi, godendo un'inerzia tanto inusitata quanto dolce. Il percorso sarà breve, pensava; potesse durare sempre! Mentre oscillava leggero si sentiva allontanare dalla ressa, dal vociare confuso.



Qui viene descritto il momento in cui il protagonista, ovvero il professor Gustav von Aschenbach, sbarcato allo scalo veneziano, sale sulla gondola che lo deve portare all'interno della città lagunare. Nella gondola il nero prevale sugli altri colori e ricorda, per le dimensioni e la forma, una bara; per questo il pensiero della morte è conseguente, unito ad una sensazione d'inerzia, di rilassatezza e di voluttà tali da far sì che il viaggiatore desideri un viaggio infinito. Forse si tratta dell'ultimo viaggio (e in effetti, alla fine del racconto von Aschenbach troverà la morte nella città veneta); volendo poi fare un ulteriore, personale viaggio con la fantasia, si potrebbe pensare all'imbarcazione che ospita un personaggio misterioso, visibile nel celebre quadro L'isola dei morti (Die Toteninsel, 1880) del pittore elvetico Arnold Böcklin (1827-1901).

venerdì 21 aprile 2017

Ogni sera Ugo ricominciava l'identico itinerario...

Ogni sera Ugo ricominciava l'identico itinerario, seguendo i canali, con un'andatura indecisa, già un po' curvo, benché non avesse che quarant'anni. Ma la vedovanza era stata per lui un autunno precoce. Aveva i capelli pieni di una cenere grigia, era stempiato. Con gli occhi appassiti guardava lontano, molto lontano, al di là della vita.
E come era triste anche Bruges, in quel morire del pomeriggio! e come gli piaceva così! L'aveva scelta appunto grazie alla sua tristezza; per quello ci si era stabilito dopo il grande disastro. Una volta, nei tempi della felicità, quando viaggiava con la moglie e vivevano una vita capricciosa, un pochino cosmopolita, a Parigi, all'estero, in riva al mare, c'era venuto con lei, così, passando, senza che quella grande malinconia potesse qualche cosa sulla loro gioia. Ma poi, rimasto solo, s'era ricordato di Bruges, e di colpo aveva avuto l'intuizione che ormai era lì che doveva stabilirsi. Era una misteriosa equazione che s'imponeva: alla sposa morta doveva corrispondere una città morta. Il suo grande lutto esigeva un simile scenario: soltanto lì avrebbe potuto tollerare la vita. C'era venuto portato da un istinto. Che fuori di lì il mondo si agitasse e facesse rumore e accendesse le sue luminarie, intrecciasse i suoi mille fragori: egli aveva bisogno di un infinito silenzio e d'una esistenza talmente monotona che quasi non gli desse più la sensazione di vivere.



È, quello sopra riportato, un frammento del romanzo di George Rodenbach (Tournai 1855 - Parigi 1898) intitolato Bruges la morta (Bruges-la-morte, 1892), tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1907, riproposto con una nuova traduzione nel 1955 (anniversario dei cento anni dalla nascita dello scrittore belga), nella celebre collana B. U. R. della casa editrice Rizzoli di Milano. Precisamente, si tratta della prima pagina del capitolo II. Questo romanzo è da annoverare tra i migliori del periodo decadente e simbolista della letteratura europea. Rodenbach, conosciuto soprattutto come poeta, creò questo capolavoro grazie al suo amore per la città di Bruges, che ebbe il merito di trasmettere a molte generazioni, comprese quelle dei nostri poeti crepuscolari come Fausto Maria Martini (che fu il primo a tradurre il libro nella nostra lingua), Marino Moretti e Corrado Govoni. A proposito di quest'ultimo, pubblicò nel 1903 l'opera poetica Armonia in grigio et in silenzio, che possiede requisiti assai vicini al romanzo di Rodenbach, comprese le citazioni della città belga e dei suoi famosi beghinaggi.

Riguardo al frammento che ho estratto, si possono notare in modo tangibile, sia l'atmosfera malinconica (tipica di tanta letteratura decadente) della città che l'autore definisce "morta", sia il simbolismo tutt'altro che nascosto della città stessa che viene paragonata alla vita ed all'umore del protagonista: un uomo maturo, affranto dal lutto (la moglie era recentemente scomparsa), solo e stanco della propria, inutile esistenza.    

giovedì 20 aprile 2017

Antologie: "Dal Carducci ai contemporanei"

Tra le antologie scolastiche concernenti la poesia italiana otto-novecentesca è doveroso parlare dell'opera Dal Carducci ai contemporanei (sottotitolo: Antologia della lirica moderna) a cura di Giovanni Getto e Folco Portinari, Zanichelli, Bologna 1956. Dalla Giustificazione presente già dalla prima edizione, si legge che l'antologia è rivolta soprattutto agli studenti dell'ultimo anno delle scuole medie superiori; per tale motivo si spiegano le molte esclusioni. A partire dalla 2° edizione però, i due curatori tornano sui loro passi, includendo alcuni nomi di poeti contemporanei che, d'altronde, non avrebbero meritato l'iniziale, severa esclusione. La definitiva 3° edizione vede infine un aumento del numero delle poesie selezionate, specialmente per autori come Pascoli, Saba, Ungaretti e Montale, ovvero i pilastri della poesia italiana moderna. Nel complesso, considerando i componimenti in versi scelti e le interessanti note che spiegano ed approfondiscono ogni testo poetico presente, si può affermare che questa antologia sia tra le migliori del periodo; è sottinteso che si sta parlando, come già detto, di un libro prettamente rivolto agli studenti. È altrettanto scontato che questa antologia sia ormai datata, e non risulti esaustiva per quel che riguarda l'intero XX secolo. Ecco infine i nomi dei poeti presenti.



DAL CARDUCCI AI CONTEMPORANEI

Giosue Carducci, Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio, Sergio Corazzini, Guido Gozzano, Aldo Palazzeschi, Clemente Rebora, Dino Campana, Camillo Sbarbaro, Arturo Onofri, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Vittorio Sereni.


lunedì 17 aprile 2017

La rosa bianca

Coglierò per te
l'ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l'hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
È un ritratto di te a trent'anni.
Un po' smemorata, come tu sarai allora.




Questa è la poesia che apre la tenue raccolta di Attilio Bertolucci (1911-2000): Fuochi in novembre (Minardi, Parma 1935). È, secondo me, tra le migliori del poeta emiliano; ricordo che la lessi per la prima volta in una famosa antologia della lirica novecentesca italiana e mi piacque immediatamente per l'estrema semplicità e, nello stesso tempo, per l'ancestrale simbolismo che racchiude. Non era passato molto tempo da quando, anch'io, ebbi la fortuna di cogliere l'estrema bellezza delle rose bianche: quell'intimo senso di mistero e di purezza che posseggono questi fiori dal colore splendente. Ebbi modo, anche, di ascoltare la stupenda canzone di Sergio Endrigo (1933-2005) intitolata, appunto, La rosa bianca; e in seguito venni a conoscenza del fatto che Endrigo si ispirò ad un'altra poesia dello scrittore e rivoluzionario cubano José Martí (1853-1895), la quale recita così: Cultivo una rosa blanca, / En julio como en enero, / Para el amigo sincero / Que me da su mano franca. / Y para el cruel que me arranca / El corazón con que vivo, / Cardo ni oruga cultivo: / Cultivo la rosa blanca. È evidente che qui il fiore diviene simbolo di pace e di amicizia, sempre grazie a quel colore bianco che emana soltanto sentimenti puri e positivi. Seppi poi di un gruppo studentesco nato in Germania durante la 2° Guerra Mondiale, che si oppose in modo netto al regime nazista e che si identificò col nome: Rosa Bianca (Weiße Rose), ponendo ancora una volta questo fiore a simbolo della non belligeranza e, in questo preciso caso, della cristianità. Tornando alla poesia di Bertolucci, essa parla, principalmente, dell'amore che prova il poeta nei confronti della compagna; amore che si manifesta con l'offerta di un fiore meraviglioso: una rosa candida fiorita in settembre, alla fine dell'estate. Probabilmente il fiore rappresenta il simbolo della giovinezza che sta per andarsene (un ritratto di te a trent'anni). Il poeta descrive la rosa con l'aggettivo "dolce", quasi che fosse qualcosa di commestibile; in realtà la dolcezza deriva dal fatto che, malgrado le api l'abbiano "visitata" e si siano nutrite del suo polline, essa ha miracolosamente mantenuto una sorta di verginità, di pulizia e lucentezza tali da disorientare (far tremare) chi la guarda.


Tola-102, "White Rose"
(da questa pagina web)